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Sacchetti di plastica: rinviato il divieto di produzione nonostante le richieste di mercato e consumatori


  

“Ancora una volta Berlusconi cancella o rinvia l’entrata in vigore di una norma a sostegno dell’ambiente e che favorisce la competitività  dell’industria più innovativa”: questo il commento di Francesco Ferrante, dell’esecutivo nazionale degli Ecodem sul il rinvio di un anno dell’entrata in vigore del divieto di produzione e commercializzazione dei sacchetti di plastica, introdotto nel decreto anticrisi sul quale la Camera dei Deputati voterà  la fiducia nei prossimi giorni.
 

“Quel divieto che dovrebbe entrare in vigore il primo gennaio 2010 – prosegue – fu introdotto con la Finanziaria 2007 con tre anni di anticipo proprio per dare il tempo all’industria chimica di riconvertirsi e adeguarsi agli standard più innovativi che la ricerca e proprio l’industria italiana hanno prodotto realizzando sacchetti in plastica biodegradabile provenienti dal mais”.
 

“il governo però non ha fatto ancora niente, non ha avviato la sperimentazione che avevamo previsto nella stessa norma e non trova di meglio da fare che sospendere l’entrata in vigore del divieto alla vigilia. Per fortuna il mercato e le richieste dei consumatori stanno andando spontaneamente in quella direzione: le industrie innovative godono di sempre maggior successo e aumentano le produzioni di sacchetti ‘ecologici’. Tra industria e agricoltura crescono anche accordi innovativi di filiera per realizzare sul territorio vere e proprie ‘bioraffinerie’, e anche le grandi catene di supermercati si stanno attrezzando per offrire volontariamente ai consumatori alternative alla plastica inquinante”
 

“Un governo lungimirante – conclude Francesco Ferrante – dovrebbe sostenere questi sforzi in modo da contribuire alla difesa dell’ambiente e rafforzare la capacità  competitiva del nostro paese senza nascondersi dietro un’inutile e controproducente proroga. Basti pensare che un sacchetto di plastica disperso nell’ambiente impiega oltre 400 anni per distruggersi mentre il nuovo shopper biodegradabile pochi mesi. Nel corso del 2008 in Italia si sono prodotti 300 mila tonnellate di buste in plastica: l’equivalente di 430mila tonnellate di petrolio e si stima che la Co2 emessa in atmosfera derivante da tale produzione sia di circa 200mila tonnellate annue”.

Un partito ecodem

Giusto, come dicono in molti, non considerarlo una resa dei conti, un “ok corral” dove chi vince piglia tutto. Ma il congresso di ottobre peserà  eccome sul futuro del Pd, anzi deciderà  in buona misura di cosa il  nostro partito sarà  nei prossimi anni. E’ qui la ragione vera del sostegno di gran parte degli ecologisti democratici a Franceschini; nella convinzione che se il Partito Democratico ripiegherà  dall’ambizione di essere altro, di essere di più che la somma tra post-comunisti e post-popolari, se diventerà , come  a noi sembra  che proponga nei fatti Bersani, l’omologo italiano delle socialdemocrazie europee con una sventagliata di cattolici di sinistra e al massimo qualche spruzzatina di innovazione liberale, allora sarà  molto più difficile promuovere l’ambiente da capitolo non eliminabile di qualsiasi programma, a vera e fondamentale parola chiave del Pd, della sua lettura della società  e della sua proposta di cambiamento.

L’ambiente è questione squisitamente contemporanea, estranea ai riformismi e alle culture popolari del Novecento; per questo, da una parte, ha bisogno di occhiali diversi da quelli tradizionali per essere visto, letto, capito, e dall’atra rappresenta un formidabile nuovo strumento e  leva di cambiamento.

Purtroppo rimane ancora oggi uno scarto molto grande tra l’attenzione, la sensibilità , la passione persino, che suscitano le questioni ambientali in chi vota Pd, e l’elaborazione del gruppo dirigente, che come d’altronde gran parte della classe dirigente italiana – rappresentanze imprenditoriali e sindacali, media – è su questo drammaticamente in ritardo . In ritardo rispetto  a ciò che chiedono i cittadini, le imprese più dinamiche, soprattutto i giovani,  e in ritardo rispetto alle proposte delle più autorevoli leadership internazionali. Molti hanno ironizzato, e Paolo Franchi sul Corriere più esplicitamente di altri, su un’ espressione colorita usata giorni fa da Francesco Rutelli. Ma è del tutto evidente che la “botta di culo” cui si riferiva colui che tra i leader del Pd è il più sensibile e attento alle questioni ambientali – forse proprio perché non è mai stato né democristiano né comunista – non era quella di avere dato vita al Pd, scelta niente affatto fortunosa e che al contrario nasce da una forte volontà  soggettiva di alcuni dirigenti e di alcuni milioni di cittadini che parteciparono alle primarie dell’ottobre del 2007, bensì al fatto che quell’atto di fondazione fosse coinciso con la crisi pressoché definitiva della classica socialdemocrazia europea e con l’avvento  sulla scena di Barak Obama. Ed è proprio ai fenomeni internazionali più nuovi e densi di speranza per il futuro – la coalizione messa insieme da Cohn Bendit in poche settimane in Francia attorno agli ambientalisti e che ha ottenuto uno straordinario risultato elettorale, e ancora di più ovviamente la presidenza Obama – che il Pd dovrebbe guardare per trarre nuova linfa e proporre le idee adatte a questo Paese, nel pieno della crisi economica. Dovremmo, dobbiamo guardare alla felice intuizione e pratica di Obama in cui sono tutt’uno l’impegno per la giustizia sociale – la difficilissima battaglia sulla riforma sanitaria – e l’impegno per affrontare i cambiamenti climatici che tiene insieme  motivazioni etiche (“salviamo il pianeta”)  e convenienze economiche (“liberiamoci dalla dipendenza dal petrolio e dai Paesi che lo producono”).

Questa visione, qui da noi, fa fatica ad affermarsi. Nella mozione con cui Dario Franceschini ha proposto la sua candidatura alla segreteria del Pd, questi temi sono invece chiaramente affermati, e sono esplicitati con chiarezza alcuni “sì” e altrettanti “no” che servono a disegnare la futura identità  del Partito e la proposta politica concreta rivolta agli italiani. Ma perché le migliori intenzioni non restino tali, serve un protagonismo degli ambientalisti nel percorso congressuale: di questo si discuterà   nell’incontro che terremo giovedì 30 luglio a Roma, all’Hotel Nazionale – “La sfida del Pd per il futuro dell’Italia. Ambiente e green economy, cultura, territori” -,  che sarà  concluso da Realacci e Franceschini, di questo e dell’opportunità  di presentare liste ambientaliste, legate al territorio e alle migliori esperienze di valorizzazione delle qualità  italiane, in vista delle “primarie” del 25 ottobre. Vogliamo che le nostre ragioni pesino altrettanto nel gruppo dirigente del Pd come nelle opinioni dei nostri elettori, e il congresso è un’occasione irrinunciabile per ottenerlo.  

 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Incentivi alle rinnovabili, ma per le rinnovabili

Pubblicato sul portale AgiEnergia

Sono sostenibili i costi che la collettività  sostiene per incentivare il ricorso alle fonti rinnovabili, indispensabili per combattere i cambiamenti climatici e per promuovere quella green economy che a livello internazionale viene vista come strada fondamentale per affrontare la crisi economica? Intanto facciamo un po’ di chiarezza su quanto spendiamo oggi. Nel 2008 gli oneri Cip 6 scaricati sulle nostre bollette ammontavano a 1,8 miliardi di euro. Ma se andiamo a vedere dentro quei numeri, scopriremo che per le fonti effettivamente rinnovabili (geotermia, solare, eolico) si sono spesi poco più di 200 milioni, mentre invece se ne sono “regalati” ai petrolieri che bruciano combustibili fossili ben 800 milioni grazie alla trovata tutta italiana delle “assimilate” per cui per anni abbiamo concesso a fonti non rinnovabili gli stessi incentivi che in tutta Europa erano destinati esclusivamente alle fonti pulite. Questa “truffa” l’avremmo fermata con la prima finanziaria del governo Prodi, quella del 2007, con una norma che finalmente riallineava il nostro Paese agli altri paesi europei cancellando le “assimilate”. Bisogna però usare il condizionale perché se è vero che il regalo ai petrolieri sta finendo e quegli 800 milioni in futuro resteranno giustamente nelle tasche dei cittadini, successivamente a quel dicembre 2006,  più volte la lobby degli inceneritoristi ha provato a salvare gli oltre 700 milioni che attualmente si spendono per gli RSU che invece andrebbero concessi solo per la parte dei rifiuti biodegradabile (al massimo il 50%). Con questo Governo quegli assalti sono andati a buon fine almeno per gli inceneritori che si dovrebbero costruire in Campania e in Sicilia e comunque le proroghe sono sempre in agguato. La prima cosa quindi che si dovrebbe fare affinché i cittadini  non paghino in tariffa costi davvero impropri sarebbe quella di impedire che in Parlamento vincessero le lobby e che non si modifichi più quella norma – faccio peraltro notare che in tutta Europa si bruciano rifiuti per recuperare energia senza usufruire di incentivi. Quindi nel 2008 i costi che abbiamo sostenuto per le vere rinnovabili considerando anche i 110 milioni per il “conto energia” dedicato al fotovoltaico e i 400 per i certificati verdi – restano al di sotto di 1 miliardo di euro, meno di quanto abbiamo speso per sostenere i profitti di aziende petrolifere e di quelle impegnate nello smaltimento dei rifiuti!
Per il futuro è comunque corretto pensare a una riduzione degli incentivi. Essendo stato autore insieme a Edo Ronchi della riforma delle incentivazioni, nella finanziaria del 2008, ovviamente difendo la scelta di allora, utile per far finalmente “partire” le rinnovabili in questo Paese. E così è stato: siamo arrivati a 500 Mw di solare fotovoltaico istallato e l’anno scorso abbiamo prodotto oltre 6 Twh di energia elettrica con il vento. Insomma quegli incentivi sono stati il volano giusto, ora si possono però riallineare con quelli previsti negli altri paesi Europei, magari contemporaneamente assicurando che le linee guida per le rinnovabili, in gestazione tra il Ministero dell’Ambiente, quello dello Sviluppo Economico e quello dei Beni Culturali  da oltre 10 anni, vengano finalmente partorite e costringendo le Regioni (come prevede la legge) a darsi obiettivi vincolanti nella produzione di energia da rinnovabili in  modo che gli obiettivi al 2020 possano davvero essere raggiunti.

In questo quadro per cui, se non si legifera allegramente sulle assimilate e se il Governo riduce con giudizio gli incentivi per le rinnovabili, i 7 miliardi di spese paventati dall’Autorità  per il futuro sono un rischio che non correremo, non credo abbia senso spostare quegli oneri dalla tariffa elettrica alla fiscalità  generale: peraltro in nessun Paese europeo dove il meccanismo funziona si è scelta quella strada. Due i motivi fondamentali per cui è meglio rimanere con questo sistema: il primo è quello per cui così internalizziamo i costi e i cittadini sanno con un meccanismo trasparente (la tariffa A3) che quelli sono i costi che stanno sostenendo per quella causa, il secondo, molto più pratico, è che così quelle risorse non sono a disposizione del Ministro del Tesoro di turno che, in periodi di crisi , o per scelte “politiche” contingenti, potrebbe avere la tentazione di toglierle, ridurle, fissare tetti che vanificherebbero tutto il meccanismo. Ovviamente però potrebbero essere apportate utili correzioni a quel meccanismo: esentare dall’IVA il costo che in bolletta si sostiene per incentivare le rinnovabili e spostare sulla fiscalità  generale altri oneri di sistema, quali ad esempio il decomissioning nucleare, che attualmente pesano impropriamente sulle nostre bollette, sarebbero ad esempio interventi auspicabili e che si potrebbero prendere immediatamente.

Francesco Ferrante

 

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