pubblicato sul Dossier Comuni Ricicloni 2023 di Legambiente Sicilia
I rifiuti sono un problema (evidente soprattutto per chi abita nelle grandi città) ma possono persino diventare una grande risorsa come dimostrano molte esperienze di economia circolare che fanno tornare a nuova vita, nuova materia prima ciò che siamo stati abituati a considerare solo scarti di cui disfarsi.
Ed è tanto più possibile oggi grazie all’innovazione tecnologica che ci consente operazioni di recupero che fino a qualche anno fa o non erano disponibili o erano troppo costose. Questo vale innanzitutto per la frazione più importante del nostri rifiuti urbani: l’organico. In Sicilia circa il 40% dei poco più di 2milioni di tonnellate di rifiuti che si producono ogni anno sono rifiuti organici. Quindi 800mila tonnellate – comprese le nuove bioplastiche, quelle biodegradabili e compostabili – che oggi dopo essere stati raccolti im maniera differenziata possono essere avviate a impianti di biodigestione, che opportunamente diffusi sul territorio della Regione, possono produrre biometano (in sostituzione del metano fossile), una vera fonte di energia rinnovabile, e compost di qualità di grande utilità per la nostra agricoltura in sostituzione di fertilizzanti chimici. Ma la possibilità di recupero di materia è ovviamente vera per le altre frazioni dei rifiuti, dal vetro alla plastica, dalla carta all’alluminio e all’acciaio. La chiave di volta è la raccolta differenziata. Senza quella nulla di tutto questo è possibile. In Sicilia ci sono sempre più Comuni molto avanzati – co e testimonia ogni anno la ricerca sui Comuni Ricicloni di Legambiente, le grandi città sono invece in ritardo e oggi complessivamente solo poco più della metà dei rifiuti che produciamo è raccolto correttamente in maniera differenziata. Ma se vogliamo fare un piano per la realizzazione di impianti che poi dureranno decenni dobbiamo necessariamente farlo a valle di una raccolta differenziata che diventi efficiente e che rispetti i parametri europei anche a Palermo e a Catania, per citare i due più grandi agglomerati urbani e di conseguenza i due più grandi produttori di rifiuti,
Per chiudere il “cerchio dei rifiuti” (qualcuno ha chiamato l’economia circolare l’”economia della ciambella”) oltre agli impianti di biometano citati e quelli del recupero di materiali più facili da differenziare dobbiamo però occuparci di quella quota di rifiuti indifferenziati che restano sia perché non si riesce a differenziarli nelle nostre case sia dalle scorie degli impianti di recupero di materia. Quanti sono e cosa farci con quelli? Se consideriamo di arrivare al 75% di raccolta differenziata (che è la quota minima se si vuole rispettare il parametro europeo del 65% di ricicolo effettivo) secondo il Piano Regionale Siciliano resterebbero fuori ancora 570mila tonnellate da trattare. Noi riteniamo che si possa andare oltre l’obiettivo minimo e ridurre così la quantità di rifiuti indifferenziati. Ma prendiamo per buona quella cifra. L’ipotesi di bruciare quasi 600mila tonnellate di rifiuti in uno o più impianti per produrre energia elettrica è decisamente da scartare per più di un motivo. Oltre all’impatto ambientale che si avrebbe nei territori interessati a causa delle emissioni inquinanti, ci sono da considerare quelle climalteranti. Per ogni tonnellate di rifiuti che si brucia si emette una tonnellata di CO2. Avremmo quindi una quota aggiuntiva di emissioni climalteranti dalla Sicilia di 600mila tonnellate di CO2, che peraltro dato che l’Europa ha deciso che queste emissioni si pagheranno (a oggi il loro costo è 100 euro/ton), sarebbe un prezzo anche economico che attraverso l’aumento della Tari ricadrebbe sulle spalle (o meglio sulle tasche) dei cittadini siciliani. Non esiste una tecnologia che recuperi con efficacia la CO2 emessa da un inceneritore, anche perché la stessa è troppo “diluita” nella grande quantità di fumi emessi dall’impianto. Incenerire i rifiuti inimpianti dedicati è una scelta talmente antiquata che l’Europa l’ha esclusa dalla sua tassonomia (che individua le tecnologie su cui è possibile investire) in quanto non rispetta il principio DNSH (Do not significant harm – che possiamo tradurre con “che non faccia danni significativi”).
Oggi abbiamo a disposizione tecnologie molto più moderne che iniziano a sperimentarsi e che offrono soluzioni assai pù convenienti sia dal punto di vista ambientale che economico.
Oltre alla produzione di CSS (Combustibile Solido Secondario) – già previsto invero nel piano regionale siciliano seppur in quantità a nostro avviso eccessive – che si può avviare a impianti già esistenti (quali i cementifici) in sostituzione di combustibili fossili, ci sono interessanti tecnologie come la ossicombusione e il riciclo chimico che possono trattare quella quota residua senza fare danni all’ambiente. L’ossicombustione è combustione tramite ossigeno puro senza fiamma il cui prodotto finale sono inerti e la CO2 che si emette è talmente concentrata che si recupera facilmente e trova impiego proficuo per esempio nel ciclo alimentare; il riciclo chimico consente di tornare a un nuovo polimero o alla produzione di idrogeno o etanolo proprio da quella quota di residuo indifferenziato e anche in questo caso il recupero di CO2 (una percentuale assai ridotta rispetto a un impianto di incenerimento tradizionale) è agevole.
A fronte di questi progressi non si capisce davvero perché insistere su una tecnologia che risale al millennio scorso (non c’è nessuna differenza rispetto a un impianto progettato negli anni 90 del novecento) e che non a caso non realizza pià nessuno da almeno vent’anni
Francesco Ferrante
Vicepresidente Kyoto Club
p.s. In Europa il neologismo – da greenwashing – termovalorizzatore non esiste. Li chiamano incinerators