Non è un miracolo

”Pronti a vincere di nuovo”, recitava uno striscione di Legambiente visto nelle piazze referendarie, richiamando i plebisciti antinucleari del 1987. Così è andata e in apparenza è stato un miracolo, un grande colpo di scena. Dopo 16 anni di referendum falliti sempre più rovinosamente, questo voto ha rovesciato un trend che sembrava inarrestabile, oltretutto avvalorato dall’astensionismo crescente in tutte le elezioni.
In apparenza è stato un miracolo, nella sostanza invece è stata una conferma. La conferma che nella storia repubblicana i cambi di stagione sono spesso annunciati da eventi referendari: nel 1974 il divorzio, nel ’91 i referendum elettorali, ora l’acqua pubblica e il no al nucleare. Tutte svolte promosse da outsider politici e sociali – i radicali, Segni, i movimenti contro la privatizzazione dell’acqua e gli ambientalisti oltre allo stesso Di Pietro -, e che mai hanno visto le rappresentanze “generaliste”, grandi partiti e
sindacati, come protagonisti.
Anche i referendum di domenica e lunedì segnano un passaggio di stagione, più ancora delle elezioni di Milano e di Napoli. Oggi può cominciare per l’Italia il nuovo secolo, dopo che il vecchio era finito 20 anni fa, congedato di nuovo da un referendum, ma dopo 20 anni di una terra di nessuno lungo la quale né la sinistra né la destra hanno saputo mettersi alla guida di un vero cambiamento.
Quale il significato di questa svolta? Molti diranno, qualcuno ha già  detto che i referendum hanno avuto successo come voto politico contro Berlusconi, e che il merito dei quesiti ha contato molto meno. Noi la pensiamo all’opposto, riteniamo che il valore storico di ciò che è successo sia proprio nell’imporsi sulla scena del dibattito pubblico di temi, di bisogni che evidentemente già  da tempo pesano molto nella testa degli italiani ma che la politica ha finora trascurato: i beni comuni, l’ambiente, la voglia di una politica meno separata dalla società  e con meno privilegi; in una parola, quel sentimento inedito, e adesso scopriamo dirompente, che diversi commentatori hanno sintetizzato come rivincita dell’interesse civico sull’individualismo e il “privatismo” di questi anni.
Come si diceva, anche in questo caso la novità  è maturata fuori dai grandi
partiti, e fuori anche – va detto – dai media tradizionali e da tutti i talk-show politici televisivi, di ogni colore. Ma mentre la destra esce da questa prova con le ossa rotte – sue tutte le leggi abrogate, suo e solo suo il tentativo di cancellare o vanificare il voto -, il centrosinistra e in particolare il Pd hanno avuto il merito, il grande merito, di intuire per tempo che questo passaggio non era solo un’altra tappa nella battaglia di opposizione al governo, ma era di più: ci sono questioni, dimensioni che oggi per gli
italiani hanno un’importanza prioritaria e che finora la politica ha
largamente trascurato.
Ha capito, il Pd, che nel movimento per l’acqua pubblica c’è un’idea di progresso rinnovata e più avanzata, che rifiuta il riduzionismo liberista per il quale ogni bisogno, ogni spazio sociale, ogni bene comune vanno trattati come merce. E ha capito ben prima della tragedia di Fukushima che il nucleare è una risposta sbagliata, vecchia a un problema certo reale ed urgente: liberare i sistemi energetici dall’egemonia del petrolio e dei combustibili fossili. E’ probabile che in Italia il nucleare non avrebbe mai rivisto la luce: perché davvero si tratta di un’opzione obsoleta, pericolosa e costosissima, e perché non avrebbe senso che mentre il mondo più vicino a noi, Germania in testa, cerca di spegnere il prima possibile le sue centrali, noi ci lasciamo trascinare da Berlusconi, da Scajola, dall’Enel in direzione opposta. Dopo questo voto, finalmente l’ipotesi di ritorno al nucleare finirà  in archivio, e l’Italia potrà  dedicarsi a un vero e nuovo piano energetico, fondato su efficienza e rinnovabili, che punti sul gas come energia fossile di transizione e prepari una società  e un’economia “fossil-free” in cui si affermi un modello di produzione energetica pulito e distribuito.
Il Pd è stato bravo ad assecondare il cambiamento in atto, ma se vogliamo che questa diventi la nostra vittoria  dobbiamo mettere a frutto la lezione, impegnarci sul serio a cambiare passo, agenda, linguaggi, a ricostruire anche su queste sensibilità  maggioritarie rivelatesi nei referendum – sensibilità  decisamente trasversali e radicate pure nei settori di elettorato meno politicizzati, i mitici “moderati” – la nostra alternativa. Il popolo dei referendum alla politica chiede questo, sta a noi dare risposte all’altezza.
 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE