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Dramma Ilva non è figlio solo dei Riva ma di politica che per decenni e fino a ieri irresponsabile.

ORA UNICA VIA àˆ L’ESPROPRIO

“Il damma ambientale, sanitario, sociale dell’Ilva di Taranto certo è figlio di una famiglia, i Riva, che come si legge negli atti della magistratura ha agito da associazione a delinquere più che da imprenditore. Ma non ci si può fermare a questo, bisogna dire con forza e con chiarezza che a generarlo, questo dramma, è stata anche una politica – di destra e di sinistra, locale e nazionale – che per decenni e fino a ieri con rare eccezioni ha fatto finta di nulla nei casi migliori e nei peggiori si è comportata da complice di chi avvelenava Taranto impunemente e contro ogni legge. Lasciare l’Ilva un minuto in più in mano agli attuali proprietari, da chiunque rappresentati, equivarrebbe a perpetuare tutto questo”. E’ quanto dichiarano Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, già  senatori del Pd, che nella scorsa legislatura furono i due soli parlamentari democratici, a non votare la fiducia al governo Monti sul cosiddetto decreto salva-Ilva.  “Oggi, come è evvidente a tutti – aggiungono Della Seta e Ferrante – la situazione dell’Ilva e di Taranto è quasi in un vicolo cieco. La sola via, strettissima, per uscirne è togliere la fabbrica dal controllo dei Riva, recuperare all’uso publico il loro bottino, affidare la gestione dello stabilimento a persone non solo competenti ma indiscutibilmente libere da ogni condizionamento di parte e decise ad agire nell’esclusivo interesse della città  e del suo futuro: . Ogni ulteriore apertura di credito all’attuale proprietà , comunque travestita, sarebbe pura follia”.  

 

Scelte nette e radicali per uno sviluppo sostenibile

pubblicato sulla Staffetta Quotidiana

Le opportunità  offerte dallo straordinario sviluppo dell’innovazione tecnologica, tra i molti effetti positivi, contribuiscono anche a un paradosso: lo scarto sempre più evidente con politiche che restano sempre arretrate. Un paradosso che appare più evidente proprio in campo energetico. Da una parte sembra sempre più vicino l’avverarsi della profezia di Ahmed Zaki Yamani, storico “ministro degli esteri” dell’OPEC all’epoca delle crisi petrolifere degli anni 70, per cui “l’età  della pietra non si concluse per l’esaurirsi delle pietre, ma a causa dell’innovazione tecnologica che è il vero nemico mortale dell’OPEC”; dall’altra le politiche concrete in campo energetico sembrano attardarsi nella difesa del grumo di interessi “fossili” senza percepire a pieno la valenza, anche di sviluppo e nuova occupazione, oltre che i benefici effetti ambientali, che fonti rinnovabili ed efficienza energetica potrebbero avere per l’intero sistema-paese.

Quando, nel 2007, si mise finalmente mano a una riforma delle politiche di incentivazione delle rinnovabili elettriche, varando un efficace conto energia per il fotovoltaico e intervenendo sulle altre forme di incentivazione, nessuno era in grado di prevedere quella vera e propria esplosione che ha portato in pochissimo tempo, non solo a colmare il gap – allora assurdamente negativo – che si doveva affrontare nei confronti di altri paesi europei (Germania e Spagna in primis), ma anche a battere vari records, la quantità  di fotovoltaico istallato in un solo anno ad esempio, fino ad arrivare ai quasi 100 TWh di produzione da rinnovabili che è lo stupefacente (se la volessimo guardare da quel 2007) numero di oggi, che ci ha fatto superare gli obiettivi posti dallo stesso Piano di Azione Nazionale sulle rinnovabili e ci mette in grado di raggiungere tranquillamente gli obiettivi europei al 2020. Tutto bene quindi? L’innovazione tecnologica “vince” sulle prudenze della politica? No, affatto. La lentezza nell’adeguare il sistema di incentivazione, ha prima prodotto un effetto “bolla” per cui si sono mantenuti incentivi troppo alti in confronto ai costi, che diminuivano rapidamente, delle tecnologie impiegate, e poi per rimediare a quello stesso ritardo si sono scelti strumenti, aste e registri, che in pratica hanno determinato, stanno determinando un brusco stop a quel settore, che unico in questi anni di crisi drammatica, aveva dimostrato un suo potenziale anticiclico, e gli occupati degli scorsi anni anche qui si stanno trasformando in cassaintegrati.

Anche sull’efficienza energetica, che dovrebbe essere la prima gamba su cui fondare qualsiasi “strategia energetica”, se è vero che finalmente con il conto termico varato alla fine dello scorso anno si è imboccata un strada giusta e virtuosa, e che i titoli di efficienza energetica, seppur con qualche limite, hanno avuto in questi anni effetti positivi non trascurabili, come dimenticare le titubanze insopportabili che hanno impedito sino adesso la stabilizzazione di quella norma, semplice e sacrosanta, che è lo sconto fiscale per le ristrutturazioni edilizie con risparmio energetico? O quella straordinaria occasione persa a livello europeo, quando nel pacchetto 20-20-20, si rinunciò a rendere cogente proprio quell’ultimo 20 riferito alla percentuale di miglioramento dell’efficienza, attardandosi invece, Confindustria e Governo Berlusconi, in un battaglia perdente e di retroguardia contro l’approvazione del pacchetto stesso ?

Si potrebbe continuare a lungo nell’elenco degli esempi che rendono evidente il ritardo delle classi dirigenti italiane, e della politica in primo luogo, ma è forse più utile cercare di trovare una strada per colmare quella distanza.

Si scelga allora nell’implementazione della Strategia Energetica Nazionale, di abbandonare l’idea inutile e pericolosa per l’ambiente delle “trivelle libere”, e piuttosto si individuino gli strumenti concreti per avvicinare la gridparity per le rinnovabili. Si scelga con nettezza il gas quale fonte fossile di transizione, affidando alle più moderne centrali termoelettriche d’Europa, quelle a ciclo combinato, anche la funzione di backup, sfruttando la loro maggiore flessibilità  e si abbandoni un a volta per tutto il carbone. Si affronti il problema del differenziale di costo dell’energia, tra l’Italia e i suoi concorrenti europei, ridisegnando in maniera più razionale i pesi sui vari settori (alleggerendo quello sulle piccole e medie imprese, le più penalizzate e il tessuto più prezioso del nostro sistema economico), depurando le bollette elettriche dagli oneri impropri (l’uscita dal nucleare, gli sconti per le ferrovie, ecc.) che più correttamente devono essere trasferiti sulla fiscalità  generale, si eviti di pagare l’IVA sulla componente A3. Si spinga finalmente su politiche regolatorie che incentivino l’efficienza energetica, fonte di sviluppo e occupazione come recita il famoso e stracitato studio della stessa Confindustria.

Scelte nette, radicali che servirebbero a costruire quel futuro sostenibile, non più solamente necessario per l’equilibrio climatico del Pianeta, ma drammaticamente urgente per affrontare la crisi economica e sociale in atto. E’ questa la vera sostenibilità  su cui la politica si dovrebbe impegnare

Sessantenne, moderato, socialista: Epifani leader perfetto per questo Pd

pubblicato su Huffingtonpost.it

Se la leadership di un partito deve rifletterne profilo e consistenza, Epifani è il leader perfetto per questo Pd.

Ha 60 anni, cioè più o meno l’età  media – secondo un recente sondaggio Ipsos – di oltre metà  dell’attuale elettorato democratico (in Italia non c’è un altro partito con una percentuale così alta di elettori sopra i 55 anni).

Non è certamente un radicale, anzi nella sua esperienza politica ha sempre agito da “uomo di mezzo”: nel Psi un po’ più a sinistra di Craxi, come segretario Cgil un po’ più a destra del predecessore Cofferati.

àˆ figlio della tradizione socialista. Va detto per onestà  intellettuale: figlio legittimo e non improvvisato, diversamente da quasi tutta la nomenclatura ex-Ds che socialista è divenuta soltanto a babbo morto (“babbo” era il Pci).

Nessuno sa se Epifani sarà  solo un “traghettatore” (come molti vorrebbero sentirgli dire e come lui, immaginiamo, non dirà  mai) o se una volta eletto segretario gli verrà  voglia di insistere. Certo la sua storia, la sua immagine, il modo in cui è stato scelto sembrano quanto di più lontano dall’idea originaria del Pd e invece fotografano con notevole nitidezza il paradosso che rischia di inghiottire il Partito democratico: politicamente un “neonato”, di gran lunga il più giovane tra tutti i partiti italiani – più giovane persino del movimento di Grillo -, ma un neonato che dopo appena sei anni di vita sembra sfibrato e quasi immobile come un ultracentenario.

Perché questa deriva? Forse il vizio sta nell’origine, nell’illusione che una scommessa ambiziosa e difficile come quella di dare vita a un partito riformista di massa con la testa, le gambe, il cuore nei problemi e nelle sfide del XXI secolo, potesse essere giocata e vinta da gruppi dirigenti che non solo anagraficamente, ma culturalmente, la testa, le gambe e il cuore ce l’hanno altrove, ce l’hanno in esperienze e in pensieri irrimediabilmente datati.

Insomma, era da ingenui (noi siamo tra quegli ingenui) aspettarsi molto di più e di diverso da un partito i cui capi si dividono tra la Scilla dei neo-laburisti alla Stefano Fassina per i quali il lavoro si difende e l’economia si rilancia buttando miliardi – è un esempio, ma un esempio illuminante – per tenere aperte le miniere del Sulcis, e la Cariddi dei neo-centristi che sognano – meglio sognavano: il sogno è quasi realtà  – di trasformare il Pd in una mini-Dc programmaticamente estranea ad ogni velleità  di cambiamento radicale.

Naturalmente moltissimi elettori del Pd vorrebbero altro, vorrebbero un partito che dia voce, spazio, peso a quella “altrapolitica” – come la battezzò mesi fa Stefano Rodotà  – che abbonda nella società  e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. E’ la politica dei giovani che chiedono un welfare che protegga e sostenga le persone più che i posti di lavoro, delle imprese che da tempo hanno scommesso sulla “green economy” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’innovazione, dei cittadini che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, allargamento della sfera dei beni comuni dall’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono classificabili come “liberali”, altre nascono dall’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande “radicali”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche.

Ecco, pare improbabile che chi si riconosce in questa prospettiva si lasci coinvolgere o anche solo incuriosire sia dal Pd com’è diventato, Epifani compreso, sia da costituenti e ricostituenti varie che dovessero nascere attorno a Sel. Fuori da qui rimane uno spazio immenso di sensibilità , di opinioni, di aspirazioni a oggi senza risposta: c’è da sperare che ad occuparlo non resti soltanto Grillo col suo indigesto (l’ultimo no allo “ius soli” insegna…) “gramelot” populista. 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

 

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