Un’agenda riformista

Uscire dalla crisi senza seguire la Bce

*pubblicato su Il Manifesto

Non si è ancora spenta l’eco dell’ultima fragorosa (in termini quantitativi: 59 mld) manovra di correzione dei conti pubblici per l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013, che già  si annuncia un altro provvedimento del Governo sullo “sviluppo”. Limitando lo sguardo solo agli ultimi mesi, da aprile in poi si sono succeduti i seguenti atti in materia di politica economica e fiscale: il Def (documento di economia e finanza, il vecchio Dpef), il Pnr (programma nazionale di riforma), il decreto sviluppo, la manovra numero 1, la manovra numero 2 (quella partita il 13 agosto, poi riscritta più e più volte); mentre ora è alle viste lo “sviluppo 2” e, ovviamente, la legge di stabilità . Se esistesse anche un labile nesso tra produzione legislativa e ripresa economica, l’Italia sarebbe il campione del mondo della crescita!
Più in generale, questo autentico profluvio di atti di politica economica, ognuno accompagnato da un vasto dibattito pubblico, potrebbe far credere a un osservatore esterno – ma molto esterno: solo il marziano di Flaiano ormai – che in Italia il confronto politico su tali materie abbia raggiunto un livello di approfondimento e di maturità  assolutamente invidiabile, che in particolare siano emersi con chiarezza i profili alternativi delle proposte di governo e maggioranza da un lato, delle opposizioni a cominciare dal Pd dall’altro. Chi marziano non è, sa bene che la verità  sta altrove.  O meglio, mentre le scelte della destra rivelano bene o male un “sottostante” effettivo di linearità  e coerenza – assecondare la sempre più disuguale distribuzione del reddito e della ricchezza -, sul fronte opposto le opposizioni e segnatamente il  Pd faticano a dare forma e voce ad un proprio progetto coerente, che metta al centro due obiettivi irrinunciabili per ogni credibile prospettiva riformista: redistribuire ricchezza e reddito degli italiani e rinnovare la base produttiva e le ragioni competitive del nostro Paese puntando soprattutto su scuola, e formazione, cultura, ambiente, cioè su quei “beni comuni” decisivi sia come basi della coesione sociale sia per fondare un nuovo sviluppo all’altezza delle sfide e dei problemi del tempo presente.
Torna alla mente un recente libro di Maurizio Franzini dal titolo “Ricchi e poveri”, che richiama l’attenzione, con un apparato di dati davvero rilevante,  sul fatto che l’Italia è “maglia nera” nella classifica della disuguaglianza tra i Paesi che una volta si definivano “avanzati”, e che nell’ultimo decennio il nostro tasso di disuguaglianza è cresciuto in modo consistente. Franzini lamenta inoltre (ed è questo il dato su cui è più urgente riflettere) che il problema della disuguaglianza sociale non incrocia mai il dibattito politico italiano. Non pesa, non conta, non piace. Non piace alla destra, e questo si capisce, ma nemmeno caratterizza il discorso pubblico del centrosinistra, molti dei cui protagonisti sembrano riconoscersi nel seguente assunto:  è moderno e riformista solo chi pone al centro della propria iniziativa politica le necessità  di risanare i conti pubblici, di raggiungere quanto prima il pareggio di bilancio attraverso riforme radicali e strutturali dei meccanismi della spesa pubblica e della stessa spesa sociale; chi invece, partendo proprio da questa esigenza irrinunciabile, fa cadere però l’accento sui temi sociali e della redistribuzione, viene guardato con una certa sufficienza, quasi fosse uno stanco e scontato ripetitore di vecchie ricette socialiste.
Noi la pensiamo all’opposto. Crediamo che un riformismo che non faccia i conti con le vere e proprie cesure (economiche, sociali, culturali) determinate dalla globalizzazione, dalla crisi ambientale planetaria, dalla grande crisi finanziaria, dalla recessione di questi anni, un riformismo che resti inchiodato alla scelta tra i due “forni” di un modernismo blairiano molto datato e abbastanza estenuato e di un’ortodossia socialdemocratica tutta nazionale, statalista e welfariana, oggi sarebbe semplicemente insensato.
Nel mondo, la consapevolezza che queste due opzioni vadano entrambe superate comincia a farsi strada tra economisti, sociologi e commentatori giornalistici. E si affaccia pure in politica, grazie soprattutto allo sforzo di Obama e all’influenza crescente di nuovi soggetti politici riformisti (valga per tutti l’esempio dei Verdi tedeschi). Per dirla tutta, pensavamo che questa stessa fosse la principale ragione sociale da cui nasceva il Pd. Ma la crisi evidente di quel progetto, ci obbliga in qualche modo a ripartire, politicamente, da zero.
L’esigenza, per noi, è di comporre una AGENDA DEL RIFORMISMO che abbia i caratteri dell’innovazione, della praticabilità , della concretezza e della coerenza con un sistema generale di valori. Si dovrebbe forse partire dall’osservazione di tre dati sull’Italia di questi anni: una grande sperequazione nella distribuzione del reddito, un divario crescente di produttività  e una drastica  riduzione del reddito procapite nel confronto con le economie avanzate. Che vi sia un nesso tra questi tre elementi? Che la diseguale distribuzione del reddito abbia parecchio a che fare con la perdita di produttività  e con la sostanziale stagnazione dei nostri ritmi di crescita? Economia aperta e società  aperta sono due facce della stessa medaglia: l’Italia tornerà  a crescere solo se gli investimenti produttivi privilegeranno l’innovazione, a cominciare da quella ecologica, e si accompagneranno con un coerente piano di redistribuzione del reddito.
Da questo punto di vista, il patto “Euro Plus” che vincola i Paesi dell’Unione a politiche di bilancio virtuose e a riforme economiche strutturali, andrebbe letto non con le vecchie lenti dei parametri di Maastricht ma come una grande occasione, per l’Italia, di rinnovamento delle politiche pubbliche.
Cosa si intende dire? Che un Paese come il nostro con un livello del debito intorno al 120% del Pil ha davanti a sé due possibilità : dare per inevitabile un declino destinato prima o dopo ad escluderci dal novero delle economie rilevanti, limitandosi a gestirlo nel modo meno traumatico possibile; oppure rifiutare l’inevitabilità  di questo esito, e battersi per scongiurarlo approntando un “Piano Nazionale di Riforma” che individui quattro/cinque punti essenziali di attacco a partire dalle condizioni date, cioè dal livello del debito e dalla necessità  di giungere rapidamente al pareggio del bilancio. La crescita senza deficit, invocata nel Def, dovrebbe insomma assumere il rilievo di un grande patto costituzionale, capace di rivoluzionare davvero i comportamenti delle forze politiche e degli attori sociali.
Compito di un riformismo che sia davvero tale è lavorare con determinazione a questa seconda prospettiva, e  allo scopo occorre prima di tutto convincersi che l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2013 è, certo, un traguardo irrinunciabile, ma è un “fine” rispetto al quale i “mezzi” adottati per raggiungerlo sono tutt’altro che indifferenti. Così, raggiungere il pareggio di bilancio al prezzo di una ulteriore compressione del reddito e del livello di vita delle fasce medio-basse e della classe media, sarebbe un rimedio peggiore dei mali – il debito troppo alto, il disavanzo – che l’Europa e il buonsenso impongono all’Italia di curare. 
Capiamo bene che per l’Italia già  solo costruire l’obiettivo del pareggio di bilancio vale una rivoluzione, un “salto di paradigma” epocale. Nei centocinquant’anni di vicenda unitaria, con rare eccezioni, le nostre politiche budgetarie hanno sempre seguito un criterio incrementale: prima si decide quanto spendere, poi si coprono i “buchi”. E’ così che siamo diventati il quarto debito del mondo! Ora bisogna procedere in senso inverso, partendo dalla definizione dei saldi e dei relativi livelli della spesa e delle entrate. Ma una volta stabilito il “quanto”, le componenti che determinano entrate e uscite vanno radicalmente riclassificate. E se sul versante della spesa è indispensabile una “spending review” che consenta di valutare, e di ottimizzare, la qualità  dell’impiego delle risorse pubbliche, se vanno sconfitte le resistenze conservatrici di parte della sinistra politica e sindacale che considerano un tabù l’aumento dell’età  pensionabile, tuttavia sono altre le scelte di “policy” che qualificano il tasso di riformismo di questa o quella via per giungere al disavanzo zero.
Un esempio banale: del welfare italiano fanno parte, sia pure a diverso titolo, tanto il sistema sanitario, che va sottoposto a un’attenta revisione di spesa ma va salvaguardato, quanto circa 7 mila società  pubbliche locali che in larga maggioranza servono soprattutto a sostentare una pletora di politici, ex-politici, para-politici. E’ il tempo di scegliere. Questo sistema di collocamento e autoperpetuazione del ceto politico va liquidato, oppure sarà  impossibile salvare l’anima buona del nostro welfare.
Sul versante delle entrate, l’azione di rinnovamento deve essere ancora più penetrante. I livelli complessivi della pressione fiscale non possono e non devono crescere, ma la distribuzione del carico va radicalmente ridefinita. Il carattere regressivo sul terreno della redistribuzione dell’attuale sistema è sotto gli occhi di tutti, eppure molti, anche nel centrosinistra, si ostinano a non vederlo. In questo come in altri casi, le politiche della destra seguono criteri a loro modo coerenti: a vantaggio dei più forti contro la classe media; a vantaggio di alcuni settori del lavoro autonomo contro quello dipendente, sia privato che pubblico. Questa impronta caratterizza tutte le scelte – o le non-scelte – compiute nei dieci anni di governi Berlusconi: la lunga sequela dei condoni, gli scudi fiscali con aliquote ridicole (4-5%), l’abolizione dell’Ici sulla prima casa a prescindere dal reddito, la cedolare secca sugli affitti, la struttura delle aliquote dell’Irpef, la tolleranza verso l’evasione fiscale, l’alleggerimento recente dell’attività  di riscossione. Non a caso, nella delega per la riforma fiscale non è più previsto, come criterio generale, quello della progressività : è una riforma costituzionale anche questa!
I riformisti, sul fisco, devono proporre e costruire un opposto cammino: che rilanci il criterio della progressività  del prelievo come fattore irrinunciabile di redistribuzione del reddito, e che al tempo stesso promuova un graduale ma significativo spostamento del carico fiscale dalle persone e dal lavoro alle cose – patrimoni, consumo di risorse (materia ed energia), produzioni più inquinanti – e ridisegni il sistema di sgravi e incentivi in modo da privilegiare le categorie sociali più deboli e meno tutelate (giovani, lavoratori precari, pensionati a basso reddito) e i settori produttivi più promettenti e strategici, a cominciare dall’economia della conoscenza, dalla “green economy”, dalle economie della creatività  e del territorio battezzate da Ermete Realacci come “soft economy”.
Il primo passo di una ricomposizione dell’imposizione fiscale su basi riformiste non può che essere la  tassazione del patrimonio. Stupisce il silenzio assordante di gran parte del Pd su questo punto. Walter Veltroni, qualche mese fa al Lingotto, si misurò per primo su questo tema. Noi crediamo che nella situazione data dell’Italia, non vi sia vero riformismo senza patrimoniale: una patrimoniale sul modello francese, con carattere strutturale e senza diretto riferimento ad operazioni straordinarie di abbattimento del debito pubblico. Più che affidarsi a provvedimenti straordinari che alimentano quel clima di “eccezionalità  permanente” nel quale l’Italia s’è abituata a vivere, molto meglio è imboccare la via di una magari più modesta, ma molto più incisiva, riforma ordinaria.
Le considerazioni fin qui svolte toccano solo alcuni capitoli di un’ipotetica agenda riformista. Non è soltanto con le leve della politica economica che si riduce la disuguaglianza sociale (liberalizzare i troppi mercati ancora chiusi, dai servizi alle professioni, non è meno importante per mettere di nuovo in movimento l’ascensore sociale) né che si apre la via a una stagione di rinnovato sviluppo (difficile  per esempio che il Sud possa crescere economicamente senza sconfiggere mafie ed ecomafie). E d’altra parte, per diventare un credibile soggetto riformista non basta al Pd darsi un profilo chiaro e fortemente innovativo in materia di fisco o di taglio delle spese parassitarie: prima ancora che nelle cose che propone per domani, il Partito democratico deve diventare più credibile nelle scelte e nei comportamenti di oggi, deve convincere gli italiani di essere una vera alternativa non solo politica, ma anche in termini di etica pubblica e moralità , all’attuale centrodestra. E qui meno che altrove sono ammesse scorciatoie: non bastano le  rivendicazioni di presunte “diversità ”, servono piuttosto fatti, serve più rigore nello scegliere gli uomini e le donne che ci rappresentano e nel tenere separata sotto ogni latitudine la politica dagli affari. 
Ma nei mesi che ci attendono, forse ancora più difficili degli anni che abbiamo alle spalle, è decisivo che i riformisti, mentre manifestano il massimo di responsabilità  rispetto alle sorti comuni e indivisibili del Paese, non recedano di un passo dalla consapevolezza che se l’obiettivo quantitativo necessario per evitare il naufragio – azzerare il disavanzo entro due anni – deve vedere l’unità  più larga tra tutte le forze sociali e le sensibilità  politiche, le “nostre” vie per raggiungerlo sono totalmente diverse da quelle indicate e perseguite dalla destra. Tra tutte le strade che abbiamo davanti, quella sicuramente senza uscita è la via del “bordeggiare”, del navigare a vista in attesa che le onde si plachino. Le onde non scenderanno, o per meglio dire quando il mare tornerà  calmo, sulla superficie resterà  solo il naviglio che avrà  saputo vedere per tempo che la tempesta portava con sé un cambiamento radicale di paradigma, un salto d’epoca. Quando nella storia economica sono cambiate le grandi direttrici dei commerci mondiali, solo chi aveva investito in cultura, tecnologia, conoscenza, chi aveva anticipato i tempi e costruito navi adatte alle nuove rotte, restò “in partita”. Tutti gli altri, pure se erano stati i migliori nel mondo precedente, dovettero limitarsi al piccolo cabotaggio. La cultura politica del riformismo italiano è di fronte a un cimento di questa stessa natura: saprà  costruire navi adatte alle nuove rotte? Da questo punto di vista, non si tratta di scegliere tra il Pd di Vasto, che replica l’Unione del 2006, e il Pd di Polignano, che strizza l’occhio ai centristi. Si tratta di decidere cos’è il Pd, di decidere se si crede ancora all’ambizione da cui siamo nati: offrire all’Italia un partito popolare e riformista non rivolto all’indietro ma con gli occhi sul presente e sul futuro.
 

 

p.s. La sensazione che il Pd di fronte alle risposte da dare all’emergenza finanziaria e in generale alla crisi si presenta, usiamo un eufemismo, in ordine sparso, trova conferma palpabile nelle reazioni di autorevoli “riformisti” alla lettera “riservata” della Bce a Berlusconi pubblicata in questi giorni. Una lettera che – al di là  dei toni decisamente prescrittivi – fotografa lo stato di grave inaffidabilità  a cui è giunta l’Italia nel consesso internazionale e rispecchia l’esercizio di un ruolo che la Bce è tenuta a svolgere. Da qui a “strattonare” politicamente quelle indicazioni e a sottoscrivere acriticamente il pensiero economico di Trichet ce ne passa!
 

 

Mauro Agostini
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante