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Recovery Fund e transizione ecologica: fino a che punto fidarsi?

Il programma gestito direttamente dalla Commissione Ue è dotato di una potenza di fuoco pari a 750 miliardi di euro. Dovevano essere 1000 secondo le aspirazioni iniziali di Italia, Francia e Spagna, con ben 500 miliardi di sussidi poi scesi a 390 per l’opposizione di Austria, Olanda, Svezia, Finlandia e Danimarca che puntavano a ridurre le erogazioni a fondo perduto. Gli altri 360 miliardi verranno infatti erogati sotto forma di prestiti. Una parte delle risorse arriverà dal bilancio comunitario, ma per finanziarsi la Commissione è autorizzata ad emettere eurobond.

Di questi, all’Italia spettano 209 miliardi di euro, tra contributi a fondo perduto, poco meno di 90 miliardi di euro, e prestiti a tassi agevolati. Una cifra ingente che però prima di essere spesa deve rispettare due vincoli ben precisi. Il primo riguarda la destinazione finale dei fondi, con la Commissione che anche recentemente ha ribadito come transizione energetica e innovazione digitale debbano rappresentare le principali voci di spesa. Il secondo riguarda la modalità di selezione e presentazione dei progetti da finanziare. A tal proposito, il Comitato Interministeriale per gli Affari Europei ha recentemente pubblicato le linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un primo documento che consentirà di arrivare alla stesura di un piano di finanziamenti che verrà vagliato dall’Unione europea nella prossima primavera.

Ad oggi il PNRR costituisce la prima e unica indicazione circa le intenzioni di spesa da parte dell’Italia. Una lista di “regole del gioco” che se da una parte indica obiettivi sociali, ambientali ed economici, dall’altra fissa alcuni paletti per evitare di regalare false speranze a chi pensava di sfruttare il Covid per finanziare il Ponte sullo Stretto o ridurre il peso fiscale.

Digitalizzazione ed innovazione, equità, inclusione sociale, salute, ambiente, mobilità, istruzione, competitività: i segnali positivi non mancano, in particolare se si osservano il linguaggio, gli auspici, gli obiettivi. Anche i riferimenti e gli indirizzi sono interessanti e in larga parte condivisibili. Il concetto stesso di “resilienza”, che si trova nel titolo, fa ben sperare. Insomma, buone notizie. Ma ancora non sufficienti per assicurare il raggiungimento di un duplice obiettivo che si presenta più che mai ostico: la ripresa economica post-pandemia, e il perseguimento degli obiettivi climatici e ambientali che dovrebbero portare l’Europa a diventare un continente a zero emissioni nette al 2050.

Va inoltre detto che aldilà delle difficoltà tecniche e politiche che accompagneranno questo percorso, la credibilità del piano di transizione comunitario e nazionale è minata dalle scelte politiche del recente (e anche recentissimo) passato. Si è già osservato, infatti, come spesso dietro all’indubbia complessità di strutturare un’azione sistemica e integrata efficace, si crogioli il più conservativo e retrivo immobilismo, che funge da zavorra per le migliori e più promettenti energie del Paese..Da tempo, ad esempio, si chiede a gran voce un cambio di passo per il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), documento recente ma già superato, che non solo è poco ambizioso negli obiettivi (-37% delle emissioni climalteranti entro il 2030, mentre sarebbe necessario arrivare almeno al 55-60%), ma anche molto carente nell’indicazione degli strumenti attuativi. Da tempo, per il mondo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, si chiedono, senza ottenere risposte:

la stabilizzazione e il completamento della normativa, dei regolamenti di attuazione (la cui cronica lentezza ha frenato, anche per anni, mercati e meccanismi sulla carta estremamente promettenti: biometano docet) e del sistema incentivante (ad esempio con il FER2, con le comunità energetiche, o con la revisione del meccanismo dei Titoli di Efficienza Energetica per l’efficientamento del comparto energetico industriale);

una semplificazione reale degli iter autorizzativi e della burocrazia,;

la costruzione ed implementazione di una solida e chiara strategia industriale, che pensi anche ad internalizzare filiera produttiva e competenze per la realizzazione degli interventi e degli impianti.

Da tempo si chiede, sul fronte meno evoluto della conversione ecologica in Italia, una scelta di campo netta per l’infrastrutturazione del nostro Paese dal punto di vista di mobilità e trasporti. Con oltre 620 autovetture ogni 1000 abitanti, secondo i dati dell’Eurostat, l’Italia possiede il triste primato di avere il numero più alto di veicoli pro-capite d’Europa, contro una media europea, del medesimo indicatore, pari a circa 500. Non è diversa la situazione del trasporto merci interno alle singole nazioni: se in Europa il valore medio è del 76,5%, in Italia siamo a 86,5% di merci che viaggiano su gomma, con un una quota di trasporto su ferro estremamente bassa. C’è urgente bisogno di un piano strategico d’azione che privilegi la “cura del ferro” (alcune tratte del nostro territorio sono di fatto tagliate fuori da una rete ferroviaria moderna ed efficiente, mentre l’assenza di trasporti efficaci su rotaia, regionali e metropolitani, ingolfa e inquina le nostre città). Il tema delle autostrade e del trasporto su gomma dovrebbe, contestualmente, essere, si, all’ordine del giorno, ma principalmente per accompagnare il settore ad un progressivo depotenziamento, e per potenziare manutenzione, riqualificazione e messa in sicurezza dell’esistente.

Come se non bastassero i ritardi accumulati, inoltre, malgrado obiettivi, proclami e commissioni al lavoro, alla prova dei fatti continua a privilegiarsi la conservazione, senza dare gambe in alcun modo alla visione strategica e prospettica: emblematico un DL “semplificazione” che in realtà finisce per ostacolare ulteriormente l’affermazione dell’economia verde.

A ben pensare, in molti settori basterebbe anche guardare a quanto di meglio sia già accaduto nel Paese e cercare di liberarne il potenziale: si pensi al settore della bio-economia circolare, che ormai rappresenta il 10% del valore della produzione dell’economia italiana (con un investimento negli ultimi dieci anni 800 milioni solo nella biochimica). Si tratta di un settore di fondamentale importanza anche in relazione alla tutela del suolo e della sua fertilità, che non solo va potenziato, ma dovrebbe essere preso come modello interpretativo e lente focale per riorganizzare le altre filiere produttive.

E’ tempo di uscire dall’era delle occasioni perse.

Dal Governo, nella gestione delle straordinarie opportunità e risorse derivanti dal Recovery Fund, ci si aspetta oggi che, al di là della compilazione di liste di opere da finanziare, più o meno discutibili singolarmente è più o meno frammentate nel complesso, si rispetti innanzitutto l’obiettivo di dedicare al contrasto ai cambiamenti climatici almeno il 30% (di cui un terzo per il sud) del Recovery Fund. Ci si aspetta che si mettano in campo strategie multi-settoriali con obiettivi sfidanti a medio e lungo termine, che partano dal mondo della ricerca e dell’innovazione tecnologica, che progettino una radicale riconversione delle attività industriali e produttive, che diano priorità alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, all’inclusione digitale, alla diffusione di pratiche lavorative realmente “smart” e che, infine, tengano ben impresso nella mente gli utenti ultimi dell’intero percorso, che dovranno poter manifestare la propria soddisfazione: le generazioni future, alle quali dobbiamo, finalmente, maggiore serietà.

ANNALISA CORRADO

FRANCESCO FERRANTE

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