Pubblicato su L’Unitá
Matteo Renzi ha ragione quando dice che la politica europea in questi anni di dura crisi economica e sociale ha prodotto soprattutto fallimenti e va cambiata radicalmente. Ma Renzi per essere credibile, per sottrarsi al sospetto che sta polemizzando con le istituzioni europee solo perché oggi l’Europa è impopolare e attaccarla fa guadagnare consensi, dovrebbe accompagnare questa constatazione con altre verità non meno evidenti e impegnative.
Prima verità. Se l’Europa è guidata in modo inadeguato, miope, la colpa non è dei “burocrati” di Bruxelles, ma di decisori squisitamente politici. La Commissione e il Consiglio sono soggetti politici, rispondono a maggioranza e a logiche politiche: sono espressione di una “larga intesa” tra popolari e socialisti, quella che ha eletto prima Barroso e poi Juncker e quella che governa in alcuni dei principali Paesi dell’Unione come Italia e Germania. Dunque per cambiare in meglio le politiche europee basterebbe che il Partito socialista europeo, di cui Renzi è uno dei leader, cambi lui i propri programmi ed obiettivi.
Seconda verità. Se l’Italia vuole impegnarsi davvero per dare all’Europa maggiore forza e una nuova direzione, deve intanto applicare le innumerevoli “buone norme” europee. Il record di procedure d’infrazione aperte da Bruxelles contro il nostro Paese non nasce infatti dal rifiuto di regole dannose per gli interessi generali dell’Italia, ma dalla mancata attuazione di norme che tutelano di più e meglio i diritti, gli interessi, la salute degli italiani. Basti pensare alle inadempienze italiane in materia di ambiente: dall’emergenza rifiuti in Campania alla depurazione delle acque (3 italiani su 10 non sono allacciati a depuratori), dal trattamento degli scarti pericolosi alla bonifica delle discariche abusive.
Terza (e più articolata) verità. Le convulsioni che rischiano di disgregare la costruzione europea, compreso il ritorno inquietante di egoismi e “sovranismi” nazionali, sono certo figlie della congiuntura economica sfavorevole che dura dal 2008 e che ha prodotto decrescita, disoccupazione, aumento della povertà. Ma discendono anche da una causa più profonda, a sua volta generatrice di un paradosso: l’Europa non crede più in se stessa perché capisce di essere sempre più “piccola” e meno influente nel mondo multipolare di oggi. Dopo secoli di egemonia incontrastata, oggi la misura del suo ruolo economico e geopolitico si avvicina sempre di più alle sue dimensioni fisiche, demografiche: occupiamo il 3% della superficie terrestre, rappresentiamo il 7% della popolazione mondiale, in futuro la nostra economia conterà inevitabilmente meno che mai nel passato. A questo passaggio d’epoca, qui il paradosso, l’Europa risponde ridando fiato ad anacronistiche divisioni nazionali, cioè creando le condizioni per una sua definitiva irrilevanza. Invece per rimanere protagonista nel mondo multipolare di oggi e di domani l’Europa deve imboccare due strade obbligate: unirsi davvero proponendosi come un unico, compatto soggetto geopolitico (altro che “brexit”…), e trovare una propria specifica vocazione economica, sociale, culturale. Questo aspetto ne richiama un altro a noi particolarmente caro: l’urgenza per l’Europa di puntare su quello che i Verdi europei hanno chiamato un “green new deal”, cioè su una prospettiva di riconversione dell’economia nel senso della sostenibilità ambientale. Un “green new deal” serve a tutto il mondo per fermare i cambiamenti climatici. All’Europa, che nel campo delle politiche ambientali è da sempre all’avanguardia, conviene ancora di più, perché può darle un ruolo di leadership nel processo di riconversione ecologica dell’economia, della tecnologia, dell’organizzazione sociale. Insomma un “green new deal” può salvare il mondo dalla crisi ecologica e salvare noi europei dal rischio di un declino inarrestabile.
Quest’ultima verità ci suggerisce anche due domande a Matteo Renzi. Perché mai l’ambiente è totalmente assente dalle preoccupazioni, dalle proposte, dalla “visione” del presidente del consiglio? E più in particolare: perché Renzi prima ha innalzato la bandiera consumata e antistorica delle trivellazioni petrolifere a terra e in mare, l’opposto di qualunque “green new deal”, e ora ha scelto di boicottare il referendum anti-trivelle – via d’uscita “onorevole” e democratica da un palese errore di strategia – con il rifiuto di accorparlo alle elezioni amministrative?
Solo riconoscendo queste tre verità, solo cambiando risposta a queste due domande, Matteo Renzi eleverà la giusta richiesta di un cambio di passo nelle politiche europee alla dignità di una vera “visione” sul futuro dell’Europa. Solo così la libererà dalla sgradevole impronta di una polemica esclusivamente ad uso interno, buona per inseguire il populismo anti-europeo di Salvini o quello anti-casta di Beppe Grillo.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE