pubblicato su QualEnergia
Nel suo rapporto annuale sui costi delle varie fonti energetiche, Lazard – la banca d’affari americana che fattura oltre 2 milardi di dollari, non un network ambientalista – l’anno scorso ha stimato il LCOE (costo dell’energia) del fotovoltaico in una forchetta tra 24 e 96 $/MWh, quello dell’eolico tra 24-75 $/MWh, a fronte di quello del carbone che varia fra 66 e 166 $/MWh, delle centrali turbogas fra 115 e 221 $/MWh e di quello da nuove centrali a ciclo combinato che sta tra 39 e 101 $/MWh. Il nucleare resta la tecnologia più cara (sorry guys) perché il suo LCOE secondo quel think tank intriso di pregiudizi “ideologici” green (sic!) varia fra 141 e 221 $/MWh.
Sono numeri che confermano una realtà ormai inoppugnabile e che già da qualche anno poteva essere prevista – a meno di non avere paraocchi o di avere espliciti interessi fossili: l’innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il costo di conversione in energia elettrica delle fonti naturali e rinnovabili, come il sole e il vento, oltre all’idroelettrico e alla geotermia, alle biomasse e al biometano (da rifiuti urbani e soprattutto da scarti agricoli), tanto da renderle competitive e in molti casi più convenienti rispetto alle tradizionali fonti fossili.
Un trend destinato a proseguire e a rafforzarsi dato che in tutto il mondo gli investimenti sulle rinnovabili sono ormai quasi il doppio di quelle sulle fossili. E infatti il Green Deal europeo, oggi al centro di molte polemiche politiche, con i suoi ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni attraverso la decarbonizzazione dell’economia con ricorso sempre più massiccio all’economia circolare, alle rinnovabili, all’efficienza energetica e alla parallela elettrificazione dei consumi, nasce prima della pandemia, non solo per il sacrosanto e urgente obbligo di combattere la crisi climatica in atto, ma anche e soprattutto per accompagnare quella transizione energetica, cui si affianca quella digitale, per realizzare una vera e propria nuova rivoluzione industriale.
Oggi però alla vigilia di nuove elezioni europee il sentiment politico sembra assai diverso e curiosamente la forbice tra le opportunità offerte dall’innovazione e le concrete scelte politiche che dovrebbero favorirle rischia piuttosto di allargarsi. La recente “protesta dei trattori” con la quale una minoranza è riuscita piuttosto agevolmente a far cambiare direzione alla Commissione europea su alcune questioni che rigurdavano la più importante (in termini di risorse economiche ad essa dedicata) politica comune europea, quella agricola, è stata forse la prova più evidente come la politica sia più attenta al danno che le possono procurare lobby rumorose e comunque potenti e smarrisca una “visione” di prospettiva più a lungo termine.
In questo quadro europeo che minaccia di rappresentare una pericolosa deviazione nel percorso verso l’auspicabile, ma anche inevitabile, decarbonizzazione le scelte del Governo italiano appaiono le più negative. L’Italia che obiettivamente – a prescindere dalle maggioranze che l’hanno governata in questi ultimi vent’anni – mai ha svolto un ruolo propulsivo, con il Governo attuale si è sempre schierata contro quelle che sarebbero potute essere le scelte più avanzate sulla transizione. E’stato così quando hanno cercato di impedire lo stop alla vendita di auto con motore endotermico alimentato da combustibili fossili entro il 2035 (tentativo almeno sino adesso fallito). Un freno messo nuovamente in atto sul fronte dell’economia circolare nel corso dellla faticosa approvazione del regolamento sugli imballaggi, quando a aprtire da una giustificata difesa del sistema italiano che ha consentito di ottenere lusinghieri risultati sul fronte del riciclo, è sembrato che le sceklte politiche del Governo italiano volessere mettere in discussione addirittura i principi stessi di quella proposta che sono informati dalla necessità di ridurre il consumo di materia prima. E lo è di nuovo in queste settimane nel tentativo di “annacquare”, se non far addirittura saltare, la proposta di direttiva sulle “case green”.
Pare insomma che la vulgata per la quale il Green Deal sarebbe una minaccia per il nostro sistema economico (accompagnata da una pelosa narrazione per cui i più penalizzati sarebbero i ceti più deboli) e non come una straordinaria occasione di modernizzazione, unica possibilità per l’Europa e per l’Italia di “reggere” nella competizione globale, abbia attecchito nel nostro Governo più che altrove con un tasso di aggressività pari solo a quello dimostrato dall’amministrazione Trump quando decise di uscire dall’Accordo di Parigi e come minaccia di fare nuovamente nella malaugurata ipotesi di una vittoria del tycoon repubblicano a novembre.
Sono quindi evidenti le ombre che si allungano sulle politiche utili alla transizione nel nostro Paese, che, come detto, peraltro non sono mai state troppo brillanti. E anche le scelte energetiche, con un PNIEC che si basa ancora su tanto gas, lo sbandierato Piano Mattei, che ancora non si capisce cosa sia se non, di nuovo, la ricerca di nuovi giacimenti fossili in Africa, un chiacchiericcio inutile, ma promosso anche da fonti governative, su un fantomatico nucleare di nuova generazione o sull’araba fenice della fusione, rischiano di concretizzarsi in un freno che lega le imprese più innovative e che minaccia di sprecare risorse su infrastrutture che nascerebbero obsolete come i due rigassificatori proposti a Porto Empedocle e a Gioia Tauro o, forse peggio ancora in quanto ad anacronismo, la dorsale del gas in Sardegna.
La questione infatti è non se si vogliono promuovere o meno le rinnovabili, cosa che nessuno a parole contesta – persino i filonucleari nella loro ultradecennale inutile battaglia, da cui sono sempre usciti sconfitti dal 1987 in poi, sono passati dal dire che “le rinnovabili tutt’alpiù possono rappresentare una nicchia nel mercato elettrico” a una narrazione per cui il nucleare sarebbe necessario (sic!) per affiancare lo svliuppo delle rinnovabili “che non possono arrivare al 100%” – ma se le scelte politiche concrete non siano invece quelle che favoriscono la permanenza dei fossili e in particolare del gas. Allora, i pur evidenti passi avanti che la Commissione VIA negli utimi anni ha permesso con un numero crescente di autorizzazioni degli impianti da fonti rinnovabili, si scontrano con l’ostruzionismo del Ministero della Cultura, con la paralisi delle Regioni che non completano quegli stessi percorsi autorizzativi o che nella sede della Conferenza Stato Regioni impediscono di fatto l’individuazione delle cosidette “aree idonee” stavolgendo la bozza del relativo decreto tanto da dovere augurarsi che lo stesso non veda mai la luce perche nella versione che circola sarebbe un ulteriore ostacolo allo svilupparsi delle rinnovabili. Altro che semplificazione!
Gioco facile e terreno fertile per le tentazioni nimby, trasversali e diffuse come dimostra la proposta di moratoria (evidentemente incostituzionale) per tutti gli impianti da fonte rinnovabile avanzata dalla neo-eletta governatrice della Sardegna Alessandra Todde (del Movimento 5 Stelle a capo di una maggioranza di centro sinistra). Nimby che però viente travolto senza colpo ferire, se si parla di infrastrutture per il gas (come domostra la vicenda della nave rigassificatrice ormeggiata a Piombino).
A me pare che due siano i possibili antidoti con cui combattere questo veleno fossile: la forza del mercato e le comunità energetiche.
Sulla forza del mercato, basterebbero i dati di Lazard, o anche le previsioni della IEA (International Energy Agency – www.iea.org), altra fonte non sospettabile di simpatie ambientaliste, per comprendere che nel lungo termine termine vinceranno le rinnovabili. “It’s economy, stupid” diceva Bill Clinton. D’altra parte era John Maynard Keynes che avvertiva che “nel lungo termine siamo tutti morti”. E’ proprio sui tempi che si gioca tutto e quindi ha ragione Elettricità Futura a chiedere finalmente l’accelerazione che consenta di mettere a terra quegli 80 GW che ci servono entro il 2030: l’”autorizzazione unica” sia tale per davvero, basta rimpalli tra Regioni e Stato centrale (l’”autonomia differenziata” promossa dalla Lega sarebbe una sciagura anche in questo campo aggravando una confusione di competenze già causata dalla riforma del Titolo V): l’energia è questione da affrontare a livello europeo, altro che compenze regionali! Si facciano tutte le valutazioni di compatibilità ambientale e paesaggistica (senza eccessive distanze dalle aree vincolate) necessarie, ma si consideri la realizzazione delle opere necessarie agli impianti da fonti rinnovabili come “opere di pubblica utilità”, così come nei fatti sono.
Le comunità energetiche d’altra parte pur non essendo quantitativamente sufficienti (il Governo conta di farne per 5GW e la stessa Italia Solare non ne prevede più di 12 GW) possono svolgere, adesso che il Governo ha finalmente emanato il relativo decreto, seppur con un anno e mezzo di ritardo, e il GSE sta facendo un ottimo e puntuale lavoro di formazione e accompagnamento delle amminsitrazioni locali, un ruolo fondamentale nella diffusione degli impianti da fonti rinnovabili consentendo a cittadini e imprese di riconoscerne gli effetti benefici sia dal punto di vista economico sia da quello della sicurezza dell’approvvigionamento.
Perché non dobbiamo mai scordarci che la vera sicurezza nell’approvvigionamento energetico ce la da l’indipendenza da fonti fossili che dobbiamo importare. Nella crisi dovuta all’aggressione della Russia contro l’Ucraina, in emergenza abbiamo scelto di sostituire il gas russo con quello algerino, azero o con quello liquido in larga parte quatariota. Sicuri nel lungo, ma anche solo nel medio termine, in questo frangente così periglioso e tragico sul fronte geopolitico, siano paesi “sicuri e affidabili”? L’unica vera indipendenza ce la possono dare le fonti rinnovabili disponibili per tutti. Grazie all’innovazione ce la abbiamo a portata di mano. Un peccato imperdonabile sarebbe lasciarcela sfuggire
Francesco Ferrante
Vicepresidente del Kyoto Club e del Coordinamento Free