Pubblicato su Repubblica di Bari
Da molti mesi il presidente della Regione Puglia Emiliano ripete sull’Ilva di Taranto due concetti semplici e, a noi pare, di buonsenso. Primo concetto: la sola via realistica per ”salvare” l’acciaieria tarantina e i posti di chi ci lavora è fondarne il futuro su un’opera radicale e rapida di risanamento ambientale: copertura e pavimentazione dei parchi minerali, progressiva decarbonizzazione dell’impianto. Secondo concetto: il gruppo guidato da Arcelor-Mittal, scelto dal precedente governo come acquirente dell’Ilva, dà su questo piano meno garanzie della cordata concorrente AcciaItalia; meno investimenti (1,15 miliardi di euro a fonte di 2) e tempi più lunghi (2023 anziché 2021) per ridurre l’impatto ambientale dell’impianto, meno unità lavorative a regime (8.100 contro 10.500).
Questi concetti il governatore della Puglia li ha ribaditi anche nella lettera del 10 luglio al vicepresidente del consiglio e ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio. Sono concetti che per un partito come quello cui Emiliano appartiene – il Pd – che tuttora si considera “progressista” e “di sinistra”, dovrebbero essere la premessa di qualunque proposito – e di qualunque azione nel caso governi – sul tema del “che fare” con l’Ilva.
Invece no. In particolare per l’ex-ministro dello sviluppo Carlo Calenda, anche lui iscritto al Pd, le parole, le proposte di Emiliano sull’Ilva erano poco meno che bestemmie: richieste irricevibili che in effetti, finché Calenda ha governato, nemmeno sono state rifiutate. Sono state ignorate.
La verità è che Calenda fa parte, nel caso dell’Ilva di Taranto, non della soluzione ma del problema. La fabbrica è stata per decenni il luogo-simbolo in Italia di un modello d’industria fondato sul disprezzo e la violazione sistematici di ogni protezione a difesa dell’ambiente, della sicurezza dei lavoratori, della salute dei cittadini. L’esplosione del “bubbone”, dopo che nel 2013 la magistratura sequestrò l’impianto, l’azienda venne commissariata e sottratta al controllo dei proprietari privati – la famiglia Riva -, era l’occasione propizia per chiudere quella pagina nera e cominciare una storia nuova, che a partire da un programma rigoroso (nei contenuti) e certo (nei tempi) di risanamento ambientale consentisse al tempo stesso di restituire dignità e salute alla città di Taranto e di salvaguardare il futuro occupazionale delle migliaia di lavoratori dello stabilimento.
Non è successo. Prima è arrivata una lunga successione di decreti legge “ad aziendam” infarciti di deroghe ed eccezioni, legati da uno stesso filo conduttore: relativizzare nel caso dell’Ilva di Taranto, e solo in questo, il principio costituzionale per cui “l’iniziativa economica non può svolgersi se reca danni a libertà, sicurezza e dignità umana” (articolo 41). Poi quando è stata bandita una gara pubblica per riprivatizzare l’Ilva, si è adottata una procedura quanto mai opaca, che ha tenuto “segreto” il piano industriale dei diversi concorrenti e al termine della quale il governo (giugno 2017) ha deciso di cedere l’Ilva a un gruppo che su ambiente e lavoro fornisce scarsissime garanzie.
Non abbiamo simpatia per l’attuale governo, ma bisogna ammettere che finora Luigi Di Maio, nella sua doppia veste di ministro del lavoro e dello sviluppo, ha mostrato maggiore saggezza dei suoi predecessori nell’affrontare il dossier-Ilva. Forse, si vedrà presto, ha capito meglio dei tanti Calenda (che disgraziatamente abbondano nella sinistra sia politica che sindacale) che nel 2018 produrre acciaio infischiandosene della salute di lavoratori e cittadini non è “moderno”, non è “economico” e va contro persino ogni logica di mercato.
ROBERTO DELLA SETA
(presidente di “Europa Ecologia”, già presidente di Legambiente)
FRANCESCO FERRANTE
(vicepresidente del “Kyoto Club”, già direttore di Legambiente)