Stefano Cucchi non è l’eccezione

Articolo pubblicato sul numero di gennaio de “La Nuova Ecologia”.

La drammatica storia di Stefano Cucchi, il ragazzo romano lasciato morire in ospedale dopo essere stato picchiato, ha avuto un terribile, lugubre merito, quello di disvelare a un’ampia opinione pubblica ciò che chi si occupa di carceri sa già  da tempo. La tragedia quotidiana che avviene in quei luoghi che in teoria dovrebbero essere non solo “di pena” , ma anche di riabilitazione e che invece, a causa innanzitutto del sovraffollamento e della mancanza di risorse adeguate, sono il luogo di soprusi, tanto più odiosi perché a volte chi ne è protagonista dovrebbe rappresentare lo Stato, e spesso persino di decessi non spiegati. Sono infatti ogni anno centocinquanta i detenuti che muoiono in carcere come denuncia “Ristretti Orizzonti”, un’associazione molto seria che si occupa di diritti dei detenuti, nel suo dossier “Morire di carcere”. Dal 2000 ad oggi i decessi in carcere sono stati 1.531, di cui circa un terzo, 545 per l’esattezza, per suicidio, un altro terzo per cause riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per “cause da accertare” secondo lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel corso dell’anno che si sta concludendo sono stati almeno 50 i suicidi in carcere. E purtroppo in quel dossier ci sono anche immagini che parlano da sole: morti per “infarto” con la testa spaccata, “suicidi” con ematomi e contusioni in varie parti del corpo.
Insomma, la verità  , molto amara, è che la storia di Stefano Cucchi non è affatto eccezionale. E l’indignazione che in molti abbiamo trovato nel leggere di dottori atrocemente indifferenti, di uomini in divisa che vengono meno al loro dovere comportandosi disumanamente, è l’indignazione che dovrebbe accompagnarci quando volgiamo lo sguardo alle carceri italiane. Oggi, oltre alla sacrosanta richiesta di verità  per sapere chi è stato responsabile della morte di Cucchi, dovremmo saper cogliere l’occasione per affrontare con serietà  la questione complessiva delle carceri italiane. Se è giusto, e lo è fino in fondo, che chi sbaglia debba pagare la sua pena non è affatto giusto che quella persona sia condannata due volte: la prima ad essere privata della sua libertà , la seconda a vivere quel tempo “senza libertà ” in condizioni incivili. E allo stesso tempo, se è sacrosanto chiedere ai lavoratori delle carceri – le guardie – di svolgere il proprio conto con umanità , è molto scorretto diminuirne il numero, non preoccuparsi delle loro condizioni di lavoro e soprattutto farli lavorare in luoghi molto spesso ingestibili.
L’emergenza sovraffollamento nelle carceri è ormai nota: nel giugno del 2009 il numero dei detenuti aveva raggiunto quota 63.460, ben 20 mila in più rispetto alla capienza regolamentare ed è un numero che cresce a un ritmo di mille al mese. Con questo trend il 2009 si concluderà  con 70 mila detenuti. Chi sono? Il 40% è in carcere per reati legati alla droga e oltre un terzo sono stranieri. Ma oltre la metà  delle persone oggi detenute è in custodia cautelare: un’anomalia tutta italiana, a cui davvero si dovrebbe rispondere con una profonda riforma della giustizia che accelerasse i tempi del processo…altro che “processo breve” in salsa berlusconiana!
Altro dato su cui riflettere è che quasi i due terzi dei carcerati – 19.000 persone-, ha un residuo di pena inferiore ai tre anni, la soglia che rappresenta il limite di pena che permetterebbe l’accesso alla semilibertà  e all’affidamento in prova. Come conciliare l’esigenza di sicurezza che viene dalla società  con quello che dovrebbe essere un dovere altrettanto importante, quello di ridurre il numero dei detenuti in carcere fino ad arrivare a condizioni umane per loro e per chi li deve sorvegliare? Se eludiamo questa domanda, c’è poi poco da indignarsi quando sui giornali leggiamo di un caso, magari più eclatante di altri.
Certo la risposta strutturale dovrebbe anche essere quella di costruire nuove carceri, ristrutturare quelle più antiche, spesso in condizioni fatiscenti. Il Governo spesso annuncia un “piano carceri” le cui risorse però spariscono il giorno dopo. Ma la nostra dignità  quanto tempo è disposta ad aspettare? A quante altri morti in carcere dobbiamo assistere? Per questo con un’interrogazione ho chiesto al ministro Alfano di riferire urgentemente al Parlamento sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere, di stanziare immediatamente i fondi per migliorare la vita degli agenti penitenziari e dei detenuti in modo che il carcere, non sia solo un luogo di espiazione e di dannazione ma diventi un luogo, attraverso attività  culturali, lavorative e sociali, affinché i detenuti possano avviare un percorso concreto per essere reinseriti a pieno titolo nella società , e di dirci qualcosa di concreto sulla realizzazione del piano carceri.
Mentre scrivo quest’articolo non ho ancora avuto risposta. Insisteremo. Anche per rendere giustizia a Stefano Cucchi e a tanti altri come lui.

FRANCESCO FERRANTE