Il Pd in totale crisi d’identità 

pubblicato su huffingtonpost.it

Il Pd non sa bene cos’è lui stesso, per questo ha tanta paura di mescolarsi anche in via eccezionale, per esempio in un governo di emergenza istituzionale, con gli “altri da se” del Pdl. Ha il terrore di contaminarsi perché è incerto sulla propria identità .

Forse l’attuale stallo della crisi politica del dopo-voto può leggersi in parte così, usando gli strumenti della psicologia. Della psicologia applicata agli individui, che insegna come ognuno di noi quanto più è sicuro di sé tanto più è disposto ad aprirsi al confronto con gli altri, anche con i più diversi e lontani. E della psicologia sociale: se un popolo, una comunità , perde o sente indebolito il senso della propria identità , è più facile che finisca per coltivare sentimenti di chiusura verso l’esterno, di razzismo, di xenofobia. 

Ecco, il Pd rifiuta come una minaccia mortale l’incontro con i “nemici” del Pdl anche perché attraversa una crisi acuta, strutturale, di identità . Un paradosso, visto che Bersani proprio su tale scommessa – “dare un senso a questa storia” – ha costruito il proprio successo, vincendo le primarie interne del 2009 contro l’idea del “partito liquido” e poi vincendo contro Renzi la sfida per la leadership del centrosinistra.

Ma cos’è  oggi il Partito democratico? E’ tante, probabilmente troppe cose insieme. E’ nello stesso tempo il Pd dei “liberal” alla Renzi, alla Veltroni, e dei “neo-vetero-laburisti” alla Fassina o Camusso. Non è un partito socialista ma la gran parte del suo gruppo dirigente si professa orgogliosamente socialista. Pure sul piano della rappresentanza sociale il Pd è una creatura decisamente incerta: gli operai gli hanno voltato le spalle, i giovani gli preferiscono Grillo… Ancora, non va molto meglio per i democratici sul terreno attualmente scivolosissimo della cosiddetta “antipolitica”: certo si sentono distanti anni luce dai bunga-bunga o dalle leggi ad-personam di Berlusconi, ma sanno bene che per buona parte degli italiani, anche degli italiani che li votano, loro sono “casta” né più né meno degli altri politici.

Non sa bene cos’è, il Pd, per questo tiene a distanza il Pdl e insegue i grillini. Teme che un “governissimo” lo faccia assomigliare ai primi, invece vorrebbe tanto assomigliare ai secondi. Assomigliare non certo al loro programma, che l’intero gruppo dirigente del Pd considera indigeribile, ma piuttosto alla loro freschezza, alla loro capacità  di  dare voce alla voglia di cambiamento radicale che agita sempre di più gli italiani.

Il punto non è che dentro al Pd convivano sensibilità  e pensieri diversi: funziona così in ogni grande partito in qualunque parte del mondo. Il punto è che per fare sintesi tra queste profonde diversità  servirebbero o una lunga storia comune alle spalle, che al Pd manca del tutto, oppure una forte leadership che tali differenze sappia riassumere e comporre in una visione organica e convincente. Questo era, almeno nelle intenzioni, il Pd delle origini, del Lingotto. Dopo cinque anni se ne sono perse totalmente le tracce, resta un partito-ibrido che per il terrore di contaminarsi rischia di perdere se stesso e il Paese. Un partito che in queste ore subisce dal “suo” presidente meritatissime lezioni di responsabilità , e il cui gruppo dirigente più ristretto ha dato finora l’impressione di anteporre al bene comune il proprio bene “personale”, all’interesse dell’Italia l’interesse a difendere il proprio potere.

Vittima di questo combinato tra crisi d’identità  e calcoli di bottega, il Pd continua a resistere all’idea di un Governo indicato dal Presidente che abbia limitati ma urgenti compiti: condurre in porto la riforma elettorale (possibilmente sul modello francese) , superare il bicameralismo, tenere al riparo dalle speculazioni del mercato la nostra economia e dare qualche ossigeno a imprese e lavoro, portare il Paese a nuove elezioni entro pochi mesi con regole che garantiscano davvero nel prossimo Parlamento rappresentanza e governabilità . Chissà  che la Pasqua non porti a un atto, ispirato seppure laico, di resipiscenza.

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Bioshopper, pubblicato il decreto. «Vittoria per l’ambiente! Ma che fatica…»

pubblicato su greenreport.it

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 27 marzo del Decreto interministeriale (firmato da Clini e Passera) sulle caratteristiche tecniche che devono avere gli shopper che si possono commercializzare nel nostro Paese, si conclude finalmente la vicenda normativa, troppo lunga, che ha introdotto una rivoluzione in Italia. E visto che non ho più incarichi istituzionali , i lettori di Greenrport mi consentiranno di confessare una soddisfazione personale, insieme a quella politica, per aver visto concludere con successo una battaglia iniziata oramai più di sei anni fa con l’approvazione di quel mio emendamento alla finanziaria 2007 che appunto vietava la commercializzazione di shopper che non fossero biodegradabili. Gli sviluppi della vicenda sono noti: da una parte la fiera opposizione delle lobbies che sempre vogliono che nulla cambi in questo Paese  e che ha portato alla proroga dell’entrata in vigore del divieto e poi la discesa in campo dei “furbetti dello shopperino” che con gli additivi, dannosi per l’ambiente, volevano spacciare per commerciabili ciò che evidentemente non lo era e che questo decreto si incarica di spazzare definitivamente via. Dall’altra il grande gradimento della novità  da parte dei cittadini, il cambiamento concreto di stili di vita con l’utilizzo della sporta utilizzata più volte, e la forte spinta all’innovazione di prodotto con l’incentivazione concreta di quella green economy e della chimica verde di cui in troppi si riempiono la bocca senza concluder nulla.
Mancava solo questo decreto per rendere operative le sanzioni contro chi provi a cercare di aggirare il decreto. Ora sappiamo che le sanzioni entreranno in vigore a metà  agosto, sessanta giorni dopo il termine formale (13 giugno) entro il quale l’Unione Europea avrebbe la teorica possibilità  di formulare osservazioni al decreto. Già  sappiamo che non succederà  perchè i Commissario Potocnik lo ha già  assicurato, seppur informalmente, e la lettura del suo libro verde, di cui Greenreport ha parlato poche settimane fa, conferma quale è l’indirizzo in merito della Ue. Il mercato non ha più scuse e si attrezzerà . Questa battaglia l’abbiamo vinta
 

Contro il totem dell’alta velocità  Torino-Lione

blog su Huffingtonpost.it

L’alta velocità  Torino-Lione è un’opera costosissima (almeno 10 miliardi, 4 dei quali a carico dell’Italia) e inutile, ma per quasi tutta la politica italiana – unica eccezione i grillini – è diventata un totem. A contestarla, non per partito preso e sindrome Nimby ma numeri alla mano, si viene tacciati da reazionari, nemici del progresso, oscurantisti. Eppure per capire che il progetto è insensato basta un esercizio elementare di razionalità . Su quella linea i flussi di passeggeri sono modesti, da sempre. Quanto alle merci, in Europa viaggiano sempre di meno da est a ovest e sempre di più da nord a sud: per questo il movimento delle merci lungo l’asse italo-francese è in costante declino da anni, da molto prima che cominciasse la crisi.

Spendere svariati miliardi di soldi pubblici per la nuova Torino-Lione, come l’Italia e la Francia (con minore entusiasmo) si accingono a fare è dunque un grande, grandissimo spreco. Per l’Italia poi è uno spreco doppio. Il nostro sistema ferroviario fa acqua da tutte le parti, la gran parte dei passeggeri e delle merci viaggia su gomma con inquinamento e consumi energetici altissimi, i treni utilizzati dai pendolari sono pura archeologia industriale. Con le risorse che verranno impegnate per la Torino-Lione si potrebbe accorciare di parecchio la distanza, oggi larghissima, che separa l’Italia dei trasporti da gli altri grandi Paesi europei. E se  si vuole davvero ridurre di un bel po’ l’infinita schiera di Tir che affollano i valichi alpini in direzione della Francia – obiettivo sacrosanto – c’è un’alternativa molto più rapida e a buon mercato dell’alta velocità  in Val di Susa: basterebbe rendere più moderne le linee che ci sono, da Ventimiglia a Modane, e magari smetterla di sovvenzionare a pioggia l’autotrasporto come fanno tutti i governi di destra e di sinistra da cinquant’anni.  

Questo argomenti di banale “buonsenso riformista” finora non hanno avuto alcuno spazio nel dibattito tra favorevoli e contrari alla Torino-Lione. Questa è diventata una guerra di religione tra No-tav duri e puri, per i quali l’alta velocità  è il simbolo di tutti i mali del mondo, e Sì-tav ugualmente irriducibili, che ci vedono incarnata l’idea stessa del progresso. La prossima battaglia è in programma domani, sabato 23 marzo, davanti ai cantieri tav di Chiomonte in Val di Susa, con i centocinquanta eletti grillini che arriveranno per dare man forte al popolo anti-tav della valle.  

Ma per la sinistra che si vuole riformista è un errore imperdonabile lasciare solo a Grillo la bandiera del no a questo buco nero di denaro pubblico gettato via che sarebbe la Torino-Lione. C’è da sperare che lo capiscano, sia pure in ritardo: magari cominciando da qui una vera, seria, efficace “spending review” che metta ordine nei conti pubblici e consenta di fare alcune cose veramente urgenti che servono all’Italia. 

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