Contratto Fiat. Chi dice sì è come Berlusconi

Articolo pubblicato sul quotidiano Il Manifesto

Com’era prevedibile, la “linea del fronte” tra favorevoli e contrari all’accordo Fiat di Pomigliano passa tutta interno al Pd, a riprova della vocazione immancabilmente polifonica del nostro partito. Ci sono democratici che bocciano l’accordo, altri che lo considerano un’eccezione dolorosa ma necessaria, altri ancora che lo invocano come modello.

A noi pare evidente che alcune delle clausole contenute nel documento, soprattutto quella che sospende il diritto di sciopero, siano del tutto inaccettabili. Il punto, questo è ovvio, non è pontificare sul giudizio che esprimeranno i lavoratori chiamati a pronunciarsi sull’accordo: chiunque messo di fronte all’alternativa tra perdita del lavoro e riduzione dei diritti, sceglie il lavoro e qualche diritto in meno.

Il punto è che uno scambio così è irricevibile: il diritto a scioperare non è nella disponibilità  della Fiat e nemmeno in quella del sindacato, è letteralmente indisponibile come ogni diritto costituzionale.

Ma il sì all’accordo di esponenti anche autorevoli del Pd è preoccupante per una ragione molto più di fondo. Conferma che una parte dei gruppi dirigenti del centrosinistra ragiona sulla crisi, sul futuro dell’economia e del welfare italiani, usando le stesse categorie della destra. Riconoscendosi, soprattutto, nelle stesse parole d’ordine: meno regole per chi fa impresa, più flessibilità  e precarietà  per chi lavora.

Questo film è tutt’altro che inedito. Già  negli anni Novanta del secolo scorso, non solo in Italia la sinistra riformista sembrò quasi scavalcare a destra i conservatori nelle lodi alla globalizzazione che da sola, senza lacci e lacciuoli, avrebbe portato più benessere a tutti. Quel pensiero unico è stato prima messo in discussione dai movimenti no-global, poi sconfitto dalla crisi di questi anni che una cosa sicuramente ha detto: il capitalismo senza regole fa male ai diritti delle persone e  delle comunità  e fa male persino a se stesso.

Sarebbe bene che oggi non fosse il Pd a risuscitare quella deriva insensata e autolesionista. Che invece provassimo a mostrarci diversi dai nostri avversari non nel riconoscere i problemi oggettivi che appesantiscono il dinamismo e la capacità  competitiva dell’economia italiana – eccessi di burocrazia, poca concorrenza -, ma nell’indicare le politiche pubbliche necessarie a rendere il nostro Paese più forte economicamente e un po’ più giusto. 

Per esempio, questo sforzo dovrebbe portarci a chiedere ossessivamente almeno tre cose. Che vengano impegnate più risorse per spingere la ripresa. Che gran parte di tali risorse venga concentrata su educazione (scuola, università , ricerca) e “green economy”. Che per finanziare questo sforzo senza pesare sui conti pubblici e per sostenere al tempo stesso un progressivo alleggerimento del carico fiscale sui redditi da lavoro e d’impresa, oggi a livelli esagerati, vengano tassati di più sia i patrimoni reali a cominciare dalle grandi rendite finanziarie e immobiliari, sia il consumo di quell’altro genere di patrimoni costituito dalle risorse naturali e ambientali. 

Forse se martellassimo tutti i giorni su questi tre tasti, cominceremmo ad uscire dall’anonimato politico nel quale il Pd sembra oggi immerso. E gli italiani proverebbero di nuovo il brivido, l’ebbrezza di vedere all’opera un grande partito di opposizione unito nel proporre un’idea di governo alternativa non solo e non tanto a Silvio Berlusconi, ma alla destra e ai suoi valori.