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Difesa: Amx italiani stanno bombardando in Afghanistan

I velivoli italiani Amx dislocati in Afghanistan stanno effettuando operazioni di bombardamento, nonostante il loro schieramento fosse stato vincolato dal Parlamento esclusivamente ad attività  di ricognizione e sorveglianza? E’ quanto chiede un’interrogazione urgente rivolta al ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, presentata dalla senatrice del Pd Silvana Amati e sottoscritta dai colleghi democratici Manuela Granaiola, Vincenzo Vita, Paolo Nerozzi, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante.
“Secondo notizie apparse sulla stampa e confermate da più fonti –  si legge nell’interrogazione – i velivoli AMX dislocati nell’ambito del nostro contingente nel teatro afgano starebbero effettuando operazioni di bombardamento. Lo schieramento dei velivoli AMX  in Afghanistan fu vincolato dal Parlamento ad attività  di aero-ricognizione e sorveglianza del territorio, al fine di garantire maggiore sicurezza ai  contingenti che operano sul terreno. Chiediamo di sapere se quanto riportato dalla stampa corrisponda  a verità  e, nell’eventualità  che siano state effettuate operazioni di bombardamento, nell’ambito di quale missione o per quale tipologia di operazione si sia fatto ricorso all’intervento aereo. Vorremmo inoltre sapere dal ministro – conclude il documento – se ritenga praticabile un tale uso della forza aerea senza una esplicita autorizzazione del Parlamento”.

Dossier su immigrazione a Rosarno di Fondazione Integra/Azione e Reti Radici

IMMIGRAZIONE: I NUMERI DEL MONITORAGGIO AUTUNNO-INVERNO 2011/12
DI RETE RADICI E FONDAZIONE INTEGRA/AZIONE

IL 90,7% DEI BRACCIANTI MIGRANTI INTERVISTATI LAVORA IN NERO,
4 SU 10 VIVONO CON MENO DI 50‚¬ A SETTIMANA
E IL 60% àˆ BLOCCATO IN UN LIMBO GIURIDICO SENZA OTTENERE I DOCUMENTI

A ROSARNO CALANO I CONTROLLI,
TORNA L’ILLEGALITà€ DIFFUSA, AUMENTA IL DEGRADO E IL SOPRUSO DEI DIRITTI

Gli oltre 2000 braccianti stranieri, quasi tutti africani, nella Piana di Rosarno vivono come uomini trasparenti: presenti quando c’è da spezzarsi la schiena in campagna ma invisibili per lo Stato e senza alcuna protezione giuridica.
àˆ l’amaro bilancio emerso dal monitoraggio autunno-inverno 2011/12, raccontato nel Dossier Radici/Rosarno di Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici, che ha indagato le condizioni lavorative, abitative e sanitarie senza trascurare il livello di integrazione e il rapporto con il territorio, determinato anche dal sistema politico e legislativo dentro al quale questa tipologia di lavoratori si trova a operare.
Presentato oggi a Roma a Palazzo Madama e illustrato da Luca Odevaine e Francesco Ferrante, rispettivamente presidente e vicepresidente di IntegrA/Azione insieme al sottosegretario degli Interni, Saverio Ruperto, a Nuccio Barillà  della segreteria nazionale di Legambiente e Cristina Riso, coordinatrice del lavoro di ricerca.
Sul tavolo, il futuro di almeno 2000 lavoratori stranieri che rivendicano diritti e dignità , ma anche le problematiche di un settore, quello agricolo, in grande affanno da un paio di decenni e di un sistema politico e legislativo che sull’immigrazione presenta ancora preoccupanti lacune.

“L’approvazione della direttiva Ue (la 2009/52/Ce) in materia di emersione del lavoro nero che coinvolge i migranti – ha dichiarato il presidente di Fondazione IntegrA/Azione, Luca Odevaine – si è fatta anche troppo attendere, visto e considerato che sarebbe dovuta essere recepita entro luglio 2011. La sanatoria di settembre, che prevede la possibilità  di “regolare” i rapporti professionali senza incappare nell’inasprimento delle pene per chi invece sarà  oggetto di denuncia, apre uno spiraglio importantissimo al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Con il rilascio di un permesso di soggiorno di sei mesi rinnovabile, la cosiddetta “Norma Rosarno”, si restituisce parte di quella dignità  perduta e si incoraggia il ripristino della legalità . Ma molto resta ancora da fare e la politica non può oltremodo esimersi dal farsene carico”.

Il testo approvato nei primi giorni di luglio prevede, infatti, un’ampia “Disposizione transitoria” incentrata sula possibilità  di un “ravvedimento operoso” per quanti, al momento dell’entrata in vigore del decreto, abbiano irregolarmente alle proprie dipendenze

un lavoratore extracomunitario.
I datori di lavoro (esclusi quanti risultino condannati nei cinque anni precedenti per reati come lo sfruttamento del lavoro o il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) dovranno presentare una “Dichiarazione di emersione”. Passata la breve fase transitoria per consentire al datore di lavoro di adeguarsi alla nuova normativa, il decreto entrerà  in vigore.

“Rosarno – dichiara il Senatore Francesco Ferrante, vice presidente di Fondazione IntegrA/Azione- rappresenta una delle tante realtà  italiane in bianco e nero. Da un lato un’area importante portatrice di buone pratiche, anche se ancora troppo poche; dall’altra una regione dove l’illecito trova troppo spazio, diventando quasi normalità . Analizzare questa realtà  significa ragionare su un insieme di politiche di respiro più ampio che riguardano la questione dell’immigrazione. Norme come la Bossi-Fini, per esempio, sono ormai strumenti del tutto inadeguati, quando addirittura dannosi, perché completamente sganciati dalla realtà , non tenenedo conto di un fenomeno, quello dell’immigrazione, in costante cambiamento. L’Italia dei migranti è raccontata anche in quei numeri che ci dicono che i residenti stranieri nel nostro Paese sono diventati più o meno l’8% del totale. Molto dell’apparato giuridico che disciplina questa materia non tiene conto delle trasformazioni che stanno lentamente e inesorabilmente modificando la nostra società . Servono misure che accolgano questi numeri non solo come tali, ma anche e di più come una ricchezza per il Paese in termini di pluralità  culturale”.
Ma vediamo nel dettaglio dati e numeri che raccontano la realtà  della Piana di Rosarno.

IDENTIKIT DEL BRACCIANTATO MIGRANTE. Da diversi anni Rosarno è la meta invernale degli invisibili. Nell’ultima stagione agrumicola se ne sono contati, incrociando dati della Prefettura con altre fonti ufficiali come gli ispettorati del lavoro, almeno 2000.
Tutti uomini principalmente provenienti dall’Africa subsahariana (il 22% dal Mali, seguono il Senegal con il 15%, Guinea con il 13%, e la Costa d’Avorio con quasi il 12%), in un’età  media di 29 anni (la fascia d’età  degli over 31 è preponderante con il 46% dei lavoratori) e senza permesso di soggiorno (il 72% è irregolare contro il 28% dei regolari).
L’87% di loro svolgeva lavori manuali nel paese d’origine, ma con una grande varietà  professionale: a raccogliere le arance di Rosarno sono sarti, meccanici, saldatori e elettricisti. Ma anche ragazzi che nel loro paese erano studenti, poliziotti, agenti assicurativi, politici locali e soldati dell’esercito. Arrivare a Rosarno ha significato livellarsi all’unica domanda di lavoro possibile e perdere la propria specificità .

STATUS GIURIDICO E DIRITTO DI ASILO. La quasi totalità  della popolazione immigrata a Rosarno e dintorni, e cioè più dell’80%, ha avanzato domanda di protezione internazionale. Tra quelli che sono riusciti a ottenere il riconoscimento e dunque hanno concluso il loro iter burocratico, la maggior parte resta incastrato in un limbo giuridico che compromette la qualità  della vita, fatto di attese (3,3%), dinieghi (54,2%) e ricorsi (3,3%). àˆ provata la difficoltà  degli stranieri a comprendere il complesso coacervo di leggi che li riguarda. Addirittura risulta incomprensibile la logica stessa del sistema che li obbliga in una zona grigia più che rischiosa. Inutile dire infatti, quanto una condizione del genere renda fragile un individuo, soprattutto se richiedente asilo o in attesa del ricorso, rispetto a casi di sfruttamento lavorativo e capacità  personali di pianificare alternative. Il documento in loro possesso, infatti, non è spendibile per l’ottenimento del lavoro: in sostanza, non possono lavorare e dunque essere assunti regolarmente, non hanno diritti

e, di conseguenza, diventano ricattabili, merce a basso costo sul mercato del caporalato, manodopera d’occasione. àˆ proprio la burocrazia lenta e farraginosa a imprigionarli in un girone infernale dal quale non sempre è facile uscire. Spesso però il migrante partito e arrivato in Italia è l’unico che possa provvedere al sostentamento della famiglia nel Paese d’origine.

LAVORO. Ben il 90,7% degli intervistati lavorerebbe a nero (contro il 75% dello scorso anno), dalle ispezioni effettuate dalla Direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, infatti, su un totale di 1082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari. I salari del 55,6% dei campesinos si aggirano tra i 20-25 euro per 8-10 ore lavorative al giorno (contro il 76,37% dello scorso anno) e aumentano i lavoratori pagati “a cassetta” (37,4% contro il 10,44% dello scorso anno), con un prezzo standard di 1 euro a cassetta per i mandarini e 0,50 euro per le arance.
Mediamente il 60% di loro riesce al lavorare dai 3 ai 4 giorni a settimana, ma una percentuale consistente di braccianti, e cioè il 24,7%, lavora meno di 2 giornate a settimana.

CAPORALATO. Il caporalato purtroppo resta un’abusata modalità  d’ingaggio. Sebbene infatti la metà  degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un kapò migrante (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro. La figura del caporale, va detto, è cambiata nel corso degli anni per via anche del ruolo fondamentale di mediazione culturale che figure interne alle comunità  straniere possono assumere per via della conoscenza della lingua italiana. I kapò provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore. La figura del kapò è cruciale infatti quando si analizzano le modalità  di spostamento per raggiungere il posto di lavoro: il 26% ricorre ai loro mezzi, naturalmente a pagamento.

QUALITà€ DELLA VITA. Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei paesi d’origine. Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana), con alloggi di fortuna come i casolari abbandonati senza acqua né luce né gas e mangiando alle mense della Caritas. Sono pochi quelli che riescono a vivere con più di 100 euro a settimana (2,7%) e pochissimi coloro che vivono con 200/300 euro al mese (il 17,4%).
Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose, , una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività  lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute. Infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile e malattie infettive rendono questi lavoratori affetti da un numero elevato di patologie professionali.

ACCOGLIENZA. Come detto, con questi salari risulta complicato trovare un alloggio degno di questo nome e i migranti si organizzano in piccoli gruppi di 5-10 persone in abitazioni occupate, che diventano 15-20 nei casolari. Ma in centinaia affollano ghetti e vecchie fabbriche. L’accoglienza “istituzionale”, gestita dal privato sociale, non è sufficiente a coprire

la domanda. A parte i 420 posti tra la tendopoli di San Ferdinando e il campo di Testa dell’Acqua, infatti, si contano circa 800 persone auto-organizzate in piccole e grandi occupazioni, tra l’ex stabilimento della Pomona, il cosiddetto ghetto di Rosarno, lo stabile dell’ex cooperativa Fabiana e il ghetto di Taurianova. Numeri che non tengono conto di quelle decine di situazioni sparse e nascoste sul territorio, impossibili da quantificare e che fanno lievitare a dismisura il numero degli alloggi informali, soprattutto nel periodo clou della raccolta (ottobre-marzo).

AGRICOLTURA, IL VERO NODO DA SCIOGLIERE. Il modello mediterraneo dell’agricoltura – di cui Rosarno è uno dei nodi principali – è in piedi da un paio di decenni e si fonda su lavoro nero, sfruttamento, caporalato e inclusione differenziale (cioè status amministrativi che escludono gli stranieri da diritti sociali). E per i migranti è praticamente impossibile sfuggire a questi meccanismi perversi.
Un sistema che si sorregge su un’economia di rendita fondata sull’assistenzialismo e su una produzione basata sulla quantità  e su un’industria che non c’è. Una fragilità  strutturale che senza un cambio di rotta verso la qualità  e la diversificazione, rischia di condannare all’abbandono un settore stretto tra le logiche del mercato globale e le prossime, severe direttive della Pac (Politica agricola comunitaria) europea.
Basti pensare che la prima bozza della nuova Pac,  in vigore dal 2015, sta prendendo in seria considerazione una radicale revisione dei premi. Se sarà  confermata questa strada si passerà  a sussidi che dai 1800 euro all’ettaro arrivano al massimo ai 300 circa.
Dunque la vera sfida della Piana, sembra essere quella di saper andare oltre le arance, puntando su nuove colture e produzioni diversificate. Solo così si potrà  garantire la vita delle aziende locali e la normalizzazione delle condizioni lavorative di chi quel settore lo sorregge con lavoro e fatica.

F35: ora fermatevi

La prima rata dell’Imu pagata nell’intera provincia di Palermo, 110 milioni e rotti di euro, non basterebbe per acquistare un solo F-35, cacciabombardiere ad alta tecnologia prodotto dalla Lockeed. Bene, anzi male, perché l’Italia di  F-35 a suo tempo ne ordinò 131, per una spesa complessiva superiore ai 15 miliardi di euro. 

Finora questo mega-investimento è passato pressoché indenne attraverso tutti i decreti Tremonti e Monti di tagli più o meno lineari alla spesa pubblica, attraverso l’indignazione di una bella fetta di opinione pubblica e di decine di associazioni dalla Tavola della pace a Sbilanciamoci, ora attraverso la “spending review”. Unico risultato, l’ordine è stato ridimensionato a 90 arei, con  una spesa prevista che a oggi è attestata attorno ai 12 miliardi di euro.

In realtà , la scelta rischia di costarci ancora più caro. E’ ormai prassi costante e anche un po’ abusata agitare lo spauracchio della Grecia e della sua crisi profonda, ma se si parla di spese militari l’esempio greco è veramente paradigmatico.  Negli anni della spesa pubblica a briglia sciolta della Grecia appena entrata nell’eurozona, Atene acquistò carri armati, sommergibili e caccia dalla Germania per circa tre miliardi di euro, e dalla Francia navi e elicotteri per più di 4 miliardi. Così, mentre salari e pensioni ellenici vengono tagliati del 25% e secondo l’Unicef torna nel Paese lo spettro della malnutrizione infantile, per effetto di quegli impegni la Grecia quest’anno ha visto la sua spesa militare crescere del 18% rispetto al 2011.

Allora, pretendere qui da noi una revisione drastica del programma di acquisto degli F-35 non è, almeno non è soltanto, una richiesta di stampo pacifista. E’ soprattutto un’esigenza elementare di responsabilità  verso l’Italia e verso gli italiani.

La conferma dell’acquisto di 90 F-35, infatti, più che servire alla modernizzazione dei nostri sistemi di difesa, attiene alla storica commistione di interessi tra l’industria bellica (un bel pezzo della quale è nelle mani, oggettivamente pubbliche, di Finmeccanica) e le scelte della politica.

L’Italia non ha nessun bisogno di 90 o 50 o 30 super-caccia bombardieri F-35, e se rinunciasse ad acquistarli non è vero che dovrebbe pagare, come sostengono taluni osservatori “interessati”, penali salatissime. L’uscita del nostro Paese dal programma non comporterebbe oneri ulteriori rispetto a quelli già  stanziati e pagati per la fase di sviluppo del progetto: così prevede l’accordo fra i Paesi compartecipanti sottoscritto anche dall’Italia con la firma del 7 febbraio 2007. Al momento la nostra flotta di aerei militari conta una cinquantina di nuovissimi Eurofighter, che nel giro di pochi anni saliranno a 96, una sessantina di Amx, una settantina di Tornado aggiornati, quindici F-16 americani in affitto e sedici Harrier a decollo verticale sulle due portaerei della Marina, anch’essi aggiornati. “Aggiornati” significa che la loro vita operativa è stata prolungata almeno fino al 2025.

Allora perché mai lo Stato italiano, nel pieno della crisi economica e nella scarsità  sempre più acuta di risorse pubbliche, dovrebbe destinare svariati miliardi a un programma la cui unica, vera utilità  è per la lobby dell’industria bellica?

Del resto, l’F-35 della Lockeed è in crisi in tutto il mondo: la recessione economica da una parte, i numerosi e crescenti problemi tecnici del “prodotto” dall’altra, hanno spinto diversi Paesi, tra questi anche grandi Paesi come il Canada, a cancellare i loro ordini.

Nel marzo 2012 un documento della Corte dei conti americana ha definito l’F-35 il più costoso fallimento della storia militare degli Stati Uniti. L’Italia faccia presto ad accorgersene, o il fallimento potrebbe contagiarci.

 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

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