Se 5stelle presenta ddl su nuovo condono è complice di abusivismo ed ecomafie

“Se davvero i parlamentari 5 stelle presenteranno il preannunciato disegno di legge che sotto la maschera del ‘ravvedimento operoso’ propone un nuovo condono edilizio generalizzato, questo li renderebbe di fatto complici dell’abusivimo e delle stesse ecomafie, che sul cemento illegale fanno affari da miliardi”.

E’ quanto affermano Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, già  parlamentari del Pd, commentando l’annuncio fatto ieri a Ischia di una legge proposta dai “grillini” che consentirebbe di sanare decine di migliaia di immobili abusivi in tutta Italia. “Il pretesto usato da chi tra i 5 stelle sponsorizza questo patto scellerato con l’illegalità  – affermano Della Seta e Ferrante – è lo stesso utilizzato dai Nitto Palma e dal Pdl che da anni provano a imporre un nuovo condono: favorire l’abusivismo di necessità  e frobnteggiare la crisi dell’edilizia. Peccato che l’unica necessità  che alimenta l’abusivimo edilizio è quella di chi vuole costruire e vendere case in nero senza pagare le tasse, peccato che spesso questo business in particolare nel sud è nelle mani della criminalità  organizzata, peccato che che l’edilizia delle migliaia di imprese oneste abbia tutto da guadagnare da leggi e politiche rigorose contro l’abusivismo che rappresenta anche una forma odiosa di concorrenza sleale”.

Della Seta e Ferrante lanciano un appello ai parlamentari 5 stelle perché fermino l’iniziativa annunciata ieri: “L’abusivismo edilizio e tre successivi condoni, gli ultimi due firmati Berlusconi, hanno inferto ferite terribili al territorio e al paesaggio italiani: una casa su cinque di quelle costruite nell’ultimo quarto di secolo è illegale, e l’unico modo per chiudere questa pagina scura della storia italiana è mettere la parola fine, senza se e senza ma, su ogni ipotesi di nuovo condono, e al tempo stesso impegnarsi per rilanciare l’edilizia nel segno della riqualificazione urbana, della sostenibilità  e della sicurezza del patrimonio abitativo”.

Europei di calcio in Israele: l’idea fetida del boicottaggio

pubblicato su Huffinfgtonpost.it

Il 5 giugno si inaugurano in Israele i campionati europei di calcio “under 21”. E come in tutte le occasioni che vedono lo Stato ebraico protagonista di eventi culturali o sportivi, è partita l’abituale campagna di boicottaggio contro i “sionisti”: appelli all’Uefa e al suo presidente Platini perché spostino sede alla rassegna, in Italia appelli alla Federazione di calcio perché ritiri la nostra nazionale dalla competizione e appelli ai giocatori azzurri perché “almeno” non stringano la mano ai colleghi israeliani.

Qualcosa di analogo capitò proprio in Italia nel 2008: bersaglio in quel caso era il Salone del libro di Torino, “colpevole” di accogliere Israele e i suoi scrittori come ospiti d’onore.

Naturalmente, e per fortuna, quest’ultimo invito al boicottaggio cadrà  nel vuoto come i precedenti, ma resta lo sconcerto e un pò di rabbia davanti a prese di posizione anche autorevoli – da Desmond Tutu a Ken Loach – che teorizzano l’espulsione di Israele da qualunque consesso internazionale.

Il paragone più frequentato per giustificare tale richiesta è con il Sudafrica dell’apartheid: paragone con piena evidenza totalmente improprio. Là  vi era uno Stato le cui leggi, la cui Costituzione discriminavano tra cittadini di serie A e di serie B. Uno Stato dunque di per sé illegittimo.

Qui vi è una guerra che dura da decenni: una guerra nella quale diversi Paesi hanno cercato – in alcuni casi (Iran) cercano tuttora – non di sconfiggere Israele, ma di cancellarla; una guerra che ha visto commettere crimini terribili da una parte e dall’altra.

Personalmente pensiamo tutto il male dell’occupazione israeliana, senza dubbio illegale, della Cisgiordania e di Gaza; della violazione sistematica da parte di Gerusalemme dei diritti umani, civili, sociali, politici di milioni di arabi palestinesi; delle politiche attuali del governo israeliano, che con determinazione pari soltanto a quella di Hamas si batte contro ogni residua possibilità  di pace e che sta trasformando il sogno democratico e umanitario del movimento sionista nell’incubo di un apartheid non di diritto ma di fatto.

Pensiamo malissimo delle politiche di Israele, ma pensiamo ancora peggio dello strabismo, del doppiopesismo, dell’ipocrisia insopportabili di chi sotto il pretesto della denuncia – ripetiamo: sacrosanta – dei comportamenti spesso scellerati dei governi israeliani, in realtà  dice ben altro: dice che illegittima non è la condotta di Netanyahu ma è l’esistenza di Israele in quanto “entità  sionista”.

Una bestialità  immensa, che ignora la storia e condanna ogni speranza di pace: una bestialità  che in troppi nella sinistra italiana ed europea e in ciò che resta dei movimenti pacifisti tuttora accarezzano e dalla quale viene su, dispiace dirlo, un terribile e inequivoco fetore.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

Lavoro, basta la parola?

pubblicato su Huffingtonpost.it

Lavoro, lavoro, lavoro. Tutti sembrano d’accordo: il lavoro che manca, le migliaia di aziende in difficoltà  costrette a licenziare, i tassi stratosferici di disoccupazione giovanile (40%), sono il problema più urgente e doloroso dell’Italia, il segno più acuto e drammatico di questa crisi interminabile.

Tutti sembrano d’accordo ma molti, troppi, affrontano il tema e propongono soluzioni considerando solo le “forme” del lavoro. Da una parte, i liberisti più o meno improvvisati di casa nostra hanno teorizzato per anni che l’economia italiana era ferma per colpa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: salvo scoprire, una volta che il “laccio” è stato allentato dal governo Monti, che ciò non ha aiutato di una virgola a ritrovare la via del lavoro. Dall’altra parte, quasi tutta la sinistra sindacale ripete da mesi che l’urgenza principale in Italia è cancellare la legge Fornero, come se prima vivessimo nell’Eldorado e non in una crisi identica a quella attuale.

Forse bisognerebbe cambiare punto di vista, magari lasciando da parte le dispute ideologiche novecentesche – mitologia della flessibilità  senza limiti contro idolatria del posto fisso a vita – e partendo da ciò che accade qui ed ora, dentro la crisi e in mezzo al XXI secolo. Per esempio, per affrontare con occhi contemporanei il dramma della perdita di lavoro converrebbe dare un’occhiata a quello che è successo a Pratolongo, provincia di Padova: qui è nata una nuova fabbrica di frigoriferi, e a realizzarla – si pensi un po’… – è stato il principale produttore cinese di elettrodomestici. Proprio così: i terribili cinesi, quelli che secondo tanti cancelleranno in breve tempo l’industria manifatturiera italiana, hanno scelto il nostro nord-est per fabbricare i frigoriferi con cui dare l’assalto ai mercati europei. Lo hanno fatto malgrado il costo della manodopera tre o quattro volte superiore a quello di casa loro, malgrado le rigidità  della legislazione italiana sul lavoro; lo hanno fatto perché pensano che il talento, l’inventiva del lavoro italiano siano i più adatti ad imporre i loro prodotti tra i consumatori europei.

In pochi si sono fermati su questo o su altri episodi analoghi, come in pochissimi si sono accorti di un altro dato interessante: buona parte di manifatturiero italiano di qualità  che malgrado la crisi è riuscito in questi anni a difendere o persino ad aumentare il proprio export, è fatta da imprese che hanno investito in innovazione “green”, cioè nel miglioramento ambientale di prodotti e processi.

Certo in questo come in ogni campo dell’organizzazione sociale le “forme” sono importanti. Così, nessuno può negare che il nostro mercato del lavoro sia oppresso da ingessature insopportabili e soprattutto dal peso di un costo del lavoro astronomico, e nessuno dovrebbe negare (alcuni lo fanno) che vi sono diritti dei lavoratori – a cominciare dal diritto di scegliersi il sindacato che vogliono… – semplicemente indisponibili. Ma per fermare il declino competitivo e occupazionale dell’industria italiana servono, in primo luogo e per l’appunto, politiche industriali. E allora se il Presidente del consiglio Letta, come ha detto recentemente alla platea confindustriale, si pone l’obiettivo di portare il peso dell’industria dal 18% al 20% del Pil, deve dire attraverso quali azioni ritiene di centrare un traguardo così ambizioso.

Si prenda l’energia. Per abbattere i costi della bolletta elettrica delle piccole e medie imprese che soffrono di un gap eccessivo nei confronti dei loro competitori stranieri, si vuole continuare a difendere gli interessi dei grandi gruppi “fossili”, o come ha fatto con coraggio la Germania e stanno facendo gli Usa di Obama si deciderà  di puntare su efficienza e rinnovabili, e sul gas come energia di transizione rinunciando invece al carbone? La Germania e ora anche gli Stati Uniti grazie a questa scelta fanno nascere molti nuovi posti di lavoro e accrescono di molto la loro autonomia energetica: l’Italia pensa di imitarli?

Sulla chimica: si continuano a rinviare all’infinito le bonifiche dei siti industriali dismessi, lasciando sul terreno, letteralmente, veleni di ogni sorta, o si punta sulla chimica verde, settore nel quale l’Italia già  può vantare posizioni di leadership mondiale e che, se adeguatamente sostenuto, può consentire la creazione di lavoro efficiente e duraturo?

Ancora. Sui rifiuti si vuole davvero smantellare l’orrenda pubblicità  dell’emergenza spazzatura di Napoli o di Palermo o di Roma e scommettere sulle tecnologie per massimizzare il recupero di materia, decisive per un Paese come il nostro a vocazione manifatturiera ma povero di materie prime?

L’elenco potrebbe continuare a lungo: è di questo che si parla quando si dice “green economy”; si parla di lavoro, non solo di ambiente. Un cammino così è la via maestra per portare l’Italia fuori dal tunnel della crisi, ma una via che richiede decisioni chiare e nette. Sarà  in grado di prenderle un questo Governo di “larghe intese” dove dentro c’è di tutto? E sapranno sostenerle i rappresentanti degli imprenditori italiani, quella Confindustria che quando l’Europa varò il pacchetto “20-20-20” per promuovere l’innovazione energetica e combattere i cambiamenti climatici – sfida decisiva anche per rilanciare le nostre economie – si attardò in una guerra di resistenza perdente e retrograda?

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE 

 

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