Imoplosione del Pd. Sicuro sia un male?

pubblicato su Huffingtonpost

E se la fine del Pd, la sua “implosione”, fosse un passaggio necessario per dare un futuro vincente al campo politico dei progressisti?

La domanda, crediamo, non è oziosa. Il Partito democratico è nato da un’ambizione generosa e brillante, sulla quale noi come tanti altri abbiamo scommesso con entusiasmo: non solo e non tanto unificare in un unico soggetto politico le correnti riformiste di più antica tradizione – Ds, popolari, liberaldemocratici -, ma aprirle a una conversione pienamente contemporanea e contaminarle con riflessioni e culture molto più recenti, come l’ecologismo. L’idea era di approfittare di un’anomalia italiana – l’assenza di un grande partito socialista che come nel resto d’Europa guidasse i progressisti – per tentare un esperimento di forte innovazione .

L’esperimento, bisogna dirlo, sembra fallito. Oggi nel Pd vi è molta più guerra, molta più lotta di fazioni di quanta non ve ne sia mai stata nel centrosinistra diviso in più partiti. Le vicende desolanti di questi ultimi giorni, culminate nel trattamento offensivo, inqualificabile riservato dai democratici a Romano Prodi, cioè al fondatore dell’Ulivo e al principale ispiratore dello stesso Pd, lo certifica in modo definitivo: quello che manca nel Partito democratico non è tanto la strategia, la capacità  di decidere gli obiettivi e costruire percorsi adatti a raggiungerli. Ciò che manca, per dirla alla Bersani, è piuttosto la “ditta”, il sentirsi parte di una stessa impresa politica. Il Pd somiglia piuttosto a un dormitorio o ad un motel dove convivono casualmente e provvisoriamente persone e gruppi tra loro del tutto estranei: chi scambia Grillo per il nuovo leader della sinistra e si fa dettare la linea da qualche decina di frequentatori del web, chi si sente ancora democristiano e chi rimpiange il centralismo democratico, chi guarda alla Fiom e chi all’agenda Monti, chi vorrebbe politiche “green” e chi voleva il ritorno al nucleare, chi dopo essere stato promosso in prima linea per cieca fedeltà  al capo quando il capo è sconfitto ne invoca tra i primi le dimissioni…

Da qui allora bisogna ripartire. Il progetto da cui è nato il Pd era generoso, alto, nobile, ma era pure velleitario. Volevamo imitare gli americani, fare anche da noi un “partito democratico” liquido e leggero che ospitasse al suo interno tutte le infinite declinazioni del pensiero progressista, e ci siamo dimenticati di essere europei. In Europa un’offerta così non esiste, in Europa le “varietà ” riformiste sono molto più radicate nel terreno dell’opinione pubblica: nessuno mai penserebbe in Germania di unificare Spd e Grà¼nen, o in Francia di cancellare quell’abbondanza di proposte, di sensibilità , di sigle che ha portato il socialista Hollande dal 28% del primo turno delle presidenziali al 52% del ballottaggio. E nella stessa Inghilterra, unico caso europeo di sistema tendenzialmente bipartitico, i laburisti faticano sempre di più a rappresentare le ragioni, le aspettative, dell’intero elettorato di centrosinistra.

Adesso ci si trova davanti a un bivio, “tertium non datur”: o prendere atto che il progetto del Pd non è mai decollato e imboccare altre strade per dare all’Italia ciò di cui l’Italia ha maledettamente bisogno, cioè una proposta credibile e convincente di cambiamento che magari si regga su più di una gamba ma sia in grado di correre. Che si regga e corra, magari, su gambe nuove, che sappia vedere il mondo così com’è oggi e smetta di inseguire analisi, ricette, rappresentazioni superate da decenni. L’altra strada, l’unica altra strada, è fare finta di niente e insistere in un tentativo, rianimare il Pd, che rischia di sconfinare nell’accanimento terapeutico.

Questo bivio è reso plasticamente dai cento e più franchi tiratori che nel segreto del voto hanno bocciato l’elezione di Romano Prodi al Quirinale: essi segnano un punto probabilmente di non ritorno, mostrano che la “ditta” non esiste. Dunque va benissimo prendersela con il dilettantismo dei capi democratici, con le miserie dei parlamentari che pubblicamente hanno acclamato Prodi e sulla scheda l’hanno cassato, con la meschinità  dei giovani turchi che per mesi hanno puntellato Bersani e ora lo scaricano gridando al fallimento del gruppo dirigente. Va benissimo, ma ai protagonisti e alle comparse di questo “cupio dissolvi” almeno si riconosca un merito: come nella favola di Andersen sul “Re nudo” hanno detto a tutti che il Pd, per l’appunto, è “nudo”, è una ditta che non c’è.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

Barca “rottamatore” gentile

pubblicato su Huffingtonpost.it

C’è molta rottamazione nel documento di Fabrizio Barca “Un partito nuovo per il buongoverno”, ma implicita e “gentile”.
Barca non vuole rottamare i partiti in quanto tali, anzi li considera strumenti insostituibili per la democrazia e per il buongoverno. Però dice cose spietate sui partiti odierni, compreso il suo (si è appena iscritto al Pd): dice che le due principali malattie italiane sono in una “macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale” e poi, per l’appunto, in “partiti stato-centrici che anziché trarre legittimazione e risorse finanziarie dai propri iscritti le traggono dal rapporto con lo Stato”; partiti basati, qui Barca cita un libro recente di Piero Ignazi, sulla “colonizzazione dell’amministrazione, il patronage e il clientelismo”.
Per Barca questi partiti “stato-centrici” perseguono beni particolari anziché il bene pubblico. Dunque vanno rivoltati, vanno trasformati da conventicole autoreferenziali in palestre di democrazia fondate sulla partecipazione e sul volontariato, finanziate prevalentemente da iscritti e militanti, aperte alla società  e al confronto con tutti i corpi intermedi, fortemente radicate nei territori.
Questi giudizi, difficilmente contestabili, non hanno nulla da invidiare quanto a radicalità  dell’analisi alle tesi renziane sulla classe politica da rottamare. Solo che Barca la parola rottamazione non la utilizza mai, e sebbene in teoria non escluda che il cambiamento “debba essere perseguito con una ‘doccia fredda’, ossia attraverso un radicale e simultaneo rinnovamento” delle strutture e delle persone, però sembra propendere – nel suo documento, nel discorso con cui lo sta presentando pubblicamente – per processi più graduali e meno conflittuali.
Insomma, nell’iniziativa di Barca sembrano convivere da una parte una diagnosi totalmente infausta sui partiti come sono oggi, dall’altra un’attenzione accurata a non mettere dichiaratamente in mora l’attuale gruppo dirigente del Pd. Convivenza quanto meno difficile: perché la forma-partito è importante e determina molto della capacità  di un’organizzazione politica di immergersi nella società  che dovrebbe servire, ma il problema del Partito democratico – peraltro l’unico partito vero tra quelli formalmente rimasti – è anche di dotarsi di uno sguardo sulla realtà  pienamente contemporaneo. Su questo punto Barca non dà  risposte e non si fa nemmeno troppe domande, come trascura quasi del tutto campi nuovi di valori, di bisogni, di interessi – un esempio per tutti: l’ambiente e la sostenibilità  – decisivi per confezionare una proposta riformista appena credibile. Una domanda invece gliela rivolgiamo noi: non crede che una rivoluzione come quella che lui propone farebbe fatica a camminare sulle gambe di uomini e donne che provengono – culturalmente più che generazionalmente – quasi da un’altra era geologica?
 

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