pubblicato su La Nuova Ecologia
La burocrazia frena le iniziative sulle Comunità energetiche rinnovabili, privandole delle certezze necessarie per investire
Uso efficiente delle risorse. Questo il mantra che deve accompagnarci in ogni scelta se vogliamo costruire un sistema economico decarbonizzato che sappia al contempo affrontare la crisi climatica in atto e cogliere le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica. E la prima risorsa da usare in maniera efficiente è ovviamente l’energia, perché solo riducendo la combustione di fossili che sino ad ora hanno garantito la maggior parte della produzione di elettricità – quasi interamente per il trasporto di persone e merci, e per riscaldare e raffrescare le nostre case – potremo marciare nella direzione auspicata. In questo percorso di transizione (ma forse meglio parlare di rivoluzione) dai fossili alle rinnovabili, un nuovo strumento può essere assai utile: le Comunità energetiche rinnovabili (Cer). Il nostro Paese ha infatti recepito, per una volta tempestivamente, una direttiva europea che incentiva cittadini, enti del terzo settore, piccole e medie imprese a “mettersi insieme”, fare “comunità” appunto, per realizzare nuovi impianti rinnovabili e diventare prosumers (produttori e consumatori allo stesso tempo).
Grazie agli incentivi previsti si potranno affrontare casi di povertà energetica presenti in quel territorio, contribuire a ridurre, se non azzerare, la richiesta di energia elettrica dalla rete, e avvicinare e far capire meglio i vantaggi anche economici che il passaggio alle rinnovabili garantisce. Effetto collaterale da non sottovalutare in questo periodo, dove il fenomeno Nimby (Not in my backyard) sembra paradossalmente colpire di più proprio gli impianti da rinnovabili.
Le istituzioni, dal Parlamento che ha prima introdotto le Cer in via sperimentale, sull’onda di un’efficace campagna lobbistica di Legambiente, e poi recepito in maniera completa la direttiva, al governo, che alle Cer per i piccoli comuni ha dedicato oltre 2 miliardi di euro nel Pnrr, sembravano aver colto l’opportunità. Ma ora, a pochi metri dal traguardo si potrebbe dire, i “soliti vizi” del nostro sistema rischiano di ostacolarne la partenza, se non addirittura di far naufragare le Cer prima ancora della loro diffusione reale sul territorio.
Infatti le difficoltà nelle autorizzazioni, che colpiscono tutti gli impianti da rinnovabili e su cui il governo non sembra voler agire con la necessaria decisione (si veda l’inutile decreto Aree idonee, che invece di indicare i criteri per individuare quelle aree dove la realizzazione di impianti rinnovabili dovrebbe essere permessa quasi in automatico, lascia che decidano tutto le Regioni con il rischio concreto che si prolunghi la paralisi) e la problematica interpretazione delle norme (su cui si esercitano anche Arera e Agenzia delle entrate, complicando ancora di più le cose), nonostante l’apprezzabile sforzo di tutoraggio del Gse, stanno fermando molte iniziative privandole delle necessarie certezze che consentano i relativi investimenti. C’è una scadenza ormai imminente: il prossimo 31 marzo, termine entro il quale i piccoli comuni (con la campagna BeCome, dai borghi alle Comunità energetiche) devono formulare le loro richieste per accedere ai fondi Pnrr. Se il governo non si dà una mossa nella sburocratizzazione, rischiamo di perdere una grande occasione.