Sessantenne, moderato, socialista: Epifani leader perfetto per questo Pd

pubblicato su Huffingtonpost.it

Se la leadership di un partito deve rifletterne profilo e consistenza, Epifani è il leader perfetto per questo Pd.

Ha 60 anni, cioè più o meno l’età  media – secondo un recente sondaggio Ipsos – di oltre metà  dell’attuale elettorato democratico (in Italia non c’è un altro partito con una percentuale così alta di elettori sopra i 55 anni).

Non è certamente un radicale, anzi nella sua esperienza politica ha sempre agito da “uomo di mezzo”: nel Psi un po’ più a sinistra di Craxi, come segretario Cgil un po’ più a destra del predecessore Cofferati.

àˆ figlio della tradizione socialista. Va detto per onestà  intellettuale: figlio legittimo e non improvvisato, diversamente da quasi tutta la nomenclatura ex-Ds che socialista è divenuta soltanto a babbo morto (“babbo” era il Pci).

Nessuno sa se Epifani sarà  solo un “traghettatore” (come molti vorrebbero sentirgli dire e come lui, immaginiamo, non dirà  mai) o se una volta eletto segretario gli verrà  voglia di insistere. Certo la sua storia, la sua immagine, il modo in cui è stato scelto sembrano quanto di più lontano dall’idea originaria del Pd e invece fotografano con notevole nitidezza il paradosso che rischia di inghiottire il Partito democratico: politicamente un “neonato”, di gran lunga il più giovane tra tutti i partiti italiani – più giovane persino del movimento di Grillo -, ma un neonato che dopo appena sei anni di vita sembra sfibrato e quasi immobile come un ultracentenario.

Perché questa deriva? Forse il vizio sta nell’origine, nell’illusione che una scommessa ambiziosa e difficile come quella di dare vita a un partito riformista di massa con la testa, le gambe, il cuore nei problemi e nelle sfide del XXI secolo, potesse essere giocata e vinta da gruppi dirigenti che non solo anagraficamente, ma culturalmente, la testa, le gambe e il cuore ce l’hanno altrove, ce l’hanno in esperienze e in pensieri irrimediabilmente datati.

Insomma, era da ingenui (noi siamo tra quegli ingenui) aspettarsi molto di più e di diverso da un partito i cui capi si dividono tra la Scilla dei neo-laburisti alla Stefano Fassina per i quali il lavoro si difende e l’economia si rilancia buttando miliardi – è un esempio, ma un esempio illuminante – per tenere aperte le miniere del Sulcis, e la Cariddi dei neo-centristi che sognano – meglio sognavano: il sogno è quasi realtà  – di trasformare il Pd in una mini-Dc programmaticamente estranea ad ogni velleità  di cambiamento radicale.

Naturalmente moltissimi elettori del Pd vorrebbero altro, vorrebbero un partito che dia voce, spazio, peso a quella “altrapolitica” – come la battezzò mesi fa Stefano Rodotà  – che abbonda nella società  e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. E’ la politica dei giovani che chiedono un welfare che protegga e sostenga le persone più che i posti di lavoro, delle imprese che da tempo hanno scommesso sulla “green economy” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’innovazione, dei cittadini che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, allargamento della sfera dei beni comuni dall’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono classificabili come “liberali”, altre nascono dall’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande “radicali”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche.

Ecco, pare improbabile che chi si riconosce in questa prospettiva si lasci coinvolgere o anche solo incuriosire sia dal Pd com’è diventato, Epifani compreso, sia da costituenti e ricostituenti varie che dovessero nascere attorno a Sel. Fuori da qui rimane uno spazio immenso di sensibilità , di opinioni, di aspirazioni a oggi senza risposta: c’è da sperare che ad occuparlo non resti soltanto Grillo col suo indigesto (l’ultimo no allo “ius soli” insegna…) “gramelot” populista. 

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

 

Condono edilizio: Nitto Palma ci riprova, fermatelo!

“Il neo presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma non perde il vizio : di nuovo ha proposto la riapertura del condono edilizio, che significherebbe un via libera al cemento illegale.

Ci aveva già  provato ripetutamente nella scorsa legislatura, per fortuna senza successo.

 Ci auguriamo che lo fermino anche questa volta.”

 

E’  quanto dichiarano Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, già  parlamentari del Pd.

 

“Come suo solito – continuano Della Seta e Ferrante –  Nitto Palma usa per giustificare l’idea di una nuova sanatoria il cosiddetto abusivismo di necessità , ma in Campania come in tutta Italia l’abusivismo è quasi tutto speculativo e spesso è gestito direttamente dalle ecomafie.

L’abusivismo è una piaga che ha devastato l’ambiente , ha fatto crescere la fragilità  del territorio, alimentato l’insicurezza abitativa:sarebbe davvero triste  se le forze politiche che negli anni scorsi si sono battute contro ogni ipotesi di condono ora, per quieto vivere nell’epoca delle larghe intese, abbassassero la bandiera della legalità .”

Ma senza conflitto non c’è cambiamento (né vera democrazia)

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àˆ un errore, un errore frequentatissimo negli ultimi giorni, quello di presentare il film politico cui stiamo assistendo come un “remake” di pagine più o meno recenti della storia italiana: dei primi anni Novanta – Tangentopoli, la strage di Capaci, l’accordo tra i principali partiti per eleggere Scalfaro al Quirinale – o ancora prima, era la metà  degli anni Settanta, della stagione dei governi democristiani sostenuti dal Partito comunista.

In tutti e due casi il paragone non regge. Non regge con i mesi drammatici di Tangentopoli: mesi di storia vera, che seppellirono in un lampo partiti con alle spalle storie antiche e anche gloriose. Non regge nemmeno con l’esperienza dei governi di solidarietà  nazionale. Rispetto ad allora, tra mille altre differenze, corriamo un rischio in meno e abbiamo un problema in più.

Oggi non c’è il terrorismo. C’è tensione sociale in Italia, e come simboleggiano gli spari dell’altro giorno davanti al Palazzo del Governo c’è un numero crescente di italiani disperati; ma non c’è l’incubo di sangue e di piombo del terrorismo, che trovò nella rigidità  immutabile di un sistema politico incapace di produrre cambiamento il pretesto e l’alibi che spinse centinaia di persone alla scelta criminale della lotta armata.
C’è invece – questo il problema in più – un abisso del tutto inedito di sfiducia tra rappresentanti e rappresentati, con classi dirigenti non solo additate da buona parte dei cittadini come “caste” spregevoli, ma culturalmente obsolete e moralmente sfinite.

Ma un’analogia esiste tra lo stallo che ha portato alla nascita del governo Letta e quegli anni lontani della Dc e del Pci improvvisamente alleati. L’avvento dei governi di solidarietà  nazionale significò l’autoreclusione nel “palazzo” di una politica unanimista, che tradusse la scelta sacrosanta di un no comune alla follia terrorista nella pratica consociativa di un Parlamento quasi senza più opposizione (tranne i neofascisti del Msi e la pattuglia radicale). A dissentire percettibilmente, fuori dal “palazzo”, rimasero soltanto i violenti, ogni altra voce eterodossa tacque o restò afona. Fu un passaggio difficile e drammatico: aiutò a sconfiggere il terrorismo ma inchiodò il Paese, i suoi problemi, al più totale immobilismo e condannò la sinistra a un ventennio di sconfitte.

Oggi ci assedia un pericolo simile: potrebbero aspettarci mesi, forse anni nei quali l’Italia sarà  nelle mani di due pensieri unici altrettanto indigeribili, conservatori, retrogradi. Quello del governissimo, cioè l’idea che davanti ai nostri grandi problemi ci sia una sola risposta possibile, una risposta che cancella ogni dialettica, ogni differenza tra vecchio e nuovo, tra destra e sinistra, e archivia come irrilevanti e quasi innocenti anche i lati più oscuri della lunga stagione berlusconiana. E un altro pensiero unico che rischia di guadagnare sempre più consensi tra i cittadini: la retorica populista e plebea del “tutti a casa”, che anch’essa cancella le differenze, che nega la complessità  dei nodi da sciogliere e delle soluzioni utili a scioglierli.

La nascita del governo Letta era un esito, al punto in cui siamo, forse inevitabile, ma certo segna il punto culminante di una parabola incredibile. La sinistra italiana per anni ha indicato ai suoi elettori Berlusconi come il “male assoluto”, talvolta si è spinta a teorizzare una sorta di inferiorità  culturale, etica, degli stessi elettori di centrodestra. L’antiberlusconismo è diventato per milioni di donne e di uomini di sinistra un mantra e fino a pochi giorni fa tutti i dirigenti del Pd giuravano che mai e poi mai sarebbe nato un governo Pd-Pdl. Ora, in poche settimane, il male assoluto è diventato alleato di governo.

Ripetiamo, probabilmente era inevitabile. Ma almeno chi come noi è convinto che non possa esservi cambiamento né vera democrazia senza conflitto, si batta perché questa resti, ed appaia, un’eccezione, per conservare importanza e dignità  alle differenze tra opinioni, posizioni politiche, sensibilità  ideali, compresi i pensieri più radicalmente critici. Ci si batta, ognuno nel suo campo, per avere una sinistra e una destra non troppo scolorite, semmai un po’ più contemporanee. E ci si batta contro una deriva, che sembra colpire buona parte dell’informazione, in cui l’appello alla concordia nazionale diviene la premessa per mettere all’indice ogni voce dissonante.

L’Italia non è mai stata davvero una patria anche per questo, perché abitata da una politica che oscilla invariabilmente tra due logiche ugualmente sterili: guerra amico/nemico e inciucio tra compari. Le democrazie funzionanti sono un’altra cosa, sono il luogo della dialettica e anche del conflitto tra posizioni e opzioni alternative: dialettica e conflitto che possono essere tanto più aspri in quanto alla base vi è, tra i loro “attori”, un reciproco riconoscimento di legittimità . Oggi di differenze, di conflitti, l’Italia ha più bisogno che mai, perché nessun vero e profondo cambiamento può nascere dall’unanimità . Servono conflitti, e scelte originate da conflitti, per uscire meglio dalla crisi, per combattere la povertà  che aumenta, per riformare il welfare, per decidere dove e come trovare risorse per il lavoro, per decidere come cambiare il fisco, per decidere che posto devono avere i beni comuni, l’ambiente, la green economy nel futuro dell’Italia.

Insomma, è un bene che destra e sinistra imparino a riconoscersi e a rispettarsi, è malissimo immaginare le loro ricette, le loro politiche come indifferenti o intercambiabili. I governi di salute pubblica sono necessari quando tutta una nazione deve resistere – a un invasore, a una guerra – o ricostruirsi dopo una catastrofe, sono un danno quando serve avviare un cambiamento radicale che obbligatoriamente impone di scegliere tra visioni, e anche tra interessi, tra loro inconciliabili. Per questo il governo Letta se dura più dello stretto indispensabile non è la salvezza dell’Italia, ma la sua definitiva condanna.

Roberto Della Seta

FrancescoFerrante

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