Mercoledì 26 settembre, nel corso di un’audizione pubblica presso la Commissione Industria del Senato della Repubblica, il Vicepresidente di Kyoto Club, Francesco Ferrante, ha sottolineato i ritardi del decommissioning atomico del soggetto pubblico incaricato Sogin. E mentre la bonifica slitta di anno in anno, i costi aumentano sempre di più.
Nonostante siano passati oltre 30 anni dalla chiusura delle centrali atomiche, il nostro Paese è ancora fermo nelle attività di bonifica, individuazione dei depositi per i rifiuti e smantellamento (decommissioning) dei siti nucleari.
A lanciare la denuncia è Francesco Ferrante, Vicepresidente di Kyoto Club, nel corso di un’audizione pubblica presso la X Commissione “Industria, commercio, turismo” del Senato della Repubblica.
Sul banco degli imputati c’è Sogin, la società pubblica responsabile incaricata del decommissioning. Il Vicepresidente di Kyoto Club ripercorre le vicende degli ultimi 10 anni, contraddistinte da un continuo procrastinarsi degli impegni presi, accompagnato ad un costante aumento delle spese previste – e non solo.
Nel 2008, Sogin presentò un piano in cui il decommissioning che si sarebbe dovuto concludere entro il 2019 con una spesa totale di 4,5. Oggi l’ammontare previsto dalla stessa Sogin è lievitato sino a 7,2 miliardi e la fine del decommissioning è slittata al 2036, ossia di ben 17 anni,.
“Gli ultimi due sono gli anni con il maggiore scostamento tra preventivo a inizio anno e consuntivo; nel 2016 e il 2017 sono state eseguite solo il 30% delle attività previste dal piano a vita intera di riferimento (agosto 2013); infine il preventivo 2018 è stato ridotto di ulteriori 70 milioni, rispetto al valore indicato nel programma quadriennale inviato da Sogin all’Autorità a febbraio 2016” commenta Ferrante.
C’è poi la questione relativa al rapporto tra le spese effettuate e quelle previste: nel 2001 il costo previsto relativo del piano al 2019 ammontava a circa 4,3 miliardi di euro – pari all’incirca a quello del 2008. Ma per ammissione degli stessi dirigenti di Sogin, i soldi spesi sarebbero di circa un quarto.
Anche nel 2017 peraltro Sogin non è riuscita a spendere i soldi che aveva previsto di impegnare (63 invece degli oltre 80 che aveva promesso, riducendo peraltro le previsioni che all’inizio di quell’anno indicavano per il 2017 130 milioni di attività di decommissioning).
“E’ bene intendersi – afferma Ferrante – su questo punto: qui non spendere, non è un risparmio, perché vuol dire che non si fa niente e che i costi lieviteranno inevitabilmente. Infatti quelli fissi (stipendi, mantenimento in sicurezza dei siti, funzionamento, ecc.) – che per questo definiamo “improduttivi” – continuano a lievitare e lo scorso anno hanno battuto il record superando i 130: più del doppio delle risorse concretamente spese per fare il lavoro che Sogin dovrebbe fare, mettere in sicurezza siti e scorie. Quindi ogni anno di ritardo fa aumentare i costi di circa 130 milioni (tanto si spende per il funzionamento della società: manutenzione dei siti, personale, costi di gestione).
Per non parlare di Saluggia, paesino in provincia di Vercelli dove sorge ancora la struttura di uno dei pochi ex impianti nucleari del nostro Paese, dove Sogin deve ancora cominciare la solidificazione dei rifiuti liquidi. A Saluggia c’è il rischio di esondazione, con conseguente pericolo di contaminazione dell’acqua: nonostante ciò, negli ultimi anni non si è proceduto a mettere in sicurezza il sito come chiedeva con urgenza l’allora Presidente dell’ENEA e Premio Nobel Carlo Rubbia nel 2001.
Invece, nel 2017 siamo arrivati al paradosso che tra due società controllate dallo Stato si è scatenata una lite giudiziaria che inevitabilmente comporterà altri ritardi. Sogin infatti come è noto ha deciso di aprire una vertenza giudiziaria contro Saipem (azienda controllata dallo stesso governo, seppur indirettamente, tramite Cdp ed Eni, cui era stata appaltata la realizzazione degli impianti per la cementazione dei rifiuti liquidi proprio a Trisaia e Saluggia) con motivazioni a nostro parere anche discutibili. Un caso in cui la “nazionalizzazione” del problema non lo ha affatto risolto.
“L’estrema gravità del rischio cui il Paese è sottoposto – conclude il Vicepresidente di Kyoto Club – richiede un atto di responsabilità del Governo che ponga fine a questo balletto di tempi intollerabile e avvii immediatamente un radicale cambio di rotta nella gestione di Sogin non accettando più rinvii e ritardi incomprensibili”.