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Europei di calcio in Israele: l’idea fetida del boicottaggio

pubblicato su Huffinfgtonpost.it

Il 5 giugno si inaugurano in Israele i campionati europei di calcio “under 21”. E come in tutte le occasioni che vedono lo Stato ebraico protagonista di eventi culturali o sportivi, è partita l’abituale campagna di boicottaggio contro i “sionisti”: appelli all’Uefa e al suo presidente Platini perché spostino sede alla rassegna, in Italia appelli alla Federazione di calcio perché ritiri la nostra nazionale dalla competizione e appelli ai giocatori azzurri perché “almeno” non stringano la mano ai colleghi israeliani.

Qualcosa di analogo capitò proprio in Italia nel 2008: bersaglio in quel caso era il Salone del libro di Torino, “colpevole” di accogliere Israele e i suoi scrittori come ospiti d’onore.

Naturalmente, e per fortuna, quest’ultimo invito al boicottaggio cadrà  nel vuoto come i precedenti, ma resta lo sconcerto e un pò di rabbia davanti a prese di posizione anche autorevoli – da Desmond Tutu a Ken Loach – che teorizzano l’espulsione di Israele da qualunque consesso internazionale.

Il paragone più frequentato per giustificare tale richiesta è con il Sudafrica dell’apartheid: paragone con piena evidenza totalmente improprio. Là  vi era uno Stato le cui leggi, la cui Costituzione discriminavano tra cittadini di serie A e di serie B. Uno Stato dunque di per sé illegittimo.

Qui vi è una guerra che dura da decenni: una guerra nella quale diversi Paesi hanno cercato – in alcuni casi (Iran) cercano tuttora – non di sconfiggere Israele, ma di cancellarla; una guerra che ha visto commettere crimini terribili da una parte e dall’altra.

Personalmente pensiamo tutto il male dell’occupazione israeliana, senza dubbio illegale, della Cisgiordania e di Gaza; della violazione sistematica da parte di Gerusalemme dei diritti umani, civili, sociali, politici di milioni di arabi palestinesi; delle politiche attuali del governo israeliano, che con determinazione pari soltanto a quella di Hamas si batte contro ogni residua possibilità  di pace e che sta trasformando il sogno democratico e umanitario del movimento sionista nell’incubo di un apartheid non di diritto ma di fatto.

Pensiamo malissimo delle politiche di Israele, ma pensiamo ancora peggio dello strabismo, del doppiopesismo, dell’ipocrisia insopportabili di chi sotto il pretesto della denuncia – ripetiamo: sacrosanta – dei comportamenti spesso scellerati dei governi israeliani, in realtà  dice ben altro: dice che illegittima non è la condotta di Netanyahu ma è l’esistenza di Israele in quanto “entità  sionista”.

Una bestialità  immensa, che ignora la storia e condanna ogni speranza di pace: una bestialità  che in troppi nella sinistra italiana ed europea e in ciò che resta dei movimenti pacifisti tuttora accarezzano e dalla quale viene su, dispiace dirlo, un terribile e inequivoco fetore.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

Lavoro, basta la parola?

pubblicato su Huffingtonpost.it

Lavoro, lavoro, lavoro. Tutti sembrano d’accordo: il lavoro che manca, le migliaia di aziende in difficoltà  costrette a licenziare, i tassi stratosferici di disoccupazione giovanile (40%), sono il problema più urgente e doloroso dell’Italia, il segno più acuto e drammatico di questa crisi interminabile.

Tutti sembrano d’accordo ma molti, troppi, affrontano il tema e propongono soluzioni considerando solo le “forme” del lavoro. Da una parte, i liberisti più o meno improvvisati di casa nostra hanno teorizzato per anni che l’economia italiana era ferma per colpa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: salvo scoprire, una volta che il “laccio” è stato allentato dal governo Monti, che ciò non ha aiutato di una virgola a ritrovare la via del lavoro. Dall’altra parte, quasi tutta la sinistra sindacale ripete da mesi che l’urgenza principale in Italia è cancellare la legge Fornero, come se prima vivessimo nell’Eldorado e non in una crisi identica a quella attuale.

Forse bisognerebbe cambiare punto di vista, magari lasciando da parte le dispute ideologiche novecentesche – mitologia della flessibilità  senza limiti contro idolatria del posto fisso a vita – e partendo da ciò che accade qui ed ora, dentro la crisi e in mezzo al XXI secolo. Per esempio, per affrontare con occhi contemporanei il dramma della perdita di lavoro converrebbe dare un’occhiata a quello che è successo a Pratolongo, provincia di Padova: qui è nata una nuova fabbrica di frigoriferi, e a realizzarla – si pensi un po’… – è stato il principale produttore cinese di elettrodomestici. Proprio così: i terribili cinesi, quelli che secondo tanti cancelleranno in breve tempo l’industria manifatturiera italiana, hanno scelto il nostro nord-est per fabbricare i frigoriferi con cui dare l’assalto ai mercati europei. Lo hanno fatto malgrado il costo della manodopera tre o quattro volte superiore a quello di casa loro, malgrado le rigidità  della legislazione italiana sul lavoro; lo hanno fatto perché pensano che il talento, l’inventiva del lavoro italiano siano i più adatti ad imporre i loro prodotti tra i consumatori europei.

In pochi si sono fermati su questo o su altri episodi analoghi, come in pochissimi si sono accorti di un altro dato interessante: buona parte di manifatturiero italiano di qualità  che malgrado la crisi è riuscito in questi anni a difendere o persino ad aumentare il proprio export, è fatta da imprese che hanno investito in innovazione “green”, cioè nel miglioramento ambientale di prodotti e processi.

Certo in questo come in ogni campo dell’organizzazione sociale le “forme” sono importanti. Così, nessuno può negare che il nostro mercato del lavoro sia oppresso da ingessature insopportabili e soprattutto dal peso di un costo del lavoro astronomico, e nessuno dovrebbe negare (alcuni lo fanno) che vi sono diritti dei lavoratori – a cominciare dal diritto di scegliersi il sindacato che vogliono… – semplicemente indisponibili. Ma per fermare il declino competitivo e occupazionale dell’industria italiana servono, in primo luogo e per l’appunto, politiche industriali. E allora se il Presidente del consiglio Letta, come ha detto recentemente alla platea confindustriale, si pone l’obiettivo di portare il peso dell’industria dal 18% al 20% del Pil, deve dire attraverso quali azioni ritiene di centrare un traguardo così ambizioso.

Si prenda l’energia. Per abbattere i costi della bolletta elettrica delle piccole e medie imprese che soffrono di un gap eccessivo nei confronti dei loro competitori stranieri, si vuole continuare a difendere gli interessi dei grandi gruppi “fossili”, o come ha fatto con coraggio la Germania e stanno facendo gli Usa di Obama si deciderà  di puntare su efficienza e rinnovabili, e sul gas come energia di transizione rinunciando invece al carbone? La Germania e ora anche gli Stati Uniti grazie a questa scelta fanno nascere molti nuovi posti di lavoro e accrescono di molto la loro autonomia energetica: l’Italia pensa di imitarli?

Sulla chimica: si continuano a rinviare all’infinito le bonifiche dei siti industriali dismessi, lasciando sul terreno, letteralmente, veleni di ogni sorta, o si punta sulla chimica verde, settore nel quale l’Italia già  può vantare posizioni di leadership mondiale e che, se adeguatamente sostenuto, può consentire la creazione di lavoro efficiente e duraturo?

Ancora. Sui rifiuti si vuole davvero smantellare l’orrenda pubblicità  dell’emergenza spazzatura di Napoli o di Palermo o di Roma e scommettere sulle tecnologie per massimizzare il recupero di materia, decisive per un Paese come il nostro a vocazione manifatturiera ma povero di materie prime?

L’elenco potrebbe continuare a lungo: è di questo che si parla quando si dice “green economy”; si parla di lavoro, non solo di ambiente. Un cammino così è la via maestra per portare l’Italia fuori dal tunnel della crisi, ma una via che richiede decisioni chiare e nette. Sarà  in grado di prenderle un questo Governo di “larghe intese” dove dentro c’è di tutto? E sapranno sostenerle i rappresentanti degli imprenditori italiani, quella Confindustria che quando l’Europa varò il pacchetto “20-20-20” per promuovere l’innovazione energetica e combattere i cambiamenti climatici – sfida decisiva anche per rilanciare le nostre economie – si attardò in una guerra di resistenza perdente e retrograda?

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE 

 

Il 28 giugno nasce Ecogreen

Il 28 giugno prossimo, con un incontro pubblico a Roma (Auditorium del MAXXI, ore 10-17), comincia il cammino di ECOGREEN PER L’ITALIA, “impresa politica” per dare nuova speranza all’Italia partendo dall’idea che un’economia e una società  “green” siano la risposta più efficace, più promettente ai grandi problemi che ci assillano.
 

Siamo ECOGREEN perché pensiamo che solo a partire da un “green new deal” si può ritrovare speranza in un futuro migliore del presente e si possono superare le grandi crisi – sociale, economica, ecologica – dell’Italia e del mondo. Serve un nuovo patto sociale fondato sulla green economy e sulla conversione ecologica di produzioni e consumi: un patto per risollevare l’Italia nel segno della sostenibilità  ambientale e sociale; per creare ricchezza senza distruggere la natura, il paesaggio e gli equilibri ecologici; per creare lavoro investendo nella qualità  ambientale e nelle altre grandi risorse immateriali come l’educazione, la cultura, la conoscenza, la coesione sociale, la partecipazione democratica, la legalità . 

 

Amiamo l’Italia, per questo la vogliamo più sostenibile, più dinamica, più equa, più civile. Crediamo che il nostro Paese abbia le risorse materiali e morali, il patrimonio di saperi scientifici e tecnologici, necessari a garantire una prospettiva di sviluppo duraturo e di benessere diffuso: ma tale possibilità  non è scontata, per concretizzarla occorre dare nuova centralità  ai valori dell’equità  sociale, della sostenibilità  ambientale, dell’etica pubblica, della promozione del merito individuale.  

 

Al centro della nostra iniziativa mettiamo cinque parole.

 

La prima parola è crisi, come problema e come occasione e necessità  di cambiamento. Nessun nuovo progetto politico è oggi non solo credibile, ma nemmeno dicibile,  se esso non si offre quale risposta concreta e innovativa alla crisi di questi anni. Una crisi molteplice, che come in un gioco di scatole cinesi ne contiene diverse, tutte fra loro collegate ma ciascuna con propri tratti specifici. Vi è la crisi globale di un’economia finanziaria che lasciata crescere senza limiti, né regole, né controlli, ha colpito al cuore l’economia reale, distrutto milioni di posti lavoro, alimentato fenomeni inediti e terribili di sofferenza sociale. Vi è la crisi europea del lavoro che manca sempre di più, alimentata da molte scelte recenti di politica economica dell’Unione europea che hanno puntato esclusivamente sull’obiettivo di una drastica riduzione di deficit e debiti pubblici; di un orizzonte competitivo che vede irrompere nuovi e formidabili protagonisti globali; dei nostri sistemi di welfare che rischiano di pagare prezzi pesantissimi alle politiche di risanamento dei bilanci pubblici. Ancora, vi è la crisi climatica ed ecologica, i cui tempi sono più dilatati ma i cui costi prevedibili, sociali ed economici, fanno impallidire tutto il resto. Per l’Italia, vi è poi un’ulteriore scatola cinese, un supplemento di crisi sociale, ambientale, democratica. Siamo tra i grandi Paesi europei uno di quelli con la distanza maggiore e più rapidamente crescente tra ricchi e poveri, con la percentuale più alta di giovani senza lavoro, dove l’amministrazione pubblica funziona peggio e costa di più, dove i meriti individuali, la mobilità  sociale e le aspirazioni dei più giovani sono sistematicamente sacrificati agli interessi auto-conservativi di piccoli e grandi gruppi di pressione interessati soprattutto a difendere il loro potere e i loro privilegi; convivono tra di noi un popolo di evasori fiscali e un altro popolo di contribuenti tassati per oltre metà  del loro reddito; siamo assediati da fenomeni consolidati e ormai endemici di illegalità , dalle mafie alla corruzione; abbiamo tra le città  più inquinate d’Europa e problemi di degrado ambientale che almeno in questa forma e dimensione sono altrove sconosciuti, come l’abusivismo edilizio o il diffuso dissesto territoriale; aumenta ogni minuto la sfiducia e il disprezzo dei cittadini, dei “rappresentati, verso la classe politica, verso i “rappresentanti”. Tutti questi mali italiani nascono almeno in parte dalle medesime cause: la lontananza delle classi dirigenti dall’interesse generale e dal senso stesso dell’etica pubblica, l’idea che i problemi inediti del mondo d’oggi si possano risolvere affidandosi alle stesse logiche, alle stesse mentalità  che tali problemi hanno determinato. 

 

La seconda parola è green come green economy. Fino a qualche anno fa l’ambiente evocava soprattutto valori e bisogni, era un campo d’impegno prevalentemente culturale e sociale ed era, al tempo stesso, il terreno di un conflitto ricorrente e prevalente tra ragione ambientale e ragione economica. Oggi l’ambiente è ancora, certo, un valore e un bisogno primari, è ancora e sempre di più l’idea di un bene comune da difendere e che non può, non deve venire ridotto a merce. Ma oggi l’ambiente coinvolge rilevantissimi interessi economici, è il simbolo ed è il motore di una nuova economia che si dimostra particolarmente efficace come antidoto alla crisi e come base per un rinnovato e duraturo benessere. E’ la green economy dell’innovazione energetica, della chimica verde, della mobilità  sostenibile, della valorizzazione del paesaggio, delle “smart city”, dei nuovi materiali, del riciclo dei rifiuti. Un’economia che genera ricchezza, dà  lavoro, senza dissipare risorse naturali e senza far crescere l’inquinamento, anzi contribuendo a risolvere problemi ambientali: un tempo si sarebbe detta un’economia a basso contenuto di entropia. E’ questa la via giusta, e l’unica via plausibile, anche rispetto al dibattito talvolta un po’ astruso  sulla cosiddetta decrescita felice: l’unica via che fa decrescere l’impatto sui sistemi naturali di produzioni e consumi, dà  speranza e futuro a miliardi di donne e di uomini che vivono tuttora in condizioni umane inaccettabili, dà  speranza e futuro a Paesi come il nostro altrimenti condannati al declino. 

 

La terza parola è “glocal”, come intreccio virtuoso tra dimensione globale e locale. Ci piace che il mondo attuale assomigli molto più di ieri a quella che Edgar Morin chiama “terra-patria”: nella quale circolano e si scambiano liberamente, grazie soprattutto alla rete, conoscenze ed esperienze; nella quale il benessere è un orizzonte non più limitato soltanto a pochi Paesi; nella quale si afferma l’universalità  dei diritti umani, civili, sociali. La globalizzazione è un processo grandioso, inarrestabile, ma è anche un processo ambiguo:  se guidata da logiche e da interessi ristretti, come accade oggi, può perpetuare ed aggravare i fenomeni di povertà , di crisi ecologica, di deterioramento e frammentazione sociale. Più di tutto va combattuta l’idea che per trovare spazio – spazio economico, spazio culturale – nel mondo globalizzato, ogni comunità  debba rinunciare alla propria identità  e omologarsi ad uno stesso modello. E’ vero il contrario: globalizzazione e identità  sono bisogni inscindibili, nella loro necessaria compenetrazione vive la possibilità  di conservare senso all’idea di progresso. Come italiani, possiamo avvertire con una forza speciale questa consapevolezza: siamo gli eredi e i custodi delle mille città , dei mille territori che fanno dell’Italia un grande, prezioso, inimitabile mosaico. Luoghi di identità , di storie, di economie tutte diverse e tutte a loro modo uniche, luoghi chiamati oggi a confrontarsi con i flussi della globalizzazione: per l’Italia, davvero, la via alla “buona globalizzazione” non può che essere “glocal”.

 

La quarta parola è patria, come Italia e come Europa. Ci sentiamo legati, profondamente legati, alla patria italiana e alla patria europea, e pensiamo che solo in un forte investimento di idee, di azioni, di risorse umane ed economiche nella sostenibilità  ambientale l’Italia e l’Europa possano trovare un futuro degno e desiderabile. Per noi il patriottismo non è appartenenza di “sangue”, ma di “progetto”: si è italiani e si è europei per “ius soli”, se si vive stabilmente su questi “suoli” riconoscendosi perciò in un destino comune, e qualunque sia l’origine, la cultura, la religione dei propri genitori. Siamo convinti che all’Italia in particolare, l’ambiente abbia molto da chiedere – li abbiamo rovinati più di altri il nostro ambiente, il nostro paesaggio – ma anche molto da dare. Se l’economia verde è quella che produce benessere e prosperità  senza intaccare il capitale naturale, allora si può dire che l’Italia l’economia verde l’ha inventata, l’ha praticata con successo, prima di tutti gli altri. Vi è insomma una “green economy” in salsa italiana che si fonda sulla bellezza, la creatività , la convivialità , il legame sociale e culturale tra economia e territorio: tutte materie prime immateriali e dunque ecologiche, tutti talenti dei quali abbondiamo e che oggi sono la nostra arma migliore, forse l’unica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi di declino. Ci piace sentirci italiani e ci piace sentirci cittadini europei. Ci piace molto meno l’Europa come funziona oggi: gli stessi che hanno lasciato crescere senza regole l’economia finanziaria, oggi vorrebbero ridurre l’idea europea, l’idea federalista di Spinelli, a un direttorio di banchieri e di burocrati senza democrazia. Per questo serve un nuovo progetto di integrazione europea, basato su istituzioni democraticamente legittimate e ispirato ai criteri della sostenibilità  sociale e ambientale: un cammino così è anche l’unico antidoto efficace all’ascesa sempre più minacciosa di forze populiste, anti-europee, nazionaliste, eredi dirette dei fantasmi peggiori della storia europea.

 

Infine, la quinta parola è ottimismo. Per affrontare la crisi, la crisi globale e il “di più” di crisi italiana, servono fiducia e ottimismo. Non servono invece, peggio sono un problema, classi dirigenti come la nostra che nella politica come nel sindacato come nelle rappresentanze industriali pensano ancora, con poche eccezioni, di vivere nel Novecento, privilegiano sistematicamente la conservazione rispetto all’innovazione. Come si fa a seminare ottimismo se si è convinti che il futuro dell’energia è bucherellare il territorio, i fondali marini alla ricerca di qualche barile di petrolio, più che promuovere l’efficienza energetica e le energie pulite? Se si regalano sussidi a settori decotti come l’autostrasporto o i grandi consumatori di energia e contemporaneamente si azzerano le risorse per il trasporto pubblico locale o l’efficienza energetica? E come si fa a trasmettere fiducia se si pensa e si dice che il futuro del Mezzogiorno è nel modello-Ilva, che il futuro della Sardegna è nelle miniere del Sulcis? I minatori del Sulcis vanno difesi ad ogni costo nel loro reddito e nella loro dignità , ma continuare a spendere miliardi per estrarre carbone – oltretutto pessimo carbone – dalle miniere del Sulcis è un attentato contro il benessere presente e futuro della Sardegna e contro l’Italia.

 

Proprio l’estraneità  alla cultura ecologica è uno dei tratti più vistosi di questa non contemporaneità , di questa formidabile resistenza al cambiamento che accomuna buona parte delle forze politiche e sociali italiane, ed è uno dei principali ostacoli che  impedisce di avviare l’Italia su un cammino rinnovato di progresso che riconosca e sappia interpretare le trasformazioni sociali, economiche, geopolitiche, culturali simboleggiate dal passaggio di millennio. L’ecologia oggi evoca sfide immense e decisive: problemi globali come la crisi climatica, la perdita accelerata di biodiversità , la distanza sempre più larga tra ricchi e poveri e la persistente, enorme disuguaglianza nell’accesso alle risorse che condanna miliardi di persone ad una vita di miseria disperata; problemi europei, come l’urgenza di costruire un nuovo modello energetico fondato sull’efficienza e sulle fonti pulite; problemi spiccatamente italiani come l’inquinamento urbano, il dissesto del territorio, l’illegalità  dell’abusivismo edilizio, la criminalità  delle ecomafie. Ma l’ecologia è anche una grande speranza, richiama valori, bisogni, interessi oggi centrali nella società : i valori di quanti considerano che non possano più esservi progresso e benessere senza una profonda conversione ecologica delle produzioni, dei consumi, dell’organizzazione sociale, capace di porre un argine alla dissipazione delle risorse naturali e di fermare i cambiamenti climatici costruendo rapidamente le fondamenta di un’economia e di una società  “low carbon”; i bisogni di chi ritiene che vivere senza inquinamento – di una fabbrica, di una città  – sia un diritto, come il lavoro e come la libertà , e che acqua, aria, suolo siano beni comuni; gli interessi di migliaia di aziende  che investendo in produzioni e in tecnologie green  si dimostrano più forti della crisi economica e reclamano politiche pubbliche – non sovvenzioni, politiche – e regole più semplici e trasparenti che ne sostengano lo sforzo. 
 

Nell’incontro del 28 giugno presenteremo i contenuti programmatici del “green new deal” che proponiamo per l’Italia. Un nuovo patto che deve cambiare in profondità  tutte le principali scelte pubbliche: dal fisco alle politiche industriali, dal welfare alla spesa pubblica, dalle infrastrutture ai trasporti, dalla legalità  alle politiche civili e dei diritti. La nostra iniziativa politica non nasce contro nessuno e anzi può contribuire a un’evoluzione positiva anche delle forze politiche tradizionali. Non nasciamo contro nessuno ma nasciamo proponendo un’idea di sviluppo che non è aggiuntiva, è alternativa rispetto a quelle correnti nella politica e tra le classi dirigenti italiane. Il terreno della nostra riflessione, del nostro progetto è lo stesso terreno praticato in tanti Paesi europei da partiti e movimenti che ponendo l’ambiente al centro del loro discorso sono diventati il punto di riferimento di un numero crescente di cittadini. Di un’offerta politica così anche l’Italia ha bisogno per tornare a credere in se stessa e per aiutare l’Europa a ritrovare la via del futuro. Noi ci impegneremo per costruirla. 
 

Alessandra Bailo Modesti
Assunta Maria Brachetta
Ilaria Catastini
Roberto Coizet
Pietro Colucci
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante
Francesco Fiore
Monica Frassoni
Giuseppe Gamba
Stefano Leoni
Rossella Muroni
Raimondo Orsini
Fabio Renzi
Edo Ronchi
Edoardo Zanchini

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