Gli indignati che si ritrovano oggi a Roma e in mezzo mondo sono un fenomeno pieno di tante cose, tante suggestioni, tante persone diverse. Ma ci sono alcuni fili che queste cose, persone, suggestioni tengono insieme. Il primo filo e forse il più promettente è nel fatto che questo nuovo “popolo” – fatto non solo ma soprattutto di quei giovani che sentono di avere davanti una vita più incerta e meno attraente di quella toccata ai loro genitori – sembra avere più chiaro di tutti che la crisi che sta rischiando di squassare le economie occidentali segna un salto d’epoca, che affrontarla con gli stessi strumenti, la stessa mentalità che l’hanno creata non è possibile. Per esempio, si sono accorti gli indignati che per salvare il loro e il nostro futuro bisogna convincersi che la crescita, lo sviluppo, se avvengono a discapito dei beni comuni – l’ambiente, la coesione sociale, l’istruzione – non fanno crescere la ricchezza, alla lunga nemmeno la ricchezza economica. In questo, la loro “novità ” ne ricorda un’altra, l’irruzione improvvisa sulla scena pubblica un decennio fa dai movimenti di critica alla globalizzazione. Anche i “no-global” erano un movimento molto articolato e molto contraddittorio: diedero forma e voce a domande, bisogni, aspirazioni del tutto inedite, e al tempo stesso offrirono insperato rifugio a ragionamenti che appartenevano assai di più al Novecento che al nuovo millennio. Ma i “no-global” nella loro non lunga stagione hanno cambiato in meglio e ben oltre se stessi il punto di vista di tanti sulla modernità , cancellando soprattutto l’idea – per lungo tempo un pensiero unico assai frequentato anche a sinistra – che per restare protagonisti nel mondo globale tutti i Paesi, tutte le economie dovessero omologarsi ad uno stesso modello.
Gli indignati pongono domande diverse, ma come i “no-global” hanno il merito di gridare a tutti che “il re è nudo”, che i problemi di oggi impongono risposte che non vengano dal passato. Per questo sono importanti, per questo vanno ascoltati pure vedendone e segnalandone i limiti, i difetti, le confusioni cominciando da un rapporto ambiguo con il tema, decisivo, del no ad ogni forma di violenza. Vanno ascoltati anche in Italia e vanno ascoltati dal Pd, sebbene per la maggioranza di loro – dobbiamo dircelo – noi non siamo al momento un interlocutore. In Italia di una grande mobilitazione di indignati c’è un enorme bisogno: siamo il Paese europeo con più distanza tra ricchi e poveri, quello con la più alta percentuale di giovani senza lavoro e dove si fa di meno per tutelare i beni comuni, quello governato nel modo peggiore sul piano della politica come dell’economia come dell’etica pubblica. Ma in Italia più che altrove si avverte il rischio che sotto l’etichetta degli indignati passino parole d’ordine, proposte, piccole leadership direttamente riciclate dal peggiore conservatorismo di sinistra: di chi, altro che “indignados”, pensa che le pensioni di anzianità siano un totem, di chi si oppone ogni volta che si prova a liberalizzare l’accesso a mercati chiusi e corporazioni professionali.
Insomma, gli indignati possono portare una boccata d’ossigeno e possono portarla tanto più a casa nostra. Basta che siano veri.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante