CINQUANT’ANNI FA IL PRIMO “EARTH DAY”, OGGI CRISI CLIMATICA E PANDEMIA: QUALE FUTURO PER L’AMBIENTALISMO?

pubblicato su huffingtonpost.it

Peccato, questo 22 aprile è una data importante. Sì peccato, perché stretto tra l’emergenza-pandemia che ha cambiato le nostre vite e guadagnato un posto d’onore nei futuri libri di storia e il 75° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, evento fondatore dell’Italia democratica e repubblicana, rischia di passare in sordina un altro anniversario decisamente storico. Esattamente 50 anni fa, il 22 aprile 1970, nasceva il movimento ambientalista. Nasceva negli Stati Uniti, con una giornata memorabile che vide quasi 20 milioni di americani, soprattutto giovani, scendere in piazza nel nome di un valore per allora davvero inedito: la difesa dell’ambiente come “bene comune” minacciato dall’inquinamento e dalla dissipazione delle risorse naturali. Quel primo “Earth Day” fu una mobilitazione spontanea, preparata da un network fitto ma decisamente informale di gruppi universitari e associazioni civiche, e fu un evento squisitamente americano (l’ambientalismo sbarcherà in Europa qualche anno più tardi), con solide radici nei movimenti controculturali che avevano animato gli stati Uniti negli anni ’60 e nelle proteste contro la guerra in Vietnam. Nella storia dei movimenti sociali segnò una cesura netta: per la prima volta la questione ambientale usciva dai convegni scientifici, dagli studi accademici, dai libri giornalistici di denuncia, e si faceva progetto di cambiamento della società, dunque ambizione squisitamente politica.

Da quel mercoledì di mezzo secolo fa, ogni 22 aprile si celebra in tutto il mondo l’Earth Day. Da quel mercoledì l’ambientalismo si è progressivamente imposto come movimento sociale – dalle associazioni “storiche” come Wwf e in Italia Legambiente, fino alla recentissima mobilitazione dei “Friday For Future” guidati da Greta Thunberg – e anche come soggetto politico: in quasi tutti i grandi Paesi europei i Verdi hanno conquistato un posto stabile e spesso rilevante nel consenso dei cittadini. Di più: questa nuova cultura ha inciso nel modo di produrre e di consumare: spingendo migliaia di imprese grandi e piccole a puntare sulla sostenibilità ambientale – dalle energie pulite alla plastica di origine vegetale, dal riciclo dei rifiuti all’agricoltura biologica – e milioni di cittadini a guardare all’ambiente come ad uno dei criteri fondamentali del proprio essere “consumatori”.

Come tutte le storie lunghe, anche questa dell’ambientalismo ha conosciuto crisi e ripartenze, successi e sconfitte. L’Italia, bisogna dire, è stata maestra sia nelle luci che nelle ombre: siamo stati i primi, con i referendum del 1987, a decidere per il no all’energia nucleare, siamo oggi tra i pochi senza un vero, forte partito ecologista.

In questo nuovo secolo l’ambientalismo è immerso in una sfida più temibile di tutte le altre affrontate nel passato: convincere la politica e l’economia a fare ciò che serve per fermare la crisi climatica legata soprattutto all’uso di combustibili fossili. Non una minaccia ma un’emergenza già pienamente in atto come certifica da anni la scienza, che sta causando danni ambientali, sociali, economici rilevanti e che, se non verrà neutralizzata rapidamente, rischia di cancellare l’idea stessa di “benessere”. Questo è un nodo cruciale, non sempre presentissimo anche a qualche ecologista: il clima che cambia, le temperature medie che continuano ad innalzarsi (siamo a un grado in più rispetto ai livelli pre-industriali, se arriviamo già a +1,5 gradi, sostiene l’IPCC, le conseguenze saranno drammatiche e irreversibili), i ghiacciai che si sciolgono, non mettono in pericolo “il pianeta”. Il nostro pianeta di cambiamenti climatici ne ha vissuti tanti altri, alcuni molto più sconvolgenti di quello attuale, e si è adattato. Le novità di questa “climate crisis” sono che per la prima volta un cambiamento così radicale e così globale avviene in presenza di una specie – homo sapiens – che si è incomparabilmente sviluppata, in numero e in organizzazione sociale, e la cui prosperità da tale cambiamento può essere spazzata via; e che in questo caso homo sapiens non è solo vittima del cambiamento, ma ne è anche il principale artefice.

Da settimane però tutti noi, ambientalisti compresi, siamo immersi in una diversa emergenza, la pandemia, nell’immediato ancora più insidiosa e che secondo alcuni toglierebbe urgenza, priorità, alla lotta alla crisi climatica. E’ così? Nella realtà no, nella realtà – anzi – tra la crisi sanitaria mondiale prodotta dal COVID-19 e il tema-ambiente corrono solide e profonde correlazioni. Anche qui serve sgomberare il campo da sciocchezze che talvolta e disgraziatamente si presentano come “ecologiste”: tipo l’idea che questa epidemia sia una specie di vendetta di “madre terra” contro noi umani che la maltrattiamo, o che – in termini meno spiritualistici – sia la dimostrazione che l’umanità ha varcato la soglia critica nella pressione distruttiva sull’ambiente. Sono per l’appunto stupidaggini.  Quello che sta capitando non era previsto e probabilmente non era prevedibile, come non lo sono i terremoti o gli uragani. Non è neppure qualche cosa di inedito, e per questo sarebbe fuorviante stabilire collegamenti automatici, deterministici, tra la pandemia da Coronavirus e i tanti, vistosi “buchi neri” del nostro “modello di sviluppo”, a cominciare da quelli legati a inquinamento e degrado ambientale. La storia dell’umanità è punteggiata di ondate pandemiche anche più devastanti di quella in corso, dalle antiche pestilenze fino all’influenza “spagnola” che tra il 1918 e il 1920 decimò la gioventù europea più ancora di quanto avesse fatto la guerra.

Ma tra pandemia e ambiente di connessioni ve ne sono eccome. La prima nasce da alcune evidenze e fondate ipotesi emerse in queste settimane: la distruzione degli ecosistemi naturali, primi fra tutti le grandi foreste, come fattore che ha accresciuto la frequenza dei “salti di specie” dei virus dagli animali all’uomo; e poi la possibilità – ipotizzata anche da fonti scientifiche autorevoli – che via sia un rapporto diretto tra la gravità degli effetti sulla salute e quindi il tasso di letalità del contagio da una parte, e la presenza nell’ambiente di determinati inquinanti (in particolare polveri sottili) dall’altra.

Ancora, una ulteriore connessione assai stretta riguarda, specificatamente, il “dopo”. L’umanità oggi deve fronteggiare una minaccia sanitaria drammatica. Ma questa urgenza nulla toglie ad altre urgenze altrettanto decisive: come dare efficacia ed incisività all’impegno globale contro la crisi climatica, fino oggi del tutto insufficiente; e come dare concretezza all’idea della transizione verso un modello economico fondato sulla tutela e la valorizzazione della qualità ambientale anziché su una sua continua erosione. In questo senso il 20 aprile 2020 è stata un’altra giornata storica: il prezzo del petrolio è crollato sino a finire in arena negativa. Segno inequivocabile che i fossili stanno finendo davvero dalla parte sbagliata della storia, ma anche campanello d’allarme perché la “resistenza” di chi non vorrà rassegnarsi alla perdita di potere e di soldi sarà sanguinosa.  Finita l’emergenza Coronavirus, si inasprirà lo scontro tra le spinte – mosse da interessi o anche solo da abitudini – a riprendere la via interrotta dello sviluppo come se nulla fosse, e chi vorrà operare perché le scelte della politica, dell’economia, delle organizzazioni sociali indirizzate a “rialzarsi”, imbocchino con decisione la via della responsabilità sociale e ambientale.

La pandemia di questi mesi, dicono in molti, cambierà faccia alla storia. Speriamo in meglio, certamente per ora ha dimostrato che l’umanità contemporanea possiede tutti i mezzi tecnologici e anche di volontà collettiva per fronteggiare grandi, drammatici problemi globali. La nuova sfida dell’ambientalismo è convincere la politica, la l’economia, la società, che queste “doti” vanno messe in campo per fermare una crisi – quella climatica – che non è meno importante del COVID-19.

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

 

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