Relazione di Francesco Ferrante
(Segreteria nazionale Legambiente – Vicepresidente Kyoto Club)
Seminario estivo di Symbola
Monterubbiano 16-17 luglio 2010
In questi giorni a Monterubbiano discutiamo non solo di quali siano le strade migliori da percorrere per affrontare la crisi, ma anche le condizioni necessarie per costruire un futuro migliore e più desiderabile, una società più giusta e con più coesione sociale. Perché solo attraverso una radicale innovazione nel nostro modo di produrre e consumare passa la strada per competere nella globalizzazione. L’alternativa è solo quella, sciagurata, e che purtroppo inizia ad affermarsi in alcuni settori della classe dirigente del nostro Paese, di riduzione dei diritti e del livello del benessere in questa parte del mondo per pareggiare verso il basso le condizioni di vita e di lavoro che si realizzano da noi e quelle in essere nei Paesi emergenti. Credo si debba sconfiggere questa ipotesi , praticandone con decisone una tutta diversa. Vogliamo indagare – e in questo utilissimo è il pregevolissimo lavoro di ricerca che Symbola e Unioncamere ci hanno messo a disposizione con “Green Italy” – se già oggi sono presenti nella società reale elementi concreti di novità , di movimento, “energie e talenti”, come recita il titolo di questa sessione, che ci permettano di guardare al futuro con speranze basate su fatti.
La green economy, ovviamente, non è solo energia, fonti rinnovabili e risparmio energetico. I “confini della Green Italy” sono già oggi molto più ampi – la mobilità sostenibile e gli investimenti che diventano sempre più importanti in questo settore, lo sforzo di innovazione sui materiali e i processi di produzione, la “nuova chimica”, la valorizzazione di quella che Ermete Realacci ha “battezzato” come soft economy italiana con il suo straordinario patrimonio di cultura, paesaggio, natura, bellezza, tradizioni enogastronomiche – ma l’impetuoso passo avanti fatto in questi ultimi anni nel settore energetico, forse meglio che qualsiasi altro esempio può aiutarci a percorrere quella strada per un futuro migliore.
Voglio qui richiamare solo alcuni dei numeri che trovate nella ricerca.
All’inizio degli anni 90 del secolo scorso, agli albori dello sviluppo industriale delle fonti rinnovabili, questo Paese era all’avanguardia sia nell’eolico che nel fotovoltaico. Poi sciaguratamente per colpa di una politica troppo distratta , ma anche di un sistema in cui le nostre grandi imprese sembrano costituzionalmente poco propense a rischiare, abbiamo perso il treno che invece altri Paesi – la Germania, la Spagna, i paesi scandinavi – hanno saputo cogliere con lungimiranza. Per anni siamo rimasti fermi con il risultato che gli altri andavano avanti e competevano molto meglio nell’economia che si globalizzava: la Germania costruiva una filiera industriale che oggi occupa oltre 300.000 persone, le grandi imprese spagnole del fotovoltaico e dell’eolico diventavano tra le più grandi multinazionali del settore, i danesi vendono turbine eoliche in tutto il mondo. Ancora nel 2005 a una Conferenza dell’Onu sulle energie rinnovabili organizzata a Pechino colpiva quanto quei Paesi fossero presenti con i loro prodotti in quello che stava già diventando il mercato in espansione di gran lunga più importante e la totale assenza del nostro sistema economico-industriale.
Affrontare i cambiamenti climatici diventava sempre più urgente, la necessità di ridurre le emissioni di CO2 sempre più impellente e un po’ dappertutto nel mondo si affermava l’idea che muovere verso quella straordinaria rivoluzione costituita dalla costruzione di società “low carbon”, in cui si usciva dall'”era del fossile”, quel fossile su cui tutti, chi più chi meno, nel corso degli ultimi due secoli abbiamo realizzato il nostro benessere, era una straordinaria sfida, ma anche la migliore scommessa per il futuro e per affrontare la crisi. Tanto che il recente rapporto McKinsey racconta come praticabile l’obiettivo – stupefacente fino a pochissimo tempo fa – di un’Europa in cui l’energia elettrica verrebbe prodotta esclusivamente da rinnovabili nel 2050! E l’Agenzia federale tedesca (non qualche manipolo di estremisti ambientalisti), la settimana scorsa nel suo rapporto ha approfondito come l’obiettivo del 100% di rinnovabili al 2050 sia raggiungibile anche facendo addirittura simulazioni ora per ora in modo da respingere eventuali critiche basate sulla presunta aleatorietà di molte rinnovabili (“non sempre c’è vento”, “il sole di notte non c’è”, ecc.): si può fare.
In Italia non è andata così per troppo tempo e ancora oggi, purtroppo, siamo costretti ad attardarci in polemiche con i “negazionisti” dei cambiamenti climatici che ci fanno perdere solo tempo e risorse preziose e con chi ritiene le rinnovabili tuttalpiù una nicchia anche da difendere ma mia un settore industriale “vero”.
Negli ultimi due anni però finalmente le cose sono cambiate e anche noi abbiamo iniziato a correre. Grazie alla riforma degli incentivi portata a termine nella scorsa legislatura, una riforma “europea”, con meccanismi analoghi a quelli operanti nei paesi citati prima e che oggi qualche miope vorrebbe scardinare (questo e non altro è stato il tentativo del Governo di cancellare con l’articolo 45 della finanziaria l’obbligo di ritiro dei certificati verdi da parte del GSE), in Italia si è finalmente iniziato a montare pannelli e a realizzare parchi eolici.
I risultati sono importanti: nel 2009 un chilowattora su quattro di energia elettrica prodotta in Italia proveniva da fonti rinnovabili, l’eolico ha contribuito con oltre 6,6 TWh, ad oggi abbiamo istallato oltre 1300 MW di pannelli solari fotovoltaici. E se è vero come ci hanno rivelato i recenti dati dell’Istat che il 10,7% dei consumi totali di energia vengono da rinnovabili, l’obiettivo europeo del 17% al 2020 non appare più un miraggio ma un target raggiungibile e concreto.
Certo, complice sgradita di questi exploit percentuali è stata la crisi economica che ha ridotto i consumi totali ed è auspicabile che per il futuro cresca molto di più il numeratore, e che invece il denominatore di questa frazione diminuisca piuttosto per virtuose pratiche di efficienza energetica che non per “riduzione da crisi”. Ma il dato, che emerge dal Rapporto “Comuni rinnovabili” di Legambiente, per il quale in oltre 7000 degli 8000 Comuni italiani è ormai presente un impianto che produce energia da fonte rinnovabile, è un fatto incontrovertibile.
E’ evidente che non possiamo fermarci , ma che anzi dobbiamo accelerare. Il Piano per le rinnovabili che il Governo in questi giorni si accinge a mandare a Bruxelles quasi in tempo con le indicazioni europee (avremmo dovuto farlo entro il 30 giugno, ma per le abitudini italiane qualche settimana di ritardo può essere considerata un successo) traccia una strada e ha il merito, finalmente, di scrivere numeri appunto “europei”. Sconta forse ancora troppe prudenze, ad esempio sul fotovoltaico e sul biogas, e dovremo lavorare nei prossimi mesi per correggerlo in quei punti, ma ciò che è necessario è che nella prossima riforma dei meccanismi di incentivazione non si facciano passi indietro, ma anzi si realizzi quella connessione e programmazione fra risorse da mettere in campo e obiettivi da raggiungere ancora assente.
Non si tratta qui di difendere livelli di incentivi alti, anzi va salutato positivamente il nuovo conto energia sul fotovoltaico – finalmente approvato settimana scorsa con sei mesi di ritardo! – che prevede una riduzione graduale – sino al 30% – degli stessi, (più forte per quelli a terra e più contenuta per quelli sui tetti) ma piuttosto di smontare un argomento cavalcato con troppa improvvisazione da molti, e con qualche peloso interesse da alcuni, per cui l’ammontare complessivo degli incentivi per le fonti rinnovabili sarebbe insostenibile e andrebbe ridotto. Basti pensare che il famigerato articolo 45 si proponeva di ridurre di circa 500 milioni la bolletta elettrica pagata da cittadini e imprese, mentre in Germania con lo stesso meccanismo sono destinati da anni alle fonti rinnovabili oltre 5 miliardi di euro (10 volte tanto!) e in quel paese non esistono né cittadini , né imprese che si lamentino visto che sono ben consci del volano costituito da quel settore per l’intero sistema. Sarebbero ben altri i costi impropri e improduttivi che pesano sulle nostre bollette che andrebbero rapidamente cancellati: circa 1 miliardo all’anno ci costa il mancato collegamento tra Sicilia e Calabria (soldi che gentilmente regaliamo a chi ha impianti di produzione di energia elettrica nell’isola); oltre 400 milioni gli oneri per il nucleare che da decenni paghiamo per quella disgraziata avventura che oggi qualcuno vorrebbe persino riproporre; più di 100 milioni per una “tassa occulta” nascosta nelle pieghe degli oneri di sistema; e che dire dell’IVA che tutti noi paghiamo, regalandola alle casse dello Stato senza alcun ritorno, su quelle voci della bolletta?
Ciò che serve quindi al settore delle rinnovabili è quindi certezza degli incentivi che non vengano continuamente messi in discussione – ed è per questo da respingere l’ipotesi di spostare il peso dalle bollette alla fiscalità generale, una scelta che metterebbe alla mercè del Ministro del Tesoro di turno e della sua inevitabile fame di risorse ad ogni finanziaria gli incentivi stessi – e che anzi prevedano una curva di riferimento almeno sino al 2020, magari prevedendo di estendere anche nel nostro Paese il meccanismo feed in, attualmente previsto solo per il fotovoltaico, per tutte le fonti rinnovabili, ovviamente con coefficienti moltiplicativi diversi a seconda delle tecnologie. Inoltre servono regole più certe per le autorizzazioni, che oggi sono il vero freno a uno sviluppo più forte degli impianti. Da questo punto di vista va salutata certamente con favore la recente approvazione, che pur arriva con troppo ritardo, da parte del Governo e della Conferenza unificata delle linee guida sulle autorizzazioni. Ora sta alle Regioni recepirle e non frapporre più ostacoli, sorvegliando allo stesso tempo che le procedure siano trasparenti e impediscano infiltrazioni criminali , che come è noto dalle cronache di questi giorni, provano a “inquinare” anche questo settore pulito come hanno fatto in altri campi.
Eolico ovunque ci sia vento a sufficienza facendo attenzione al suo inserimento nel delicato paesaggio italiano; fotovoltaico sui tetti, a partire da quelli dei capannoni, ma anche a terra in zone industriali e con molta cautela e attenzione alle primarie esigenze dell’agricoltura, nei terreni agricoli; promozione del nuovo solare a concentrazione e termodinamico; diffusione del solare termico (per il riscaldamento dell’acqua) ad oggi davvero troppo poco usato nel “paese del sole”; biomasse da filiera corta e ampio ricorso al biogas (anche da inserire in rete): questi gli obiettivi principali da perseguire nei prossimi mesi e anni.
L’esperienza di questi due anni, tutto sommato positivi, ci dice inoltre che è proprio costruendo le condizioni per realizzare una filiera industriale degna di questo nome che si promuove la ricerca. Sono finalmente oggi numerose le Università , o gli spin off, gli enti pubblici e le aziende private che si stanno muovendo e investendo in questa direzione. E particolarmente interessante è lo sviluppo del solare termodinamico che vede anche protagonisti italiani in quella che si prospetta essere una promettente corsa dei prossimi anni.
Le fonti rinnovabili per loro natura sono “diffuse” e necessitano di pensare un sistema basato sulla generazione distribuita e le smart grid (su cui Terna deve investire di più). Nessun senso ha paragonare, in termini di potenza e di energia prodotta, un campo fotovoltaico a una grande centrale termoelettrica, ma piuttosto immaginare una società dove i cittadini si autoproducono l’energia, gli agricoltori trovano un sostegno reale ai propri redditi così grami, gli artigiani e le piccole e medie imprese possano trovare terreno fertile sui basare il proprio sviluppo è la condizione necessaria, anche se ancora non sufficiente, per avvicinarsi allo stesso tempo a una società che usi di meno i fossili e che sia più “democratica”-
Non è però solo contando sullo sviluppo delle rinnovabili che saremmo in grado di affrontare cambiamenti climatici, creare le condizioni per società a basso tenore di carbonio e vincere la sfida dell’innovazione. Se non operiamo al contempo con decisione e radicalità anche sul fronte dell’efficienza energetica la montagna sarà sempre troppo alta da scalare.
E, ancora partendo dai dati, dobbiamo sapere che nell’ultimo decennio mentre gli altri Paesi hanno fatto sforzi importanti in questo settore, noi siamo rimasti pressoché fermi: fatta 100 l’intensità energetica nel 1997 dell’Italia e degli altri Paesi europei, osserviamo che se in Italia in 10 anni si è ridotta solo di 3 punti percentuali, nell’Europa a 15 è calata di 7, con alcuni balzi all’ingiù spettacolari quali quello della Danimarca (-15) e del Regno Unito (-13). In valori assoluti: in Italia nel 1997 ci volevano 146,96 chilogrammi equivalenti di petrolio per produrre un valore di 1000 euro, e in questa speciale classifica eravamo tra i migliori, superati solo dalla risparmiosa Danimarca a cui servivano solo 132,87 Kep/1000 euro, 10 anni dopo, mentre nel resto d’Europa ma anche negli Stati Uniti (lì si è passati da 229,44 Kep a 189,71 con una riduzione di oltre il 17%, certo favorita dagli alti livelli di sprechi da cui partivano) si scendeva rapidamente, da noi ce ne volevano ancora 142,78, praticamente la stessa quantità che nel secolo scorso.
Allora risulta davvero incomprensibile l’ostinato rifiuto del Governo di prorogare quella misura, il 55% di “sconto fiscale” nelle ristrutturazioni edilizie volte al risparmio energetico, che nei primi due anni è stata utilizzata da oltre 600.000 cittadini, ha messo in moto un giro di affari di oltre 12 miliardi di euro senza pesare sul bilancio dello Stato (perché ha significato anche tanta emersione dal nero), ha rappresentato una boccata d’aria (pulita) per un settore, quello dell’edilizia che più di altri viene colpito dalla crisi, e ha permesso di risparmiare la quantità di energia elettrica prodotta da una grande centrale termoelettrica.
La strada è invece quella di incentivare, nei consumi domestici e in quelli industriali, nell’edilizia e nel trasporto tutte quelle forme più efficienti che sono anche le più innovative e in grado di competere anche a livello internazionale.
Oggi passeremo in rassegna molte di queste best practices, nelle rinnovabili e nell’efficienza, e spero che si possa dare un ulteriore contributo utile a quella ricerca di futuro possibile e desiderabile che al centro di questa nostri tre giorni marchigiana.
Tutto questo si può fare a patto però che si affronti anche il capitolo forse più importante per la costruzione di una nuova economia, di un futuro migliore: il fisco. E’ necessario dire che per tutta la green economy, e per il settore dell’efficienza e delle rinnovabili, per accompagnarci nell’uscita dal “era del fossile”, ma anche per costruire una società più giusta, noi abbiamo bisogno di una rivoluzione anche nel modo in cui intendiamo il fisco. Non si tratta di piccoli aggiustamenti o urlare “meno tasse per tutti” e confondere il mondo con promesse mirabolanti quanto pericolose, quanto piuttosto radicalmente spostare il peso fiscale, che oggi grava tutto su imprese e lavoro, e colpire i consumi di materie e risorse da una parte e le rendite finanziarie dall’altra. Non può essere questa la sede per affrontare questo punto in maniera approfondita ma è certamente questa la strada che mi auguro sapremo imboccare con coraggio e fiducia