Articolo pubblicato sul numero novembre/dicembre del mensile “Aprile”
La privatizzazione dell’acqua, imposta dal Governo con il voto di fiducia alla Camera dei Deputati è una scelta grave e pericolosa per almeno tre motivi.
Lo è sul piano dei principi, perché non ci si può certo accontentare dell’emendamento che il Pd è riuscito a far passare al Senato in cui si garantisce che la proprietà resti pubblica, dato che la questione sta nel fatto che obbligando i Comuni a passare alla gestione privata si espropriano gli enti locali e i cittadini delle scelte concrete sull’acqua nel loro territorio e quindi il fatto che l’acqua sia un bene comune e non una merce, invece che una questione indiscutibile e il principio ispiratore di una normativa giusta, come dovrebbe essere, diventa una vuota dichiarazione d’intenti che non corrisponde a una realtà in cui invece l’acqua diventa una qualsiasi commodity.
Ma la decisione è grave anche perché conferma la natura “ideologica”, nel senso negativo del termine di questa maggioranza di destra, che obbedendo ai dettami del neoliberismo non si preoccupa di verificare pragmaticamente i risultati concreti della privatizzazione e della sua supposta maggiore efficienza. Se lo avessero fatto, avrebbero potuto misurare i numerosi fallimenti in Italia e all’estero delle privatizzazioni avviate, clamorosamente confermati dalla recente decisione del Comune di Parigi che ha deciso la “ripubblicizzazione” dell’acqua dall’1 gennaio 2010, avendo appunto verificato che le multinazionali private che gestivano il servizio avevano fallito nel miglioramento dello stesso.
Ed è una scelta pericolosa perché rivela del Governo la natura centralista, e molto poco rispettosa delle autonomie locali, con buona pace della Lega che furbescamente prova a cavalcare nei territori dove governa la protesta contro questa espropriazione di poteri locali, per poi accodarsi al resto della maggioranza e votare disciplinatamente questo obbrobrio. Peraltro non è la prima volta che su questioni che riguardano l’ambiente esce fuori l’anima centralista, e autoritaria, della destra: si pensi alle norme per il rilancio del nucleare che prevedono persino la militarizzazione dei territori dove dovrebbero trovare sede le centrali e il deposito delle scorie.
Cosa fare adesso, a legge approvata? Innanzitutto sono da apprezzare e da sostenere le proteste di numerose Regioni che nell’esproprio delle proprie competenze hanno individuato materia da ricorso alla Corte Costituzionale. E si devono sostenere tutti i Comuni che, magari forti di alcune esperienze virtuose, continueranno la battaglia per l’”acqua pubblica”. Ma a mio avviso la lotta sarà tanto più efficace quanto più la si depuri di alcuni equivoci che pure sono presenti nel movimento che si è espresso sui giornali a valle dell’approvazione della legge.
Innanzitutto la questione del “prezzo dell’acqua”. Io non credo che sia questo il punto per cui è importante battersi contro la privatizzazione, come si è invece letto nelle scorse settimane e come hanno accreditato tante prese di posizione di politici e associazioni consumeriste. Oggi in Italia l’acqua costa pochissimo, molto meno che in Europa. E questo di per sé non è affatto un dato positivo. Un costo troppo basso è uno dei maggiori incentivi allo spreco di una risorsa che invece è preziosa e finita. D’altronde lo stesso “Contratto mondiale dell’acqua” nella sua piattaforma che prevede la gratuità per i primi 50 litri di acqua a persona si dice favorevole a meccanismi tariffari che oltre quella soglia ne scoraggino lo spreco.
Ma elemento fondamentale di una rinnovata battaglia sull’acqua deve essere l’onesto riconoscimento dei vizi che la gestione pubblica ha comunque mostrato in questi anni. Vizi che vanno corretti e impediti se si vuole vincere sul serio questa sfida.
Ricordo, quale esempio, solo una vicenda davvero emblematica: quella della diga dell’Ancipa in Sicilia. Intorno a quello scandalo, denunciato per prima da Legambiente, protagonista poi negli anni dei processi giudiziari che hanno dato ragione a quella lotta contro il malaffare, agirono politici corrotti, interessi criminali e mafiosi che sulla costruzione di quell’inutile e dannosa opera lucrarono affari miliardari (si parlava ancora in lire). Quella vergogna avvenne all’ombra della gestione pubblica dell’acqua che quindi, come è d’altronde ovvio, non garantisce di per sé una maggiore “giustizia”, se non è accompagnata da un forte processo di controllo da parte dei cittadini.
E non sono d’altronde colpa della futura eventuale privatizzazione i problemi più gravi della gestione dell’acqua in questo Paese. Non è colpa delle multinazionali se abbiamo il poco invidiabile record europeo di perdite nelle reti acquedottistiche: oltre un terzo dell’acqua si perde grazie a tubi colabrodo. Certo la privatizzazione non offre alcuna garanzia che i nuovi gestori investano nella rete e anzi il pericolo concretissimo è che si privatizzino i profitti e si lasci al pubblico l’onere di manutenzione e rinnovamento della rete, che già oggi è insufficiente e diverrebbe del tutto impossibile in assenza di risorse. Ma è altrettanto certo che se non si affronta una buona volta questo problema troppo a lungo rimandato anche dai gestori pubblici, spesso luogo di nomine di politici locali privi di ogni competenza, non faremmo nessun passo avanti in una gestione più efficace e giusta della risorsa.
Più in generale il problema della gestione della risorsa idrica è squisitamente ambientale: si dovrebbe finalmente passare dalla “gestione della domanda” alla “pianificazione dell’offerta”, cioè superare l’attuale approccio per cui si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca disperatamente di soddisfarle. Si dovrebbe partire dalla disponibilità idrica, bacino per bacino, pianificare conseguentemente le attività . Di nuovo, rispetto a questo orientamento la privatizzazione non può offrire alcuna garanzia, anzi certamente aggraverà il problema, ma le gestioni pubbliche sino adesso sono state largamente insufficienti su questo fronte.
Lavoriamo su innovazioni, anche tecnologiche, in agricoltura che richiedano minor uso di acqua ma soprattutto affrontiamo in maniera radicale “cosa” e “dove” coltivare considerando il criterio del consumo dell’acqua tra le priorità nell’indirizzare la scelta, incentiviamo il risparmio nell’industria e nel domestico, con le adeguate campagne di informazione ma anche appunto utilizzando la leva tariffaria..
Insomma la mia proposta è quella di mettere tutti i bastoni fra le ruote possibili a questa riforma “privatizzatrice” affrontando al contempo anche i “vizi pubblici” per arrivare all’obbiettivo per cui insieme alla difesa di un sacrosanto diritto, quello di disporre dell’acqua senza essere asserviti alle esigenze di profitto di una qualche multinazionale, si possa sul serio gestire una risorsa così importante in maniera efficiente e giusta.
FRANCESCO FERRANTE