Occasione Termini Imerese

Nella crisi, le cui conseguenze sociali non sono affatto terminate, la vicenda di Termini Imeese è davvero emblematica. Lo è per molti motivi: perché riguarda la più importante industria italiana, quella indissolubilmente legata, nella realtà  e nel nostro immaginario collettivo, ai destini dell’intero Paese; perché coinvolge migliaia di lavoratori; perché interessa l’area più fragile, il Mezzogiorno. Ma rischia di essere emblematica anche dell’incapacità  di avere lo “sguardo lungo” necessario per uscire dalla crisi in modo stabile.

La domanda da farsi è se è davvero intestardirsi nel trovare il modo di continuare a costruire automobili in quello stabilimento, il modo migliore per rispondere alle preoccupazioni dei lavoratori e delle loro famiglie o se piuttosto bisognerebbe sfruttare questa crisi drammatica per costruire un’ipotesi diversa e più solida. E’ sicuro che si deve difendere con forza la vocazione industriale di Termini e che si devono chiedere garanzie molto più forti alla Fiat di quante l’azienda sino adesso sembra disposta a concedere. Molto meno credibile è chiedere che si aumenti la produzione di automobili nel nostro Paese. Dobbiamo al contrario considerare l’idea che in futuro se ne produrranno sempre meno. E, almeno in questa parte del mondo, si tratta di un futuro immediato. Infatti se prendiamo sul serio il trend di uscita dall’”era del fossile”, e bisogna farlo a meno di non considerare tutte le più significative leadership mondiali – da Obama alla Merkel, da Sarkozy all’intero panorama politico britannico – dei cantastorie, dobbiamo anche considerare il fatto che inevitabilmente si dovrà  marciare oltre quella “civiltà  dell’automobile” che ha segnato la storia del secolo scorso. Sta già  succedendo, e succederà  anche in Italia che vanta l’indegno primato europeo del trasporto delle merci su gomma (il 78%). Certo modificare il modo in cui muoviamo persone e merci costituisce una rivoluzione persino più importante di quella energetica, ma non è solo indispensabile per affrontare i cambiamenti climatici è anche la strada obbligata per liberarci dalla dipendenza dalle importazioni di petrolio.

Ma allora se questo è il futuro che ci attende, non utopia, ma realtà  concreta che certo avrebbe bisogno di “visione” nelle leadership, che senso ha destinare i fondi, i contributi che alla fine verranno fuori nella trattativa tra Fiat e istituzioni (Governo e Regione), a tenere in vita artificialmente una produzione “non conveniente”, rimandandone la morte inevitabile di qualche mese o al più di qualche anno? Non sarebbe meglio prendere sul serio l’idea di utilizzare Termini per un polo delle energie rinnovabili dove si fa ricerca e si costruiscono materialmente gli impianti puntando con forza sull’innovazione tecnologica? Spendere quei soldi non “a fondo perduto” ma per riconvertire quell’industria  e dare un futuro davvero duraturo a quei lavoratori? Non sarebbe questo l’inizio finalmente di un vero Piano Sud che punti a mettere in grado il nostro Mezzogiorno di sfruttare le proprie risorse? Per farlo però abbiamo bisogno di liberarci dal riflesso condizionato per cui di fronte alla crisi l’unica risposta che sappiamo trovare è la difesa dell’esistente, sempre e comunque. Un vizio non solo della destra conservatrice che nulla vuole cambiare, un vizio troppo spesso anche nostro, del centrosinistra che così manca alla sua vocazione riformista. Proviamo a liberarcene, forze politiche e sindacali, proviamo a trovare risposte originali e dense di speranza proprio a partire da Termini Imprese.  Forse così non si sprecherebbe la crisi e si coglierebbe l’occasione per costruire un futuro migliore.

 

FRANCESCO FERRANTE