pubblicato su huffingtonpost.it
Non ce la facciamo. Non ci piace la legge elettorale imposta da Matteo Renzi, non ci piace il merito di buona parte delle sue politiche e non ci piace nemmeno il suo stile “bullista” (che peraltro, bisogna ammetterlo e magari cominciare a ragionarci, è tra le ragioni principali del suo successo), però non ce la facciamo a considerare un’alternativa credibile e convincente al “Partito di Renzi” questa schiera di notabili – da D’Alema a Bersani, da Epifani a Bindi, fino ai più giovani (anagraficamente) Cuperlo e Speranza – che ora si ribellano alla furia plebiscitaria del renzismo.
Non ce la facciamo perché in politica le biografie, molto più dell’anagrafe, contano, e nel curriculum vitae di questi novelli “indignados” non vi è traccia di pensieri e comportamenti che assomiglino anche solo da lontano a ciò che per noi dovrebbe essere una sinistra degli anni 2000 vera e credibile.
Strillano contro le riforme istituzionali approvate a colpi di maggioranza, ma nel 2001 sono stati i primi a fare così, cambiando – in peggio – il titolo V della Costituzione.
Strillano perché Matteo Renzi tradisce l’ispirazione di sinistra dell’elettorato Pd, ma non hanno mai provato, quando la sinistra italiana erano loro, a costruire sulle macerie del post-Pci una sinistra “contemporanea” capace di restare se stessa e però di rinnovarsi in profondità – dalle politiche economiche, ai diritti civili, all’ambiente, alla rappresentanza di milioni di esclusi dalle tutele sociali – , di superare il tanto di obsoleto del socialismo e del sindacalismo novecenteschi.
Strillano contro il neoliberismo del “Jobs act”, ma per due decenni hanno pienamente partecipato alla bancarotta politica e culturale di una sinistra europea sempre più “embedded”. Vi è un’immagine che descrive alla perfezione questo “scivolamento”, è la foto di gruppo dei leader che parteciparono al vertice del G8 nel giugno 1999 a Colonia: tutti politici di centrosinistra a partire dal succitato D’Alema, primattori di quella “sinistra di governo” rimasta totalmente e volutamente estranea alle domande di cambiamento – lotta allo strapotere della finanza, diritti, ambiente, beni comuni – che in quegli stessi anni segnavano la stagione dei movimenti altermondialisti.
Infine non strillano affatto, anzi restano rigorosamente silenti, per i tanti “impresentabili” oggi alleati o “pupilli” di Renzi: e questa è quasi una scelta di coerenza, perché molti degli “impresentabili” – Crisafulli, De Luca, Paita… – sono loro creature.
Non ce la facciamo a pensare a questi qui come ai capi di una futuribile sinistra sociale, liberale, ecologista. Se Renzi incarna, meglio ancora di D’Alema e Bersani, un riformismo talmente sbiadito da confondersi con le ricette della destra, dall’altra parte vi è un gruppo di politici spompati e senza idee, che del trionfo renziano sono stati causa prima che vittime. Inutile girarci intorno, questo è oggi il Pd: la convivenza forzata tra “Partito della Nazione” renziano, la proiezione politica in salsa nuovista delle larghe intese che governano l’Italia dal 2011, e “partitino della reazione” di una nomenclatura sconfitta e rancorosa. Lì dentro ormai non vi è spazio né modo per costruire risposte convincenti alla domanda, che cresce, di una sinistra all’altezza dei problemi e delle sfide del mondo attuale. No, per una sinistra così può esserci vita e futuro solo fuori dal Pd.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE