Ci pare discutibilissima e stucchevole questa idea che il Partito Democratico, per dimostrare d’essere una forza riformista moderna, responsabile, credibile per governare, debba vestirsi di un abito bipartisan, sforzandosi in ogni modo di non apparire pregiudizialmente ostile all’attuale maggioranza.
Se Giuliano Amato entra a far parte della Commissione Attali “bonsai” voluta da Alemanno non è certo uno scandalo: Amato è un esponente autorevole del Pd ma è anche uno studioso di indiscusso prestigio, il suo contributo a questa iniziativa, che sarà di sicuro pregevole, non impegna il Pd. Come non ha impegnato minimamente la sinistra francese, e anzi da sinistra è stata aspramente contestata, la scelta di Kouchner o dello stesso Attali di collaborare con Sarkozy. Del resto, l’iniziativa di Amato nasce da evidenti motivazioni personali: da una parte la resistenza di un politico di lungo corso, da decenni sotto le luci della ribalta, a lasciare le prime file del palcoscenico; dall’altra la sua legittima speranza che mostrandosi “super-partes” si può meglio accreditare come pretendente per futuri ruoli di garanzia istituzionale.
Ma dare dignità politica alla stampella offerta da Amato al neo-sindaco di Roma, questa è una tentazione – lo ha detto bene Andrea Romano in un’intervista a La Stampa – molto più italiana che europea: viene dal riflesso pavloviano di troppi che provenendo dalla destra missina, come Alemanno, ma anche dalla sinistra ex-comunista, avvertono tuttora una sorta di “ansia da legittimazione”.
Insomma, al contrario di ciò che pensano i “terzisti” nostrani, questa voglia di consociazione è un frutto malato della prima repubblica e della sua democrazia bloccata, piuttosto che l’annuncio dell’approdo del sistema politico italiano alla forma e alla sostanza di una moderna e compiuta democrazia bipolare. In Francia e in Inghilterra la polemica tra destra e sinistra è sempre acida e corrosiva (basta dare un’occhiata agli scontri settimanali nella “House of Parlament”), e in campagna elettorale raggiunge livelli che non sfigurano nemmeno di fronte all’antiberlusconismo ossessivo di Travaglio o dello stesso Di Pietro. Ancora Andrea Romano ricordava che in Germania la Merkel governa con l’Spd non per vocazione ma solo perché i risultati del voto glielo hanno imposto, e che nell’imminente campagna elettorale socialisti e democristiani, pur alleati, si scambieranno colpi durissimi pur di non essere condannati a rinnovare la “grande coalizione”. Infine negli Stati Uniti, tanto nelle primarie che ora nello scontro finale per la presidenza gli opposti candidati avevano e hanno un unico obiettivo: dimostrare che la propria visione, il proprio programma sono diversi e migliori rispetto a quelli del proprio avversario diretto.
Questo deve fare anche il Pd: impegnarsi per rendere quanto più chiara e netta la propria “differenza” dal centrodestra, e per convincere la maggioranza degli italiani della superiorità delle proprie proposte. Essere riformisti non significa sforzarsi di assomigliare ai propri avversari, e l’opposizione, sia a Roma che in Italia, va fatta come si fa in tutto il mondo democratico, appunto “opponendo” e “opponendosi”. Opponendosi al centrodestra anche “pregiudizialmente”, poiché il “giudizio” sulla pericolosità e l’inadeguatezza di questo centrodestra “previene” – nel senso letterale di venire prima, di derivare da una inconciliabilità generale di visioni e di valori, e anche tendenzialmente da una diversità di riferimenti sociali – i giudizi sulle scelte di volta in volta compiute dal governo Berlusconi o dalla Giunta Alemanno. Dalla destra il Pd ha molto da imparare, come agilità nel mettere al proprio ordine del giorno temi, bisogni inediti che nel tempo presente si vanno radicando nella società . Ma le nostre risposte a questi bisogni e a questi temi, le nostre idee politiche come si diceva una volta, non possono che essere “pregiudizialmente” altre: sulle tasse come sull’immigrazione, sul welfare come sull’ambiente, sulla giustizia come sui diritti civili.
Molti osservatori, e anche qualcuno dentro il Pd, sembrano invece augurarsi un Partito Democratico che non solo – cosa utile e giusta – cerchi un buon accordo con il centrodestra su nuove e più efficaci cornici istituzionali, ma che snaturi il proprio ruolo di opposizione diventando una via di mezzo tra consulente e vigilante di chi governa: proponendo qualche puntuale modifica a questa o quella proposta di riforma, o richiamando governo e maggioranza al rispetto del loro programma. “Ricordatevi di abbassare le tasse, o verrete meno alle vostre promesse”: accenti così possono tornare buoni come espedienti tattici nella polemica quotidiana, ma il nostro compito è soprattutto di persuadere gli italiani, la metà più uno degli italiani, che sia l’azione della destra, sia il suo programma – rispettato o no – non corrispondono all’interesse generale.
Evitiamo allora le ipocrisie: noi del Pd – dirigenti, militanti, sostenitori – ci auguriamo che la destra fallisca il prima possibile e nel modo più conclamato, perché pensiamo che più a lungo governa e più farà danno all’Italia. Questo tutti i giorni ci diciamo scambiandoci opinioni e previsioni dalle stanze del Parlamento alle riunioni politiche alle chiacchierate estive. Questo sarebbe bene dicessimo anche pubblicamente.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE