Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

La politica e l’economia ripartano da Green Italia

Un movimento politico green, per offrire una risposta diversa, radicalmente diversa dalle risposte che danno tutte le forze politiche, alla crisi sociale, economica, democratica che assedia lItalia. E questa lambizione, per noi un azzardo necessario, di Green Italia che nascerà  il 28 giugno prossimo, in un incontro pubblico presso lauditorium del museo Maxxi a Roma. A promuovere Green Italia sono, siamo persone con storie diverse e anche lontane: ecologisti che provengono dal Pd, figure di punta delle principali associazioni ambientaliste, la presidente dei Verdi europei Monica Frassoni; esponenti politici con un pedigree squisitamente di destra come Fabio Granata, imprenditori della green economy.  
In Italia l’ecologia, l’ambiente, leconomia verde sono trattati da quasi tutta la politica come temi minori. Nessuno ne parla male, ma nel dibattito pubblico recitano la stessa parte dei pianisti nei film western: tra pallottole e cazzotti restavano sempre lì sullo sfondo imperterriti a suonare, mai colpiti e però mai protagonisti della scena. Le ragioni di ciò sono più d’una, la principale è l’assenza dal nostro paesaggio politico e dal conseguente mercato elettorale di un’offerta credibile e solida – i Verdi italiani non lo sono stati mai – che si proponga di rappresentare i valori, i bisogni, gli interessi legati all’ambiente, e che come in ogni competizione costringa anche tutti gli altri a cimentarsi sul suo terreno. Per capire che nasce da qui l’analfabetismo ambientale di buona parte delle classi dirigenti italiane e dei nostri politici in particolare, basta dare uno sguardo agli altri grandi Paesi europei: è grazie alla forza competitiva dei Grà¼nen (10,7% alle politiche del 2009, il 15% nei sondaggi sul prossimo voto di settembre) se in Germania anche gli altri partiti considerano i temi ambientali come priorità ; e in Francia le politiche ambientali hanno cominciato a correre solo da quando destra e sinistra hanno dovuto fare i conti con “Europe Ecologie”, la federazione ecologista fondata da Daniel Cohn-Bendit che alle elezioni europee del 2009 ottenne oltre il 16% dei voti. Chi scrive ha pensato che il Pd potesse essere, accanto a molto altro, anche la via italiana alla rappresentanza dei temi ambientali in politica: quella speranza ci sembra finita, sommersa da una deriva che ha progressivamente   trasformato il Partito democratico nella somma litigiosissima e poco assortita di vecchie, decisamente datate appartenenze e di piccoli e grandi apparati.

Eppure una domanda di politica “green” ci sarebbe anche in Italia. Oggi più forte che mai, nutrita com’è non soltanto di valori e modelli di consumo, ma anche di concreti interessi economici. Molti segnali lo confermano: dal successo vistoso dei referendum su acqua pubblica e nucleare di un anno e mezzo fa, al peso non marginale che lanima ecologica ha giocato nellascesa elettorale dei grillini, fino alla crescita formidabile, malgrado la crisi, della “green economy”, migliaia di imprese (energia, chimica verde, riciclaggio dei rifiuti…) ignorate dalla politica (e dalla stessa Confindustria) che hanno fatto dell’innovazione ecologica il loro business principale.

Questa nuova economia già  largamente in campo ma priva tuttora di rappresentanza politica, nel caso dell’Italia ha un’anima antica. Se è “verde” l’economia che produce benessere e prosperità  senza intaccare il capitale naturale, allora noi leconomia verde labbiamo inventata prima di tutti gli altri e la pratichiamo con successo da secoli. Vi è insomma una green economy in salsa italiana che si fonda sulla bellezza, il paesaggio, i beni culturali, la creatività , la convivialità , il legame sociale e culturale tra economia e territorio: tutte materie prime immateriali e dunque ecologiche, tutti talenti dei quali abbondiamo (da cos’altro nasce la fortuna del made-in-Italy…?) e che oggi sono la nostra arma migliore, forse lunica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi incombenti di declino.

In Europa, l’Italia è considerata per tanti aspetti un’anomalia: l’assoluta marginalità  dell’ambiente nel dibattito pubblico e in particolare nel confronto politico è uno dei nostri  “gap” più evidenti. La scommessa, semplice e temeraria, di  “Green Italia è riuscire ad accorciarlo almeno un poco.

 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Sel (e Pd?) socialisti tardivi

Oggi ha senso per il centrosinistra, e in particolare per il Pd, immaginare per sé un futuro socialdemocratico?

Cinquantanni fa, quando la sinistra europea era quasi tutta socialista, solo in Italia mancava un forte, grande partito socialista. Oggi che la sinistra in Europa e nel mondo è molto di più e molto daltro, la sinistra italiana smania per entrare nel club dei socialisti europei. Vendola ha appena formalizzato la richiesta di Sel di aderire al Pse, mentre il Pd già  fa parte del gruppo socialista al Parlamento europeo (per entrare, ha chiesto e ottenuto che il Gruppo cambiasse nome in Socialisti e democratici). E ora questa stessa prospettiva, dare vita in Italia a un grande partito dichiaratamente socialista, anima lidea di accogliere Vendola e il suo partito dentro il Pd.
Questa asincronia nel rapporto tra la sinistra italiana e il campo socialista dice parecchio sulle ragioni per le quali in Italia i progressisti non sono mai stata maggioranza. Non lo sono stati durante la prima Repubblica, quando la possibilità  di unalternanza tra Democrazia cristiana e partiti di sinistra alla guida del Paese venne sempre impedita dal fatto che da noi la sinistra, caso pressoché unico in Occidente, vedeva la presenza maggioritaria di un Partito comunista: quello che Alberto Ronchey battezzò il fattore k. Non lo sono stati nemmeno negli ultimi ventanni, quando per governare hanno avuto bisogno o che il centrodestra fosse diviso, come nel 1996, oppure di allestire coalizioni passepartout destinate a vita scomoda e breve, come lUnione del 2006 da Bertinotti a Mastella.
Oggi ha senso per il centrosinistra, e in particolare per il Pd, immaginare per sé un futuro socialdemocratico? Noi crediamo che ne abbia molto meno di ieri. Ha meno senso per due buone ragioni. La prima è nella genetica del Partito democratico, nato dallUlivo e dallintuizione prodiana di collegare in ununica, grande forza le due principali famiglie del progressismo italiano: i post-comunisti, che socialisti sono diventati solo tardivamente, e i cattolici eredi della sinistra democristiana, che socialisti non sono mai stati né, immaginiamo, intendano diventarlo adesso. A ciò si aggiunga che il Pd, quando nacque, dichiarò lambizione di guardare oltre le sue tradizioni fondative, insufficienti davanti alle sfide del nuovo millennio. La seconda ragione non riguarda solo lItalia: è nel carattere sempre più plurale della sinistra in Europa e nel mondo. Una sinistra che si presenta con volti diversi: il volto, certo, dei partiti socialdemocratici, ma poi il volto liberal di Obama e dei democratici americani, il volto ecologista dei Grà¼nen tedeschi che nei sondaggi ormai tallonano la Spd. Insomma, lalfabeto socialista non basta più per rappresentare adeguatamente i valori, i bisogni, gli interessi di chi si considera di sinistra. Per esempio, è del tutto insufficiente e qualche volta è di ostacolo – per dare risposte convincenti a quei settori sempre più larghi dellopinione pubblica, della società , della stessa economia europee per i quali lecologia e la green economy, e ancora prima una riconversione radicale dei nostri stili di vita e dei nostri modelli di produzione e di consumo verso la sostenibilità , sono la via maestra non solo per fronteggiare grandi problemi come i cambiamenti climatici o linquinamento, ma per ridare allEuropa speranza nel futuro, condurla fuori dal tunnel della crisi, conservarle un ruolo da protagonista nelleconomia globalizzata.
Allora, mentre è naturale e va benissimo che i partiti socialisti di antica storia si tengano stretta la loro identità  e provino semmai ad aggiornarla alla luce dei nuovi problemi e delle nuove domande del presente, è invece assai discutibile questa corsa italiana a salire sul treno socialista da parte di chi socialista non è mai stato. Lo capì bene nel 1989 Achille Occhetto, che quando decise con uno strappo dolorosissimo per tanti di cambiare nome al Partito comunista preferì laggettivo democratico, più generico e inclusivo, a socialista. Scelta in parte dettata da esigenze del momento (non darla apertamente vinta ai socialisti di Craxi) ma scelta comunque preveggente: rinnegarla dopo un quarto di secolo sarebbe lennesima anomalia italiana, costerebbe la rinuncia a rappresentare con completezza la sinistra  e i tanti che vogliono un vero cambiamento, inevitabilmente porterebbe all’esplosione del Pd. “I merli con i merli e i passeri con i passeri”, disse una volta Bertinotti per evocare il suo no ad ogni mescolanza tra sinistra radicale e  riformista: ma nel 2013 le varietà  ornitologiche non si fermerebbero probabilmente a due,
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Quelle risposte riformiste che il Pd non ha dato

Dal  2008 a oggi è successo questo: il Pd è passato da 12 milioni di voti (33,17%, dato Camera) a poco più di 8 milioni e mezzo (25,41%). 

Quanto alla “sinistra-sinistra”, la somma di Sel (1.090.000, 3,2%) e Rivoluzione Civile (765.000, 2,24%) fa circa 1.850.000 voti, contro i 2.700.000 voti raccolti nel 2008 da Idv (1.590.000, 4,37%) e Sinistra arcobaleno (1.120.000, 3,08%). 

La débacle elettorale delle forze cosiddette progressiste è racchiusa in questi dati, che a loro volta ne fotografano un altro non numerico ma ancora più eloquente: nel mezzo di una crisi economica drammatica che colpisce larghe fette del corpo sociale, compresa buona parte dei ceti medi, la sinistra che da sempre e dappertutto ambisce a rappresentare le persone e i gruppi sociali in difficoltà , arretra. Arretra vistosamente, al punto da oscurare la frana indiscutibile dello schieramento di centrodestra precipitato in cinque anni da 17 milioni di voti a meno di 10 milioni. Arretra cedendo praterie elettorali a un fenomeno inedito e politicamente inafferrabile come sono i “cinquestelle”. Detto con parole semplici: la destra ha quasi dimezzato i suoi consensi, malgrado questo il Pd non ha vinto certificando il suo, temiamo definitivo, fallimento. 

Da qui, noi crediamo, si deve partire per capire il terremoto di queste elezioni. Per capire, innanzitutto, che il centrosinistra ha perso perché incapace, per il profilo anagrafico ma soprattutto culturale della sua classe dirigente, di vedere che la crisi sociale di questi anni si presenta in forme del tutto nuove, forme incomprensibili se l’analisi resta ferma al “gramelot” laburista dei “giovani turchi” o di Susanna Camusso. Oggi nella miscela esplosiva di sofferenza, preoccupazione e protesta che agita l’Italia si trovano impastati – nelle stesse persone, negli stessi ragionamenti – bisogni e richieste tra loro assai diversi: certo il disagio per il lavoro che si perde o per il lavoro che non c’è e l’insofferenza per una pressione fiscale esorbitante, ma insieme un disgusto radicale (spesso più che giustificato) verso chi fa il mestiere della politica e poi domande persino sorprendenti. Come quelle che hanno portato un anno e mezzo fa, a crisi già  conclamata, 30 milioni di italiani a votare nei referendum su nucleare e acqua pubblica mostrando di assegnare grandissima importanza a temi – l’ambiente, i beni comuni – che per lo stato maggiore del Pd sono astrusi e/o irrilevanti. 

Il Partito democratico non sembra in grado di leggere queste novità , tanto meno di nutrirne linguaggi e proposte. Non ha saputo mettere al centro del suo discorso pubblico quelle grandi questioni – l’ecologia, l’educazione, l’innovazione, lo stesso tema fiscale – che sole possono dare prospettiva e attrattiva a un programma riformista, e così ha finito per ridurre la sua promessa di cambiamento a due messaggi non proprio entusiasmanti: una stanca, verbosa perorazione sul lavoro e l’appello all’austerità  (dei conti, dei comportamenti, magari anche delle speranze…). 

Nemmeno ha saputo, il Pd, offrire risposte convincenti alla domanda ormai endemica di “ecologia della politica” e sciogliere davvero i nodi della sua questione morale: che non si esaurisce in qualche impresentabile tardivamente escluso dalle liste ma è fatta di un rapporto troppo spesso opaco con gli interessi economici. 

Ancora, la sconfitta del Pd ha un’altra radice profondissima: è l’ossessione identitaria comune in particolare a tutti gli ex-comunisti, l’idea cioè di una sinistra cui si appartiene per una scelta di vita, quasi antropologica. Idea che riguarda una minoranza sempre più ristretta di italiani, quelli che ad ogni elezione non si chiedono per chi votare dato che lo sanno già , per principio. 

E idea ormai del tutto priva di senso politico: perché il contenuto di questa identità  di cui ci si sente depositari non è più in una certa visione del mondo, in una “ideologia”, morte e sepolte; no, è in un’appartenenza apodittica, nella presunzione di essere diversi e migliori rispetto a tutti gli altri italiani. 

Su tutti e tre questi terreni – contenuti della proposta di cambiamento, ecologia della politica, rifiuto del vincolo identitario – i “cinquestelle” si sono mostrati, paradossalmente e almeno nel linguaggio e nella comunicazione, più riformisti del Pd: declinando con parole contemporanee – l’ambiente, l’agenda digitale – i temi delle risposte alla crisi, dando assoluta centralità  alla riforma della politica, rifiutando ogni steccato identitario fino ad ignorare la stessa divisione destra/sinistra. Il movimento di Grillo sarà  pure populista e rozzo, ma certamente è apparso meglio attrezzato per offrire risposte chiare, decise, concrete alla crisi italiana. 

Questo nostro – anticipiamo prevedibili obiezioni – non è “senno di poi”. Cose analoghe le ripetono in molti da molti mesi e cose analoghe le abbiamo scritte anche noi, più volte, su questo giornale. Per esempio scrivemmo dopo le elezioni regionali siciliane che l’onda a cinque stelle stava diventando uno tsunami, e che per arginarla bisognava che il Pd prendesse con forza in mano temi squisitamente “grillini”, e temi sacrosanti, come l’ambiente e l’ecologia della politica. Sappiamo che non si è voluto fare, questi sono i risultati. 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

1 2 3 48  Scroll to top