Quel pasticciaccio brutto del capacity payment (e come risolverlo)

pubblicato su Tuttogreen de La Stampa

C’è chi vorrebbe che i consumatori italiani pagassero in bolletta gli investimenti sbagliati compiuti dalle società  energetiche in passato: lo chiamano “capacity payment”. Ma una soluzione equa, logica e green c’è

Durante l’esame della legge di stabilità , con un blitz in Senato si è approvato un emendamento (ispirato dall’Autorità  per l’energia elettrica e il Gas) che avrebbe voluto togliere soldi alle rinnovabili per darle alle centrali termoelettriche da fossili in grave sofferenza. Manovra che sembra sventata alla Camera. Ma il problema di fondo, che è reale, resta irrisolto.

Oggi in Italia la somma della potenza di centrali termoelettriche e di impianti da fonti rinnovabili è più del doppio di quella necessaria persino nei momenti di massima richiesta, la cosiddetta “punta”. Visto che – come in tutta Europa – l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili gode della priorità  di dispacciamento, chi soffre sono le centrali termoelettriche da fonti fossili. Molto spesso restano ferme con il risultato che sono a rischio molti posti di lavoro, ma anche la stessa sicurezza del sistema elettrico che, in questa fase di transizione di esplosione delle rinnovabili, ha comunque bisogno di una “riserva” flessibile, non soggetta a capricci del vento o alle ore di insolazione.

C’è modo di risolvere il problema senza pericolosi e inaccettabili passi indietro? Senz’altro sì. Ma prima di rispondere alla domanda dobbiamo capire perché si è arrivati qui. Per non ripetere gli stessi errori, che in passato sono stati assolutamente bipartisan.

Dobbiamo cominciare dal 2001, quando l’Ulivo in una vana e scellerata rincorsa alla Lega approva la riforma “federalista” del Titolo V, all’interno della quale anche le politiche energetiche diventano materia “concorrente” tra Stato centrale e Regioni. Una sciocchezza per un settore che ha bisogno, come è evidente, e come avviene in tutto il mondo di programmazione. L’anno dopo però il Ministro Marzano del governo di centrodestra completa il capolavoro con il decreto sblocca centrali, nel quale sostanzialmente si riducono i poteri degli enti locali in modo da accelerare i processi autorizzativi per le nuove centrali termoelettriche. Così, da una parte lo Stato centrale rinuncia alla programmazione e dall’altra si imboccano scorciatoie per evitare di confrontarsi con i territori e trovare il consenso necessario alla realizzazione di nuove opere. A rischio di apparire autoreferenziale ricordo che chi scrive, allora direttore di Legambiente, era una specie di voce nel deserto nel segnalare i pericoli insiti nel combinato disposto delle due scelte. Il panico scatenato dal black out del settembre 2003 diede la spinta finale alla realizzazione di migliaia di megawatt termoelettrici in centrali a ciclo combinato a gas. Senza che nessuno riflettesse sul fatto che da una parte si sarebbe dovuto lavorare su efficienza, e quindi sulla tenuta sotto controllo dei consumi, e dall’altra che le rinnovabili erano inevitabilmente destinate ad esplodere come stava già  succedendo nel resto d’Europa. E che quindi l’ammodernamento del parco centrali avrebbe dovuto procedere di apri passo con la chiusura delle centrali più vecchie e inquinanti a carbone e a olio.

Tra il 2006 e il 2007 si consuma poi l’ennesimo errore con Bersani al Ministero dello Sviluppo economico: nella trattativa con l’Unione Europea sulla quantità  di emissioni di CO2 ammissibili nel periodo 2008-2012 l’Italia sceglie di tutelare l’esistente, senza imporre riduzioni che per esempio avrebbero penalizzato il carbone, e lascia pochissimo spazio ai cosiddetti “nuovi entranti”, quelle centrali più moderne e più efficienti che quindi vengono penalizzate. Per riparare all’errore, il successivo Governo Berlusconi si impegna a rimborsare coloro che devono comprare le quote di emissioni sul mercato con un meccanismo indifferenziato. Tanto indifferenziato da arrivare al paradosso che rimborsiamo anche i maggiori responsabili dell’aumento delle emissioni (ovvero l’Enel della megacentrale a carbone di Civitavecchia). Tralascio per carità  di patria i progetti nuclearisti di Scajola e di Enel, che se sciaguratamente fossero andati avanti avrebbero messo il Paese davvero in ginocchio.

E infine arrivò la crisi con la conseguente riduzione dei consumi. Ma politica e classi dirigenti sono peggio di quei sordi che non vogliono sentire. E nel 2012, con centrali a ciclo combinato che ormai giravano per non più di 2000 ore, il “tecnico” Passera vara una Strategia Energetica Nazionale che ignora del tutto il tema.

Che fare adesso? Basterebbe ascoltare l’Europa, che da una parte dice con chiarezza che su incentivi alle rinnovabili “vanno evitati cambiamenti inattesi o retroattivi”, e dall’altra che per assicurare la sicurezza del sistema elettrico “l’intervento pubblico deve essere efficiente dal punto di vista dei costi e adattabile ai cambiamenti in corso”. C’è chi ci ha provato anche adesso: Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera, aveva presentato un emendamento che appunto non toccava le rinnovabili e poneva i paletti per salvaguardare esclusivamente quelle centrali – i cicli combinati a gas – più moderne e meno inquinanti tra quelle fossili, e non quelle a carbone o a olio, che possono davvero garantire la flessibilità  necessaria al sistema elettrico. Il Governo sembra preferire prendersi una delega che dovrebbe esercitare nei prossimi mesi.

Come abbiamo visto i precedenti non autorizzano ottimismi, ma non dobbiamo rinunciare a lottare contro le lobby della conservazione e spingere affinché finalmente si risolva il problema, togliendo sussidi davvero impropri ai fossili (basti pensare ai 250 milioni riservati al funzionamento di centrali a olio combustibile!) e avendo chiaro l’orizzonte: una società  low carbon in cui vincono efficienza e rinnovabili per costruire un nuovo sviluppo

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