QUESTIONE MORALE. RIPARTIAMO DA BERLINGUER

di Francesco Ferrante, Roberto Della Seta

L’Unita, 20 luglio 2008

 

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società  e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’. (…) Tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà  al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”.
Con queste parole – tratte da un’intervista di Eugenio Scalfari uscita su la Repubblica esattamente 27 anni fa, nel luglio 1981 – Enrico Berlinguer poneva la cosiddetta “questione morale”. Da quella intervista è passato oltre un quarto di secolo, non ci sono più né il Pci né tutti gli altri partiti della “prima repubblica”. Ma è difficile non rimanere stupefatti per il sapore attualissimo della denuncia di Berlinguer: depurata dalle sue intenzioni polemiche e anche propagandistiche – l’orgogliosa rivendicazione della diversità  del Pci proprio, innanzitutto, sul terreno dell’etica pubblica, peraltro almeno in parte smentita dalle vicende del decennio successivo -, emendata dai nomi dei politici di allora, essa potrebbe comparire a pieno titolo addirittura come epigrafe nei libri di Stella e Rizzo o come manifesto di qualche “vaffa-day”.
Il “terremoto” politico-giudiziario che ha colpito l’Abruzzo, con l’arresto di Ottaviano Del Turco e di molti amministratori e funzionari regionali, ripropone allora un pensiero e una domanda che per noi che crediamo fortemente nel progetto del Partito Democratico, e siamo sicuri per tanti insieme a noi, sono urgenti e sono angosciose. Il pensiero: al di là  dell’esito dell’inchiesta di Pescara, è fuori di dubbio – lo testimoniano numerose inchieste in giro per l’Italia che vedono coinvolti nostri amministratori e rappresentanti –  che oggi la “questione morale” interroghi anche noi del Pd. La domanda: come possiamo e dobbiamo rispondere?
Come ha detto Walter Veltroni all’ultima assemblea nazionale del Partito Democratico, su scala nazionale come in ogni territorio chi rappresenta il Pd, chi chiede voti per il Pd, deve testimoniare un rigore etico che sia coerente, soggettivamente e oggettivamente coerente con l’obiettivo di dare corpo a una “buona politica”. Adesso, dobbiamo dirlo e dircelo con onestà  intellettuale, non è sempre così. Con più evidenza nel Sud ma non solo nel Sud, troppo spesso la politica, anche la “nostra” politica, somiglia terribilmente a una “macchina di potere e di clientela”. Per questo noi crediamo che la “questione morale” sia per il Pd un banco di prova altrettanto decisivo dell’innovazione culturale e programmatica. I due terreni del resto sono intimamente connessi: quanto più la politica

G8 IN GIAPPONE. FAME, ENERGIA, CAMBIAMENTI CLIMATICI… GRANDI SFIDE E RISPOSTE INADEGUATE

Le riunioni del G8 da molto tempo si concludono con un nulla di fatto in termini di proposte concrete, oppure, ancor peggio, con grandi promesse – come nel caso della lotta alla povertà  e il sostegno ai Paesi più poveri del mondo e all’Africa in particolare – cui non seguono i fatti. Anche la riunione in Giappone non ha fatto eccezione. La questione è talmente evidente da mettere in discussione la stessa composizione del “club” come recentemete ha dichiarato anche lo stesso Sarkozy. Probabilmente sono prorio i due temi che negli ultimi anni della globalizzazione si sono imposti al centro della discussione, la lotta ai mutamenti climatici e quella contro la povertà , che richiederebbero quell’allargamento cui si sono immediatamente dichiarati contrari Bush e Berlusconi. Che senso ha discutere della fame nel mondo, delle epidemie, dei disastri causati da eventi meteorologici estremi non confrontandosi con i rappresentanti di quei popoli che più ne soffrono le conseguenze? E che senso ha parlare di come ridurre le emissioni di gas di serra senza coinvolgere quei paesi, dalla Cina all’India al Brasile, che vivono un periodo di ruggente crescita economica? Poco o nulla.
Prendiamo il caso di ciò che è stato detto riguardo in Giappone ai mutamenti climatici, il “caro petrolio”, la questione energetica. Temi centrali per lo sviluppo in qualsiasi parte del mondo, per la vita delle persone qui e nei Paesi più poveri. Il petrolio oltre 150 dollari sta mettendo a dura prova tutte le economie, i  mutamenti climatici non sono più una vaga minaccia per il futuro ma una drammatica realtà  del presente. Di fronte a tali emergenze sarebbero necessarie risposte serie che radicalmente affrontino la questione che è centrale: l’economia mondiale basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili non regge più. L’Europa ormai da anni ha scelto come assi fondanti della sua politica del futuro per liberarsi dalla “schiavitù del petrolio”, l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Da qui gli obiettivi 20-20-20 al 2020 (riduzione del 20% delle emissioni di CO2, risparmio del 20% di energia, ricorso per il 20% della produzione alle rinnovabili). La scommessa è quella di puntare sull’innovazione tecnologica per affrontare il problema ambientale da un lato e per dare nuovo ossigeno ai nostri sitemi economici dall’altro. Di questo forse si sarebbe dovuto parlare in un consesso internazionale largo: come trasferire le tecnologie adatte ai paesi emergenti, come conciliare la sacrosanta aspirazione di quei popoli ad un maggior benessere con la ineludibile esigenza di contenimento delle emissioni di gas di serra. Invece niente. Nel documento finale al solito si parla di un dimezzamento delle emissioni al 2050 senza nessun obiettivo intermedio, così come ha sempre voluto l’attuale Governo Usa, e quindi senza alcuna concreta proposta per l’oggi. E in questo quadro, visto il recente dibattito sul nucleare, il nostro premier si è sentito autorizzato a fare la sua “sparata” su 1000 nuove centrali nucleari da costruire! A problemi seri servirebbero risposte serie. Nel mondo sono attualmente in funzione 439 centrali nucleari (che forniscono appena il 5, 8% dei consumi totali di energia), come può essere credibile un obiettivo di farne 1000 nuove! Senza considerare i drammatici problemi connessi all’approvvigionamento di uranio per il loro funzionamento e quelli forse ancor più complessi di smaltimento delle scorie di un parco così gigantesco considerando che a tutt’oggi non esiste al mondo un deposito finale di scorie ad alta radioattività . Non a caso la stessa Aiea (l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) prevede al contrario che nei prossimi anni il peso dell’atomo nella produzione elettrica mondiale, calerà  dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030, mentre la IEA (International Energy Agency) è ancor più pessimista prevedendo per quella data un contributo tra il 9% e il 12% Certo le ricette dei vari Paesi europei sono diverse, si va dalla Francia che punta ovviamente sul nucleare per favorire la sua industria del settore, alla Spagna in cui Zapatero sostiene che l’energia del futuro è quella rinnovabile e che si debba dire no al nucleare. Negli stessi Usa dove ultimamente si è molto discusso di un rilancio del nucleare è un fatto che dal 1978 non si ordina nessun nuovo reattore, soprattutto per motivi economici. Perché lì nella patria del libero mercato, senza sovvenzioni statali, nessuna azienda privata ha ritenuto che davvero i costi di produzione del nucleare fossero così convenienti.
Insomma di nucleare si puo’ e si deve parlare, specialmente in termini di ricerca e sviluppo di una nuova tecnologia che risolva, o che almeno riduca drasticamente, il problema delle scorie, ma è davvero segno di improvvisazione e ignoranza la proposta berlusconiana dei 1000 nuovi siti. Un’ulteriore prova della necessità  di cambiare il G8, ma anche di quanto ci sia di “ideologico” e poco concreto nella proposta del nostro Governo di “nucleare italiano”.
 

Sabato prossimo a Roma nasce l’Associazione degli Ecologisti Democratici.

Sabato prossimo a Roma nasce l’Associazione degli Ecologisti Democratici.
Viste le discussioni delle ultime settimane, è bene chiarire in premessa che questa nostra tutto sarà  tranne che una nuova, ennesima corrente del Pd.
Siamo più presuntuosi. Mentre le questioni dell’energia, del cibo, dell’acqua s’impongono nel mondo come priorità  ambientali, sociali, economiche, vorremmo che tutto il Partito democratico, non solo un suo spicchio, scelga l’ambiente come suo terreno di elezione, vorremmo che il Pd come tale dia voce ad un ambientalismo politico moderno, propositivo, di governo, liberato dalle ipoteche minoritarie dell’ecologismo del no e al  tempo stesso capace di liberare il nostro nuovo partito dalle ipoteche ideologiche del Novecento.
Non è un obiettivo scontato, sappiamo bene che per raggiungerlo dobbiamo lanciare e vincere dentro il Pd una difficile sfida politica e culturale: per questo abbiamo scelto di costituirci in associazione, dando vita in tutta Italia a circoli ecodemocratici aperti a coloro che del Pd fanno parte, in qualunque “componente ” si riconoscano, e aperti anche a tanti che al Pd non hanno aderito ma condividono le nostre ragioni.
Intanto, un primo risultato non piccolo noi ecodemocratici l’abbiamo già  raggiunto: non siamo “ex”, come sono ancora troppi nel Pd. Tra noi c’è chi viene dai Ds, chi dalla Margherita, chi dall’associazionismo, chi anche dai Verdi: ma come toccheranno con mano tutti quelli che parteciperanno all’assemblea di sabato, a cominciare da Walter Veltroni che interverrà  la mattina, oggi siamo e ci sentiamo soltanto ecologisti democratici.
Che mattoni possiamo portare da ambientalisti alla costruzione del Pd?
Per prima cosa vorremmo contribuire, con il nostro punto di vista, a una riflessione proficua sul significato della sconfitta elettorale e sui modi per avvicinare il tempo della rivincita.
Il Pd ha bisogno di darsi una chiara, definita “visione del mondo”. Come ha detto Pierluigi Bersani all’assemblea nazionale recuperando una parola che la storia del Novecento ha ridotto a tabù, ma una parola in sé nobilissima e utile, ha bisogno di un’ideologia, cioè di un discorso compiuto sulla realtà  che venga prima dei programmi, delle proposte su questo o quel tema.
Finora noi abbiamo fatto una rivoluzione fuori di noi, una rivoluzione positiva che ha cambiato radicalmente il paesaggio della politica italiana avvicinandolo alle esigenze di una politica non frammentata, di una politica capace di guardare all’interesse generale. Ma ci resta da realizzare un cambiamento altrettanto radicale dentro di noi: nel nostro sguardo sulle cose, nella nostra idea di futuro.
Quasi tutti convengono che il nostro problema principale è di radicarci nel territorio. Ma radicamento territoriale vuol dire prima di tutto, lo ha scritto Giorgio Ruffolo in un bellissimo articolo su la Repubblica di qualche giorno fa, percepire i grandi cambiamenti sociali, culturali, persino antropologici che hanno camminato in questi anni. Vuol dire, per esempio, guardare in faccia quel bisogno di luogo – dal quale nasce tanto il ritornello leghista del “padroni a casa nostra” quanto l’esplosione di mille Nimby – che troppi di noi vedono come un residuo del passato e che invece è un pezzo importante della modernità  e dei processi di globalizzazione: un bisogno che va mediato, governato, ma che non si può liquidare come un’anticaglia. E radicamento territoriale vuol dire scoprire che oggi sempre più persone votano non in quanto operai o imprenditori, ma in quanto giovani o vecchi, in quanto membri di una comunità  territoriale: l’appartenenza generazionale, l’appartenenza locale spesso contano di più dell’appartenenza sociale nell’orientare opinioni, aspirazioni, anche scelte elettorali. Ancora, radicamento territoriale vuol dire radicarsi nei problemi inediti della contemporaneità , a cominciare dall’ambiente: che è un grande tema sociale ed economico decisivo per noi contemporanei prima che una questione di generosità  verso le generazioni future; che è il terreno su cui si può declinare in senso progressista, solidale il crescente bisogno comunitario che se nutrito da altri porta ad esiti di chiusura e di intolleranza. E badate: se la questione ambientale non cominciamo a presidiarla noi, se non la mettiamo davvero al centro del nostro discorso pubblico, presto o tardi anche in Italia lo farà  la destra come già  sta avvenendo in tutta Europa da Cameron ad Angela Merkel. 
Questo passaggio non riguarda naturalmente solo il centrosinistra italiano: è tutto il riformismo che deve ripensare se stesso, innovare rispetto a un tempo recente in cui è sembrato talvolta subalterno, persino più della destra, al pensiero unico del mercato globale come via automatica e obbligata al progresso (peccato venga da Tremonti, ma questa immagine della sinistra che ambisce a fare il manager della globalizzazione non è proprio peregrina…). La difficoltà  di proporre idee nuove per i problemi, nuovi, del presente, ma restando fedele ai valori di socialità , solidarietà , giustizia che sono la ragione sociale del riformismo, è il nocciolo dell’attuale crisi d’identità  e di consenso del centrosinistra: che come ha  ha ricordato Veltroni sabato scorso, solo dieci anni fa governava quasi tutti i Paesi del G8 e oggi quasi dappertutto è minoranza. Anche per questo non avrebbe senso che il Pd, nato per costruire in Italia un riformismo all’altezza delle sfide del XXI secolo, cercasse ora rifugio al riparo di una tradizione, quella socialista, che a sua volta è chiamata a trasformarsi che peraltro, pure questo va detto, non appartiene alla storia di nessuna delle famiglie politiche che al Pd hanno dato vita.
Per noi ecodemocratici, un altro terreno fondamentale su cui il Pd deve mostrarsi innovativo, netto, è quello, per dirla con Alex Langer, di una “ecologia della politica”. Come ha affermato Veltroni all’assemblea nazionale, a Roma e in ogni territorio chi rappresenta il Pd, chi chiede voti per il Pd, deve testimoniare un rigore etico che sia coerente, oggettivamente coerente con l’obiettivo di dare corpo a una “buona politica”. Adesso, dobbiamo dirlo e dircelo senza paura, non è sempre così, e in particolare nel Sud si avverte il rischio di un Pd che finisca per assommare vocazione minoritaria e stili politici non proprio edificanti.
Questi sono i temi principali sui quali si impegneranno gli ecodemocratici. Nella speranza che nel Pd in costruzione si cominci a parlare un po’ meno della forma-partito e un po’ più della sostanza del partito, a guardare un po’ meno nel nostro ombelico e un po’ di più in direzione degli italiani.   
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante
 

 

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