Il disastro elettorale di Pdl e Lega ha rotto due incantesimi che duravano con rare eccezioni (per lo più solo apparenti) da almeno dieci anni.
Primo incantesimo: l’idea che il centrodestra berlusconiano fosse molto più adatto e bravo del centrosinistra a compenetrarsi con le convinzioni e i sentimenti profondi degli italiani. Idea radicatissima in tutti noi “progressisti”, il più delle volte accompagnata quasi a mo’ di consolazione dal “complesso dei migliori”: come dire “noi siamo molto meglio degli altri, ma gli italiani sono in maggioranza rozzi e ignoranti e per questo non ci amano”. Oggi per la prima volta dopo molto tempo, non è così. Oggi per la prima volta vediamo che la destra non riesce a capire il Paese, e scopriamo di essere noi più vicini agli italiani. Più vicini in molte convinzioni: l’urgenza di politiche economiche che di fronte alla crisi economica, e al rischio evidente che il declino italiano diventi inarrestabile, spingano lo sviluppo oltre a presidiare l’equilibrio dei conti pubblici; l’urgenza di dare risposte concrete al disagio giovanile che cresce; l’insensatezza del programma di ritorno al nucleare e in generale la necessità di dare molto più peso alla tutela dell’ambiente e dei beni comuni. Ci scopriamo più vicini agli italiani anche in alcuni sentimenti, primo fra tutti il disgusto davanti allo spettacolo, anticipato molti mesi fa da Veronica Lario e ormai conclamato, del drago-Berlusconi cui vengono offerte in dono decine di giovani vergini (noi, ingenui, pensammo allora a una metafora…).
Anche un secondo incantesimo s’è rotto con questo voto. Quello che mostrava come inarrestabile l’ascesa della Lega e la sua tracimazione al di sotto del Po, l’incantesimo che consentiva ai leghisti un perenne doppio incasso, come partito di governo e potere e come partito di lotta. Che permetteva loro, senza pagare alcun pegno politico e anzi continuando a crescere nei consensi, di votare a Roma per la privatizzazione dell’acqua e di strillare in Padania contro l’acqua ai privati, o di approvare con Zaia ministro norme ultra-centraliste in materia di ritorno al nucleare salvo poi irriderle qualche giorno dopo con Zaia governatore del Veneto. Questo gioco sembra avere perso di efficacia, la Lega di lotta e di governo frana da Novara a Pavia, da Milano alla stessa Varese dove pure riesce a salvare il suo sindaco.
Ma il terremoto elettorale fa giustizia anche di alcuni luoghi comuni largamente frequentati nel centrosinistra. Come il ritornello che destra e sinistra siano categorie ormai prive di senso. Non hanno senso, sicuramente, un’idea di destra e un’idea di sinistra che restano imprigionate nel Novecento, ma raramente un risultato elettorale ha evidenziato con tanta chiarezza a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Trieste, la dialettica tra due visioni polarizzate di ciò che serve al buon governo delle città e del Paese. E poi, questo davvero lo speriamo, la sconfitta del centrodestra spazza via un’altra storiella mai verificata nei fatti eppure durissima a morire: che il centrosinistra per essere competitivo debba nascondersi dietro la faccia di leadership moderate. E’ vero quasi il contrario: i successi più vistosi e sorprendenti li abbiamo ottenuti dove ci siamo affidati a leader radicali, a figure – Pisapia, De Magistris, Zedda – che da una parte sono tutt’altro che “impolitiche” (forse sta declinando anche il”mito” del candidato prestato dalla società civile?) ma che sono incarnate da veri outsider, lontani dal cursus honorum degli apparati di partito, portatori di visioni di profondo cambiamento, di decisa discontinuità , di “buona politica”. Figure, va detto, senza esperienza amministrativa alle spalle, e che ora devono dimostrarsi all’altezza della prova del governo; e però politici capaci, questo è evidente, di calamitare i voti cosiddetti moderati assai meglio degli stessi candidati centristi: Pisapia preferito alla Moratti – così dicono le analisi elettorali dei risultati del primo turno – dal “popolo delle partite Iva”, De Magistris plebiscitato dagli elettori del Terzo Polo.
Queste leadership, dunque, sono state vincenti non perché segnate da un’impronta antagonista o estremista, tant’è che il loro successo non è accompagnato da analoghi exploit di Sel o dell’Italia dei valori, ma per il loro carattere innovativo: lo stesso sapore di novità , di rifiuto delle candidature di apparato, che ebbe tre anni fa la vittoria imprevista di Matteo Renzi nelle primarie di Firenze. La riuscita elettorale di tutti questi “laboratori”, pure per una parte nati fuori dal Pd, evoca assai bene l’originaria “vocazione maggioritaria” del Partito democratico fatta dell’ambizione di dare forma e forza a un riformismo radicale, nutrito di parole e valori – ambiente ed economia verde, nuovi diritti, bisogni giovanili, buona politica, le primarie come strumento irrinunciabile per un grande partito popolare – certo generici, come sono sempre le basi per costruire un’identità politica, ma contemporanei. Da qui, ci auguriamo, ripartirà il Pd, e allora davvero queste belle giornate possono annunciare un nuova, bella e lunga stagione.
Roberto Della Seta Francesco Ferrante