Futuro prossimo

Articolo pubblicato sul mensile “La Nuova Ecologia”

In uno splendido discorso pronunciato oltre 40 anni fa  Robert Kennedy spiegava bene come le aride cifre riassunte dal Prodotto Interno Lordo non potessero raccontare il benessere, la felicità  di un popolo. Noi ambientalisti lo sappiamo bene e da qui lo sforzo, anche teorico, di ridimensionare il ruolo del Pil quale unico “faro” da seguire nelle scelte di politica economica. Uno sforzo recentemente premiato dalle riflessioni di molti, da Stieglitz allo stesso Presidente Sarkozy. Ciò non toglie che a volte la brutalità  di quello strumento un po’ rozzo può ancora aiutare: il Pil in Italia nel 2009 è diminuito del 5%, il peggior dato mai registrato dal 1971. E se incrociamo quel numero con le cifre ancor più drammatiche, perché dietro i numeri si celano le vite concrete delle persone, riferite all’occupazione – 307mila posti di lavoro persi in un anno, disoccupazione che secondo l’Istat raggiunge l’8,6%, e per la Cgil addirittura oltre l’11%, un milione e mezzo in cassa integrazione,  l’esercito di chi cerca lavoro sopra 2,1 milioni di persone – forse capiamo quanto la crisi economica iniziata alla fine del 2008 stia dando i suoi frutti avvelenati e rischia di diventare vera e propria crisi sociale devastante quest’anno. Il 2010 si è aperto con due crisi aziendali diventate simbolo del dramma connesso al rischio di perdere il lavoro di migliaia di persone: la Fiat di Termini Imerese e l’Alcoa in Sardegna. Due multinazionali che valutano i costi di produzione, li considerano insostenibili e decidono di chiudere mettendo letteralmente per strada migliaia di lavoratori e le loro famiglie. Mentre scrivo, a causa della minacciata chiusura della Basell – una multinazionale che produce poliproprilene – è a rischio la sopravvivenza stessa dell’intero polo chimico di Terni che ha fatto la storia di quella città . Non voglio qui discutere le concrete azioni di Governo, a mio avviso largamente insufficienti, messe in campo per contrastare esiti così drammatici, ma piuttosto riflettere su un’altra questione simbolica abbastanza evidente in Fiat e in Alcoa e a Terni e che però non mi pare adeguatamente sottolineata nell’asfittico discorso pubblico italiano. Quelle produzioni in crisi sono esemplari della storia industriale del secolo scorso, le automobili, l’industria  e la chimica “pesant”, su cui si è costruito lo sviluppo economico e il benessere delle nostre società  e che però adesso sono irrimediabilmente destinate a contrarsi. Non siamo noi, ambientalisti un po’ estremisti, magari amanti di bici  e pedoni e “fissati” sulla riduzione delle emissioni di CO2, a dire che – almeno in questa parte del mondo – si produrranno sempre meno automobili, ma qualsiasi analista finanziario e industriale: è il mercato bellezza, in questo caso ormai saturo. Non è qualche bucolico amante della natura a spiegare che produzioni così energivore quale quella dell’alluminio hanno necessità  profonde di riconversione. Allora forse, oltre ad affrontare nell’immediato il destino di quei lavoratori e a trovare una qualche soluzione tampone che ne assicuri il futuro prossimo, un classe dirigente che voglia davvero definirsi davvero tale dovrebbe affidarsi a uno sguardo un po’ più lungo e pensare a una politica industriale del nostro paese che punti con decisione e senza indugi a una nuova “rivoluzione” che sappia premiare l’innovazione, in cui per esempio la chimica dei nuovi materiali, quella della “plastica biodegradabile” – che guarda caso proprio a Terni è presente – svolga per il nostro sistema il ruolo che il Moplem ebbe negli anni 60, cioè un grande volano per l’intero settore. Una rivoluzione in cui la cosiddetta green economy, che nel nostro paese non può che essere strettamente connessa alla  valorizzazione del Made in Italy e di tutto quello straordinario patrimonio che custodiamo, diventi centrale nelle scelte di politica industriale e non, nella migliore delle ipotesi, un orpello o addirittura un fastidioso ostacolo da rimuovere. Insomma forse pensare di sfruttare il polo di Termini Imerese e la preziosa vocazione industriale di quel territorio non per ostinarsi a costruire automobili, ma per farne il luogo d’eccellenza di ricerca e produzione per il settore delle fonti rinnovabili e dell’efficienaza energetica , mostrerebbe più lungimiranza. Ma per avviare la “rivoluzione” un punto è essenziale quello di uno straordinario rivolgimento dalle sue fondamenta dell’attuale sistema fiscale. Legambiente presentò un suo piano in questo senso addirittura nel 1993. Ormai non c’è più tempo da perdere e bisogna abbattere tutti i tabù che hanno impedito sino adesso di spostare il peso fiscale dai redditi di lavoro e di impresa e caricarlo su consumi di materia e di energia. Questa la strada da percorrere con audacia e senza più indugi, solo così affronteremo la drammatica crisi in atto con qualche ‘preveggenza” e con quella “visione” necessaria a costruire un futuro migliore.