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Rio+20: un vertice dal sapore amaro

Neanche questa volta l’Onu riuscirà  a dimostrare capacità  di governance di fenomeni complessi e vitali per il presente e il futuro dei popoli. Questo il sentimento più diffuso tra le migliaia di delegati che hanno partecipato ieri all’apertura del vertice internazionale sullo sviluppo sostenibile “Rio + 20”. Le faticose negoziazioni che hanno preceduto il vertice hanno infatti condotto a un testo base che fa prevedere che quello finale non conterrà  alcun obiettivo numerico da raggiungere in nessuno dei settori presi in esame: i sussidi ai combustibili fossili non verranno tagliati, gli oceani non adeguatamente protetti, sulla deforestazione gli impegni saranno troppo vaghi e soprattutto in nessuna parte del documento si parlerà  delle risorse economiche necessarie e da dove ricavarle e chi le deve impegnare per sostenere lo sforzo dei paesi più poveri. Un fallimento quindi? Una nuova Copenaghen? Qui forse bisognerà  avere qualche prudenza in più. Ciò che a Rio è apparso evidente, straordinariamente di più di vent’anni fa, è che il mondo sarebbe invece pronto per la svolta ancora mancata. Lo è sicuramente quello vitalissimo rappresentato dalle associazioni e dai movimenti, ma questa non è più una novità  ormai da almeno un decennio. La tassa sulle transazioni finanziarie, ad esempio, che dieci anni fa era idea solo di quell’arcipelago, oggi si è imposta nel dibattito pubblico e molti governi l’hanno fatta propria. Ma la novità  più forte di questi anni, che le giornate brasiliane si sono incaricate di confermare, è che anche una parte sempre crescente della business community si è incamminata su quella strada. Certo non tutti, e alcuni si attardano ancora in operazioni cosmetiche di green washing che ormai sono però abbastanza facilmente smascherate, però le imprese che scommettono su vera green economy, magari come recita la bozza di documento “equa e solidale” , attenta alle esigenze dei territori e delle comunità  aggiungeremmo noi, sono sempre più numerose in ogni parte del mondo. Infine non è più così vero che i paesi emergenti , quelli con crescita del Pil a doppia cifra siano “nemici” dell’ambiente in nome di uno sviluppo senza freni. Da quelle parti infatti i danni dell’inquinamento stanno diventando insostenibili, non solo per l ‘ambiente ma anche per motivi economici e sociali. Significativo l’allarme lanciato dalla stessa Accademia delle Scienze Sociali Cinese (controllata dal governo come tutto in Cina) che ha calcolato nel 9% del Pil il danno annuale causato all’economia dal degrado dell’ambiente, o anche la stima della Banca Mondiale (non di una org ambientalista) che per l’India stima i danni causati solo dall’inquinamento delle acque in circa il 6%del Pil. Cifre ingentissime, cui quei paesi, con la rapidità  che li contraddistingue, stanno cercando di metter riparo tanto da far dire al noto Lord Nicolas Stern che il piano quinquennale del Governo Cinese (che peraltro prevede una crescita costante del Pil del 7% l’anno!) è il contributo più significativo alla riduzione delle emissioni di gas di serra di questi ultimi anni.
Ma allora se son vere tutte e tre le cose, società  civile mondiale pronta al cambiamento, imprese disponibili a scommettere su innovazione tecnologica, green economy che si fa strada anche tra coloro che si affacciano solo ora al benessere e che condividono che “grow now, clean later” sia uno slogan desueto e impossibile, perché non si riescono a fare passi concreti nelle trattative internazionali che impegnino Paesi e Governi? Perché è così stridente la distanza tra l’entusiasmo del primo Rio che segnò una svolta mondiale e questo vertice il cui sapore finale sarà  comunque amaro? A me pare che la risposta sia proprio nell’intreccio, ormai diffuso e che vent’anni fa non esisteva, tra ragioni dell’ambiente e economia reale che quindi scatena resistenze formidabili da poteri forti, vivi e vegeti. Che green economy potremo mai perseguire, per esempio, senza cancellare i 1000 miliardi di dollari di sussidi alle fonti fossili? E quella massa di denaro oggi va a gruppi che dappertutto contano ancora molto e hanno possibilità  ampie di ostacolo. Qui è la storia: la difesa dell’ambiente, la lotta ai cambiamenti climatici, la costruzione di un mondo più pulito, condizioni essenziali per farne uno anche più giusto e coeso, sono in grado di minacciare l’assetto dei poteri mondiali. Non è, non può essere un pranzo di gala

Rio+20 verso la conclusione tra la delusione e l’ottimismo testardo

Pibblicato su www.qualenergia.it

Non ci saranno sorprese in questi due giorni: Rio + 20 si concluderà  così come è cominciato. Un documento pieno di buone intenzioni, con alcuni indubitabili e importanti passi avanti sul piano dei principi, a partire dalla definizione della green economy come “infrastruttura” fondamentale non solo per affrontare la crisi climatica ma anche per combattere la povertà , ma nessun impegno concreto in termini di tempi certi e di risorse da mettere sul piatto. Per questo Ban Ki Moon, il segretario generale dell’Onu, ha aperto il vertice ammettendo che il documento finale in discussione avrebbe dovuto essere più ambizioso, una sorta di confessione di impotenza e di inadeguatezza delle Nazioni Unite di fronte alla sfida. Un’ammissione tanto più amara se è vero che, come ha detto lo stesso Ban Ki Moon, e ancora con più forza Dilma Rousseff, la presidente brasiliana padrona di casa, che pur ha difeso il risultato ottenuto, il tempo è la risorsa più scarsa di cui disponiamo. Ha senz’altro ragione allora Hollande quando dice che la dichiarazione finale che sottoscriveranno tutti, è il solo compromesso possibile ma che lo stesso non è quello che si aspettavano i suoi concittadini e soprattutto non è quello che sarebbe stato doveroso raggiungere per le generazioni future. Forse però la speranza sta proprio nel discorso di Hollande che si è impegnato, non solo a introdurre al più presto la tassa sulle transazioni finanziarie, ma anche a destinare una parte di quei proventi proprio alla cooperazione e ai programmi di sviluppo sostenibile. E sta nella durezza del discorso della Rousseff che non ha fatto alcuno sconto ai paesi ricchi e confermato che il protagonismo di un Paese che in qui anni di sviluppo straordinario è riuscito a far uscire dalla fame milioni di persone può cambiare la storia non solo del più grande paese del Sud America. E sta infine anche in quei primi sei milioni che ha messo in gioco il premier cinese per aprire un fondo di rotazione per programmi fondati sulla green economy. Insomma, come ormai succede da tempo, il giudizio su un vertice internazionale non può che essere controverso e oscillante tra il pessimismo giustificato dalla impotenza in cui sembrano essere precipitati per sempre i meccanismi decisionali di questi multilaterali, e l’ottimismo testardo di chi rintraccia, nelle dichiarazioni dei leader e nei concreti cambiamenti in opera nell’economia di quasi tutte le aree del mondo, la strada da percorrere, fatta di efficienza energetica, energie rinnovabili, nuovi prodotti non più da fossili, lotta alla povertà  e giustizia sociale. E allora le prossime ore a Rio forse non saranno utili per migliorare in extremis il documento con cui si chiuderà  il vertice, ma con qualche fiducia possiamo pensare di raccogliere nuove e positive esperienze di un altro mondo possibile

Come sta andando a Rio + 20

Testo pubblicato su www.qualenergia.it

“Not the best agreement in the world, but an agreement for a better world” con questo Tweet, Ida Auken la giovane e combattiva Ministra dell’ambiente danese, che guida la delegazione dell’Unione Europea, ha provato a difendere l’ultimo testo di compromesso messo a punto dal Governo Brasiliano, e accettato seppur tra riserve e mugugni da tutte le parti, con cui si sono concluse le negoziazioni e si entra da stamane nel vertice ufficiale. Il rischio del fallimento totale e di una nuova “Copenaghen depression”‘ è sempre in agguato, ma con la mediazione, in cui è stato particolarmente attivo il ministro Clini, tra Ue e Brasile sembra che i Governi abbiamo imboccato la strada che gli permetterà  di salvare la faccia. Ovviamente per un giudizio completo sarà  bene attendere venerdì sera, ma se da una parte non possono essere sottovalutate le importanti novità  che si stanno profilando per cui per la prima volta la green economy sarà  indicata in documento dell’Onu approvato per consenso da tutti, come la strada del futuro, e che si affermerà  con nettezza che lotta alla povertà  e attenzione all’ambiente, lo sviluppo sostenibile, devono marciare insieme, indissolubilmente legati l’una all’altro. Dall’altra non si può certo dare torto alle associazioni ambientaliste, ma anche ai movimenti sociali che tengono il loro consueto “contro meeting” negli stessi giorni, quando lamentano la totale vaghezza del documento su impegni, tempi e soprattutto risorse. Insomma sembra confermata anche qui la distanza abissale che separa le potenzialità  offerte dall’innovazione tecnologica e dalla vivacità  della società  civile, dalla capacita della politica di offrire risposte concrete. Una distanza che si deve superare altrimenti sia la lotta contro i cambiamenti climatici, e più in generale contro ogni inquinamento, sia la strada per uscire dalla crisi economica globale troveranno difficoltà  insormontabili. Per citare un’altra danese, la commissaria Ue ai cambiamenti climatici Connie Hedegaard, ” la via grow now, clean later praticata in passato da noi , oggi non è più praticabile e gli stessi paesi emergenti se ne sono accorti”, ma se non c’è un salto di qualità  che permetta di andare oltre le parole, le pur apprezzabili dichiarazioni d’intenti, dobbiamo sapere che il tempo che stiamo perdendo non ce lo restituirà  nessuno: il pianeta ne soffrirà  e noi umani ci vivremo assai peggio di quanto sarebbe possibile.

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