La prima rata dell’Imu pagata nell’intera provincia di Palermo, 110 milioni e rotti di euro, non basterebbe per acquistare un solo F-35, cacciabombardiere ad alta tecnologia prodotto dalla Lockeed. Bene, anzi male, perché l’Italia di F-35 a suo tempo ne ordinò 131, per una spesa complessiva superiore ai 15 miliardi di euro.
Finora questo mega-investimento è passato pressoché indenne attraverso tutti i decreti Tremonti e Monti di tagli più o meno lineari alla spesa pubblica, attraverso l’indignazione di una bella fetta di opinione pubblica e di decine di associazioni dalla Tavola della pace a Sbilanciamoci, ora attraverso la “spending review”. Unico risultato, l’ordine è stato ridimensionato a 90 arei, con una spesa prevista che a oggi è attestata attorno ai 12 miliardi di euro.
In realtà , la scelta rischia di costarci ancora più caro. E’ ormai prassi costante e anche un po’ abusata agitare lo spauracchio della Grecia e della sua crisi profonda, ma se si parla di spese militari l’esempio greco è veramente paradigmatico. Negli anni della spesa pubblica a briglia sciolta della Grecia appena entrata nell’eurozona, Atene acquistò carri armati, sommergibili e caccia dalla Germania per circa tre miliardi di euro, e dalla Francia navi e elicotteri per più di 4 miliardi. Così, mentre salari e pensioni ellenici vengono tagliati del 25% e secondo l’Unicef torna nel Paese lo spettro della malnutrizione infantile, per effetto di quegli impegni la Grecia quest’anno ha visto la sua spesa militare crescere del 18% rispetto al 2011.
Allora, pretendere qui da noi una revisione drastica del programma di acquisto degli F-35 non è, almeno non è soltanto, una richiesta di stampo pacifista. E’ soprattutto un’esigenza elementare di responsabilità verso l’Italia e verso gli italiani.
La conferma dell’acquisto di 90 F-35, infatti, più che servire alla modernizzazione dei nostri sistemi di difesa, attiene alla storica commistione di interessi tra l’industria bellica (un bel pezzo della quale è nelle mani, oggettivamente pubbliche, di Finmeccanica) e le scelte della politica.
L’Italia non ha nessun bisogno di 90 o 50 o 30 super-caccia bombardieri F-35, e se rinunciasse ad acquistarli non è vero che dovrebbe pagare, come sostengono taluni osservatori “interessati”, penali salatissime. L’uscita del nostro Paese dal programma non comporterebbe oneri ulteriori rispetto a quelli già stanziati e pagati per la fase di sviluppo del progetto: così prevede l’accordo fra i Paesi compartecipanti sottoscritto anche dall’Italia con la firma del 7 febbraio 2007. Al momento la nostra flotta di aerei militari conta una cinquantina di nuovissimi Eurofighter, che nel giro di pochi anni saliranno a 96, una sessantina di Amx, una settantina di Tornado aggiornati, quindici F-16 americani in affitto e sedici Harrier a decollo verticale sulle due portaerei della Marina, anch’essi aggiornati. “Aggiornati” significa che la loro vita operativa è stata prolungata almeno fino al 2025.
Allora perché mai lo Stato italiano, nel pieno della crisi economica e nella scarsità sempre più acuta di risorse pubbliche, dovrebbe destinare svariati miliardi a un programma la cui unica, vera utilità è per la lobby dell’industria bellica?
Del resto, l’F-35 della Lockeed è in crisi in tutto il mondo: la recessione economica da una parte, i numerosi e crescenti problemi tecnici del “prodotto” dall’altra, hanno spinto diversi Paesi, tra questi anche grandi Paesi come il Canada, a cancellare i loro ordini.
Nel marzo 2012 un documento della Corte dei conti americana ha definito l’F-35 il più costoso fallimento della storia militare degli Stati Uniti. L’Italia faccia presto ad accorgersene, o il fallimento potrebbe contagiarci.
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante