Il rinnovamento generazionale delle élite politiche può avvennire attraverso due strade: per cooptazione, con i “vecchi” che scelgono e battezzano sul campo i propri successori, oppure per vera sostituzione, quando i “giovani” che aspirano a posizioni di leadership scalzano i “padri”. Tra i due modelli corrono varie differenze. Il primo tende a ritardare il ricambio (chi ha il potere non ama farsi da parte), e poi ha un segno molto più conservatore perché in genere i cooptati ereditano, con i posti, anche la visione e la mentalità di chi li ha scelti.
Ma entrambi possono produrre, spesso hanno prodotto, risultati brillanti: per limitare lo sguardo al centrosinistra, appartiene al primo tipo la carriera di Hollande, al secondo quella di Blair o di Obama.
Matteo Renzi dunque non ha inventato nulla, semplicemente ha dato un nome più diretto e brutale – rottamazione – a una cosa che esiste da sempre.
Certo, l’esigenza di un rinnovamento radicale delle classi dirigenti, politiche e non solo, si presenta oggi con più urgenza perché viviamo in un’epoca di trasformazioni profondissime e inedite nel campo sociale, economico, geopolitico. Trasformazioni che investono per prima l’Europa, che può restare protagonista nella globalizzazione solo trovando la forza di una vera, democratica unità politica; trasformazioni che pongono a tutti domande e da tutti esigono risposte totalmente diverse da quelle abituali nel passato. Così, la crisi economica e le sue radici – esplosione dei debiti sovrani, eccessiva finanziarizzazione dell’economia – rendono inaccettabili o inservibili molte delle soluzioni tipicamente socialiste e liberali: la ricetta keynesiana, finanziare lo sviluppo con risorse pubbliche; la ricetta liberista, affidare solo al mercato la regolazione dei rapporti economici e la stessa distribuzione della ricchezza, accarezzata da tanti in questi anni anche a sinistra e che qualche riformista troppo zelante continua a proporre come via d’uscita dalla crisi.
Serve indicare e costruire una via nuova: che resti bene ancorata al valore dell’equità sociale, operando per accorciare la distanza sempre più larga tra ricchi e poveri e per presidiare, tenendolo al riparo da logiche puramente commerciali, lo spazio irriducibile dei beni comuni; ma non insegua nostalgie stataliste e si fondi sulla convinzione che ridurre il debito pubblico, dare più libertà alle energie sociali e molto più spazio ai meriti individuali, passare dal welfare delle pari prestazioni per tutti a quello delle pari opportunità , sono obiettivi squisitamente di sinistra.
Questa esigenza di un ricambio non solo nell’anagrafe, ma nella visione delle classi dirigenti, in Italia per motivi evidenti è particolarmente urgente e costituisce quasi una precondizione per ogni credibile progetto riformista. Nel nostro paese la mobilità sociale in tutti i suoi aspetti – mobilità nel reddito, nell’accesso alle professioni, nella composizone delle élite – è lentissima e l’età media delle rappresentanze politiche e sociali, anche per questo, decisamente elevata. A ciò si aggiunga che le nostre classi dirigenti – dalla politica, al sindacato, alla stessa impresa – si sono formate su tradizioni, su pensieri ormai fuori dal tempo.
Il rischio, allora, è che se il ricambio avviene per cooptazione, i “nuovi”, per quanto giovani di anagrafe, riproducano categorie di analisi assai poco contemporanee: rischio evidentissimo se si leggono i documenti politici sfornati a raffica dai Giovani Turchi, che sebbene ora si atteggino a rottamatori per convenienza tattica, tuttavia propongono analisi, proposte, visioni quanto mai inattuali.
Infine, vi è ancora una ragione, forse più pressante di tutte, che deve obbligare Pd e centrosinistra a rinnovare volti e comportamenti delle sue leadership. àˆ la caduta verticale di etica pubblica nella classe politica, dalla quale non siamo affatto immuni. Dall’altra parte fanno di peggio? Può darsi. Noi ci risparmiamo i bunga bunga e le feste in costume da antichi greci? Benissimo. Ma dalle tante vicende di vera e propria corruzione al malcostume dilagante che ha visto i partiti, ad ogni livello e senza apprezzabili distinzioni, attribuirsi prebende e privilegi e utilizzare in modo improprio, privatistico, il denaro pubblico, noi fino ad ora siamo stati parte del problema più che della soluzione.
Per questo, per tutto questo, noi scegliamo Renzi. Il suo discorso, le sue proposte, il suo impegno per un rinnovamento profondo della basi culturali e programmatiche del centrosinistra, ci sembrano un’occasione da non perdere. Il nostro paese nella crisi odierna sta pagando un sovraprezzo pesante a inerzie, arretratezze, inefficienze accumulate in decenni. Ma se smettiamo di fare l’Italietta, se sconfiggiamo i nostri lati oscuri – primo fra tutti: l’abitudine all’illegalità – e scommettiamo con coraggio sui nostri talenti, dalla manifattura di qualità all’economia verde, possiamo prepararci un futuro all’altezza della nostra storia.
Scegliamo Renzi non perché siamo in cerca di un leader moderato. Se le parole hanno un senso compiuto, possiamo dire di sentirci, da ecologisti, una “sinistra radicale”: molto più radicali e molto più di sinistra, nelle idee di cambiamento, di tutti quelli che oggi si scoprono socialisti duri e puri. Nemmeno siamo innamorati dell’agenda Monti: provvidenziale per salvare l’Italia dal baratro in cui stava precipitando, ma lontanissima da un progetto adatto ad affrontare i problemi e i bisogni del Paese. No. Scegliamo Renzi perché, nelle condizioni date, impersona molto meglio la possibilità di avvicinare il centrosinistra all’immagine di un’idea progressista contemporanea, efficace, convincente. L’immagine su cui era nato il Pd, la premessa obbligata per vincere prima le elezioni e poi la sfida difficilissima del governo.
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante