GREEN ECONOMY

Guardiagrele (Ch), venerdì 17 luglio 2009
 

SEMINARIO ESTIVO DI SYMBOLA
 

Green economy: esperienze e prospettive
Francesco Ferrante, vicepresidente Kyoto Club
 

Siamo nel pieno di una grave crisi economica, di cui forse i mesi peggiori sono ancora davanti a noi: come affrontarla? Si può, nello stesso tempo, rimediare ai guasti peggiori della crisi, difendere i più deboli che perdono lavoro, le imprese in difficoltà   e insieme pensare al futuro e dare nuove opportunità  al sistema affinché si possa uscire dalla crisi con un “nuovo benessere” e una migliore qualità  della vita per le persone? Per rispondere a questa domanda in tutto il mondo – dagli Stati Uniti all’Europa, ma anche nei paesi emergenti ,dal Brasile all’India, alla Cina – ci si sta rivolgendo alla “green economy”, a quell’economia che punta sull’innovazione tecnologica, nel comparto energetico innanzitutto – efficienza e fonti rinnovabili – ma anche ad esempio su nuovi sistemi di mobilità  e trasporto, applicando l’information technology anche in questo campo. Una “green economy” parente stretta della “soft economy”  teorizzata da Ermete Realacci e che è alla base della stessa nascita di Symbola, e nella quale a pieno titolo vanno considerate quelle imprese che puntano sulla valorizzazione di “beni” tradizionali come ad esempio quelli di cui il nostro Paese e l’Abruzzo, dove teniamo questo seminario, sono ricchissimi: paesaggio, natura, cultura, tradizioni eno-gastronomiche.
 

Non a caso il progetto “banca delle risorse”, che Legambiente ha voluto lanciare insieme all’Anci all’indomani del territorio con l’obiettivo di incrociare le richieste dei comuni abruzzesi colpiti dal sisma con le offerte di solidarietà  provenienti da tutta Italia, sta incontrando i primi successi proprio dall’attenzione di quelle aziende che lavorando sulla qualità  hanno anche un elevato tasso di responsabilità  sociale.
 

Sul piano globale, lo straordinario impatto che sta avendo sulla scena mondiale l’avvento di Barak Obama ha tra l’altro anche il merito di rendere evidente che la strada per costruire una società  più equa e giusta sia sul piano interno – si pensi alla vera rivoluzione che il Presidente Usa propone nel sistema sanitario di quel Paese – che a livello globale – le politiche di pace, quelle di cooperazione e rispetto verso l’Africa – sono un tutt’uno con le politiche ambientali. E infatti nel proporre l’introduzione del sistema “cap and trade” per l’anidride carbonica, un sistema che quando definitivamente approvato provocherà  una vera e propria rivoluzione nel modo di produrre della più grande economia del mondo,  temi etici – “noi ricchi dobbiamo assumerci l’onere di fermare la febbre del pianeta che abbiamo causato e di cui pagano le maggiori conseguenze i paesi poveri” – andavano a braccetto con quelli di convenienza – “noi americani dobbiamo liberarci dalla dipendenza dal petrolio e dai paesi che lo producono”.
E dobbiamo anche riflettere su un’altra novità  che sta avvenendo nel paese che già  oggi è il grande inquinatore e che sempre più peserà  nell’economia mondiale: la Cina. E’ vero che quel paese, insieme agli altri emergenti come l’India e il Brasile, è il più riluttante a firmare accordi internazionali vincolanti sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, ed è vero che il loro approccio di fronte alla richiesta di riduzione di quelle emissioni è stato sino adesso del tipo: “ma che volete? Avete inquinato sino adesso e siete i responsabili di questo straordinario aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera perché avete pensato esclusivamente alla vostra ricchezza e ora che toccherebbe a noi dare ai nostri popoli automobili, elettrodomestici, in alcuni casi anche solo servizi essenziali quali la luce elettrica nelle abitazioni, volete che ci fermiamo noi? Non se ne parla proprio”.
Ma il loro atteggiamento sta cambiando e proprio la Cina – grazie alle sue dimensioni – è diventato rapidamente il maggior produttore di energie rinnovabili al mondo, tanto che negli Usa e in Europa si sta iniziando a diffondere la paura che anche su quelle tecnologie su cui sino adesso ci ritenevamo all’avanguardia insieme al Giappone, gli emergenti grazie alla loro straordinaria dinamicità  e rapidità  possano sopravanzarci.
Anche per questo sarebbe tanto più necessario in questa parte del mondo e nel nostro Paese in particolare investire sempre di più sull’innovazione per potere giocare un ruolo importante in questa nuova economia, partendo dalla valorizzazione di quelle eccellenze che già  abbiamo in casa.
 

Il nostro Paese ha infatti grandi numeri per eccellere nello sviluppo sostenibile: dalle piccole e medie imprese del made in Italy, all’agroalimentare di qualità , al turismo, la nostra forza economica, la nostra capacità  competitiva si basano non sulla quantità  ma sulla qualità , la bellezza, la bontà  di ciò che produciamo e che offriamo al mondo, e dunque recano un segno intrinsecamente ecologico. L’ultimo esempio, forse il più vistoso, di questa vocazione “verde” dell’Italia è nel salvataggio della Chrysler affidato da Barak Obama alla Fiat. Da sempre la specialità  della Fiat è stata produrre automobili piccole e a bassi consumi, e questa vocazione produttiva oggettivamente ecologica ne fa oggi, tra le case automobilistiche, quella con più futuro. Ma gli esempi sono innumerevoli: dal vino italiano che nel 2008, malgrado la crisi, ha visto crescere ulteriormente il valore del suo export (sebbene la quantità  prodotta sia quasi la metà  di vent’anni fa) confermandoci come la prima potenza vinicola del mondo, alla chimica verde delle bioraffinerie, quella che grazie anche ad intelligenti ed innovativi accordi con gli agricoltori ricava dal mais le plastiche biodegradabili che ha in un’azienda italiana – la Novamont – il suo campione mondiale.
 

Dalla ricerca ITALIA si possono trarre numeri interessanti per quanto riguarda il settore agro alimentare.
 

Siamo al primo posto in Europa nella graduatoria dei prodotti Dop e Igp con 173 prodotti certificati, seguiti dalla Francia con 161, quindi dalla Spagna con 117.
 

Nel 2008 le aziende agricole dedite alla filiera corta sono salite a 60.700, con una crescita del 6% rispetto al 2007 e confermando il trend, ancora più positivo, registrato nel 2005-2006 (+18,3%). Se si considera poi il periodo 2000-2007, si rileva un tasso di crescita del 57%. Il giro di affari del settore sale invece a 2,7 miliardi (+8% rispetto all’anno precedente), trainato soprattutto dalla produzione di vino (43%, con 21.400 aziende), ortofrutta (23%, con 18.840), carne e salumi (8%, con 4.900 aziende), formaggi e latte (10.500 operatori). La vendita diretta contraddistingue comunque nel nostro Paese anche la produzione di olio (10%, con 7.750 aziende), miele (3%, per 4.850 aziende), piante e fiori (7.200 operatori).
 

L’Italia è leader europeo per la diffusione del metodo della produzione biologica. Nel nostro Paese opera circa un terzo delle imprese biologiche europee e si colloca un quarto della superficie bio comunitaria. Rilevante la posizione italiana anche nel panorama mondiale; in termini di superficie- 1,15 milioni di ettari –  essa si colloca infatti al quinto posto preceduta soltanto da grandi Paesi per estensione quali l’Australia, Cina, Argentina e Stati Uniti. Il giro d’affari complessivo del mercato biologico viene stimato pari a circa 1.900 milioni di euro. Il 4% del fatturato del settore viene esportato, per un valore, nel 2007, di circa 900 milioni di export. Oltre alla positiva propensione all’export, il settore bio evidenza segnali di vitalità  legati alle caratteristiche delle imprese, condotte nel 65% dei casi da operatori con un’età  inferiore ai 50 anni, altamente scolarizzati (con una percentuale dei laureati, in particolare, del 17%) ed orientati all’innovazione tecnologica. 
 

Ma ormai anche nel campo delle energie rinnovabili il sistema italiano si è finalmente rimesso in moto. Ancora il gap nei confronti degli altri paesi europei  è ampio ed è dovuto ai nostri colpevoli ritardi, ma grazie anche alla riforma del sistema di incentivazione che abbiamo realizzato con la finanziaria  del 2008 – la seconda del Governo Prodi – lo scorso anno abbiamo raggiunto un record nella produzione da eolico , oltre 6 Twh, e finalmente abbiamo iniziato a istallare quantità  significative di solare fotovoltaico (ormai abbiamo superato i 500 Mw). Insomma iniziamo finalmente ad essere in linea con ciò che avviene in Europa e nel mondo  in questo campo: nel 2008 in Europa sono stati istallati impianti eolici per 8000 Mw, contro i 7000 Mw di centrali a gas, e anche il fotovoltaico ha raggiunto uno spettacolare risultato di 4000 Mw; nel mondo nel 2008 per la prima volta gli investimenti in fonti rinnovabili (140 miliardi di dollari) hanno superato quelli nel tradizionale fossile (110 miliardi di dollari).
Questo dinamismo sulle istallazioni, anche in Italia si sta trasferendo finalmente sulla ricerca e sull’innovazione nelle quali alcune nostre imprese stanno già  svolgendo ruoli importanti.
Una breve e certamente non esaustiva rassegna di esperienze innovative e di successo: la Angelantoni sul solare termodinamico, il cui dinamismo ha attratto gli investimenti anche di una multinazionale quale la Siemens (la tecnologia ideata da Rubbia, messa punto dall’Enea è stata successivamente trasferita sul mercato proprio grazie ad Archimede Solar Energy (Ase), azienda del Gruppo Angelantoni,  unico produttore al mondo di tubi ricevitori solari a sali fusi per le centrali del solare termodinamico); la siciliana Moncada, uno dei leader sull’eolico che ha realizzato una turbina tutta italiana; le aziende – spesso spin off universitari, Ferrara e Parma tra gli altri – impegnate nella ricerca di alternative all’utilizzo del silicio come componente delle celle fotovoltaiche; le imprese come la Giacomini, che nata come produttrice di singoli componenti per il riscaldamento e la distribuzione sanitaria, ha successivamente specializzato la propria produzione, puntando sul risparmio energetico e sullo sviluppo di nuovi sistemi ad alto contenuto tecnologico destinati alle energie rinnovabili ; le aziende specializzate in tecnologie innovative per il risparmio nella pubblicazione illuminazione (l’Umpi Elettronica di Cattolica, la Sorgenia Menowatt che ha la sua base operativa nelle Marche, ma anche i produttori di led, la cui sperimentazione a Torraca ha raggiunto interessanti obiettivi); la Faam di Monterubbiano (ancora nelle Marche), leader europeo per la produzione di batterie e veicoli elettrici, le sue macchine elettriche da oltre un decennio puliscono le ramblas di Barcellona, mentre l’estate scorsa hanno debuttato alle Olimpiadi di Pechino per contribuire allo spostamento degli atleti e al monitoraggio ambientale.
Insomma il nostro Paese offre non solo opportunità , ma anche esperienze concrete su cui basare politiche industriali di rilancio che sappiano stimolare l’innovazione: servono però scelte decise e coraggiose. Serve in particolare puntare a una radicale riconversione del nostro sistema energetico verso l’efficienza, il risparmio, le fonti rinnovabili, come risposta alla crisi economica e a quella climatica e come motore di sviluppo, occupazione, progresso tecnologico. Non serve affatto invece, anzi è dannosissimo, accarezzare l’idea, peraltro velleitaria, di tornare al nucleare del passato, pericoloso e costosissimo.
 

Il nucleare è davvero troppo caro e l’ultima conferma proviene dal rapporto del Massachusetts Institute of Technology di Boston (Mit). Il documento del Mit sottolinea infatti che, nonostante l’attenzione sul tema sia cresciuta e nuove politiche di rilancio siano state annunciate in molti paesi, lo sviluppo del nucleare è in calo a livello globale. Ad eccezione dell’Asia, e in particolare di Cina, India e Corea, esistono infatti pochi progetti concreti. Negli Stati Uniti non vi è attualmente alcun cantiere aperto ed il lento sviluppo del nucleare, rispetto agli annunci e alle previsioni, rende meno probabile lo scenario di espansione ipotizzato nel 2003 dallo stesso Mit (1000 Gwe nel 2050 di cui 300 negli USA). Ma l’aspetto forse più significato del rapporto del Mit è la netta affermazione per cui in un’economia di mercato il nucleare non è competitivo rispetto al gas o al carbone. I costi del capitale e i costi finanziari delle centrali nucleari continuano ad essere infatti significativamente incerti. Dal 2003 i costi di costruzione delle centrali nucleari sono aumentati drasticamente, con una media del 15 per cento all’anno in più come dimostrano le esperienze in Giappone e Corea.  Nel 2007, secondo i nuovi dati del Mit, realizzare una centrale nucleare costa 4000 dollari per kW contro i 2000 di quattro anni prima. Un aumento molto più consistente di quanto accaduto nel carbone e nel gas attualmente stimate a 2300 dollari e 850 dollari a kW contro i 1300 e 500 del 2003. Una crescita che si ripercuote inevitabilmente anche sui costi finali dell’energia: dai 6,7 centesimi a kilowattora stimati nel 2003 il nucleare è passato ad un costo di 8,4 cent a kilowattora contro i 6,2 del carbone ed i 6,5 del gas. E’ quindi il Mit, non solo Legambiente e Greenpeace, che si incarica di seppellire l’idea che ricorrere al nucleare sarebbe “conveniente”.
Inoltre è proprio di questi giorni che Areva, l’azienda francese costruttrice di centrali nucleari cui il nostro Governo vorrebbe affidare il compito anche in Italia, ha appena chiesto al Canada 4500 euro per kW – ben di più quindi anche delle stime del Mit – per realizzare un impianto in quel Paese e causando ovviamente l’immediato stop del progetto.
Questi costi imprevedibili e comunque esorbitanti sono la causa della recente richiesta venuta dall’Enel di stabilire una tariffa “minima” per la vendita dell’elettricità  – una richiesta ovviamente non recepibile in quanto evidentemente contro il mercato e contraria agli interessi di consumatori e aziende – in modo da poter “rilanciare” il nucleare in Italia.
 

La recente approvazione in parlamento del cosiddetto DDl Sviluppo all’interno del quale era contenuto appunto il “ritorno al nucleare” è quindi proprio l’esempio di ciò che non si dovrebbe fare. Al contrario andrebbe perseguita con più decisione la strada tracciata dall’introduzione del credito di imposta del 55% per per la riqualificazione energetica nell’edilizia e che ora andrebbe esteso, come chiedono anche le Regioni, agli adeguamenti antisismici, una strada che ha già  permesso il risparmio in due anni di 2500 GWh di energia elettrica ed è stato un sostegno concreto a un settore in difficoltà . Un esempio positivo di politiche incentivanti su cui nei prossimi mesi dovremo mobilitare in uno sforzo comune associazioni, imprese, cittadini per ottenere di più. Molto di più.
 

C’è poi una riforma più generale che andrebbe affrontata con coraggio e che molto potrebbe dire al mondo che più concretamente si impegna nell’innovazione e nella “green economy” e che potrebbe disegnare un futuro migliore per tutto il Paese: una riforma fiscale che alleggerisca finalmente il prelievo su lavoro e imprese e che scoraggi lo spreco di materie prime e le produzioni più inquinanti. Così si stanno muovendo l’Europa e gli Stati Uniti, mentre finora in Italia è accaduto il contrario: tra il 1997 e il 2007 il prelievo fiscale “ambientale” (su energia, auto, acqua, rifiuti) è diminuito, passando dal 3,5% al 2,7% del Pil, e la tassazione energetica su ogni tonnellata equivalente di petrolio consumata è scesa del 27% (da 213 a 155 euro-2000): ritornare ai livelli di dieci anni fa vorrebbe dire generare un’entrata aggiuntiva di 13 miliardi di euro che potrebbero venire detratti dalla fiscalità  a carico del lavoro e delle imprese avvantaggiando la parte più innovativa e dunque strategica dell’economia reale. 
 

In conclusione, siamo convinti che se imbocchiamo la strada della green economy creeremo le condizioni per uscire dalla crisi migliori di prima perché quel mix di qualità  locale e innovazione potrà  offrire nuovo sviluppo e nuovo benessere ai territori e alle comunità , ma vogliamo anche riaffermare che se è vero che la difesa dell’ambiente e la promozione di questa economia è una straordinaria occasione da cogliere per tutto il sistema, è altrettanto vero, e forse persino più importante, che la battaglia in difesa del Pianeta e per il nostro futuro è un bene in sé che vale la pena combatterla comunque.