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Condono edilizio: Nitto Palma ci riprova, fermatelo!

“Il neo presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma non perde il vizio : di nuovo ha proposto la riapertura del condono edilizio, che significherebbe un via libera al cemento illegale.

Ci aveva già  provato ripetutamente nella scorsa legislatura, per fortuna senza successo.

 Ci auguriamo che lo fermino anche questa volta.”

 

E’  quanto dichiarano Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, già  parlamentari del Pd.

 

“Come suo solito – continuano Della Seta e Ferrante –  Nitto Palma usa per giustificare l’idea di una nuova sanatoria il cosiddetto abusivismo di necessità , ma in Campania come in tutta Italia l’abusivismo è quasi tutto speculativo e spesso è gestito direttamente dalle ecomafie.

L’abusivismo è una piaga che ha devastato l’ambiente , ha fatto crescere la fragilità  del territorio, alimentato l’insicurezza abitativa:sarebbe davvero triste  se le forze politiche che negli anni scorsi si sono battute contro ogni ipotesi di condono ora, per quieto vivere nell’epoca delle larghe intese, abbassassero la bandiera della legalità .”

Ma senza conflitto non c’è cambiamento (né vera democrazia)

pubblicato su Huffingtonpost.it

àˆ un errore, un errore frequentatissimo negli ultimi giorni, quello di presentare il film politico cui stiamo assistendo come un “remake” di pagine più o meno recenti della storia italiana: dei primi anni Novanta – Tangentopoli, la strage di Capaci, l’accordo tra i principali partiti per eleggere Scalfaro al Quirinale – o ancora prima, era la metà  degli anni Settanta, della stagione dei governi democristiani sostenuti dal Partito comunista.

In tutti e due casi il paragone non regge. Non regge con i mesi drammatici di Tangentopoli: mesi di storia vera, che seppellirono in un lampo partiti con alle spalle storie antiche e anche gloriose. Non regge nemmeno con l’esperienza dei governi di solidarietà  nazionale. Rispetto ad allora, tra mille altre differenze, corriamo un rischio in meno e abbiamo un problema in più.

Oggi non c’è il terrorismo. C’è tensione sociale in Italia, e come simboleggiano gli spari dell’altro giorno davanti al Palazzo del Governo c’è un numero crescente di italiani disperati; ma non c’è l’incubo di sangue e di piombo del terrorismo, che trovò nella rigidità  immutabile di un sistema politico incapace di produrre cambiamento il pretesto e l’alibi che spinse centinaia di persone alla scelta criminale della lotta armata.
C’è invece – questo il problema in più – un abisso del tutto inedito di sfiducia tra rappresentanti e rappresentati, con classi dirigenti non solo additate da buona parte dei cittadini come “caste” spregevoli, ma culturalmente obsolete e moralmente sfinite.

Ma un’analogia esiste tra lo stallo che ha portato alla nascita del governo Letta e quegli anni lontani della Dc e del Pci improvvisamente alleati. L’avvento dei governi di solidarietà  nazionale significò l’autoreclusione nel “palazzo” di una politica unanimista, che tradusse la scelta sacrosanta di un no comune alla follia terrorista nella pratica consociativa di un Parlamento quasi senza più opposizione (tranne i neofascisti del Msi e la pattuglia radicale). A dissentire percettibilmente, fuori dal “palazzo”, rimasero soltanto i violenti, ogni altra voce eterodossa tacque o restò afona. Fu un passaggio difficile e drammatico: aiutò a sconfiggere il terrorismo ma inchiodò il Paese, i suoi problemi, al più totale immobilismo e condannò la sinistra a un ventennio di sconfitte.

Oggi ci assedia un pericolo simile: potrebbero aspettarci mesi, forse anni nei quali l’Italia sarà  nelle mani di due pensieri unici altrettanto indigeribili, conservatori, retrogradi. Quello del governissimo, cioè l’idea che davanti ai nostri grandi problemi ci sia una sola risposta possibile, una risposta che cancella ogni dialettica, ogni differenza tra vecchio e nuovo, tra destra e sinistra, e archivia come irrilevanti e quasi innocenti anche i lati più oscuri della lunga stagione berlusconiana. E un altro pensiero unico che rischia di guadagnare sempre più consensi tra i cittadini: la retorica populista e plebea del “tutti a casa”, che anch’essa cancella le differenze, che nega la complessità  dei nodi da sciogliere e delle soluzioni utili a scioglierli.

La nascita del governo Letta era un esito, al punto in cui siamo, forse inevitabile, ma certo segna il punto culminante di una parabola incredibile. La sinistra italiana per anni ha indicato ai suoi elettori Berlusconi come il “male assoluto”, talvolta si è spinta a teorizzare una sorta di inferiorità  culturale, etica, degli stessi elettori di centrodestra. L’antiberlusconismo è diventato per milioni di donne e di uomini di sinistra un mantra e fino a pochi giorni fa tutti i dirigenti del Pd giuravano che mai e poi mai sarebbe nato un governo Pd-Pdl. Ora, in poche settimane, il male assoluto è diventato alleato di governo.

Ripetiamo, probabilmente era inevitabile. Ma almeno chi come noi è convinto che non possa esservi cambiamento né vera democrazia senza conflitto, si batta perché questa resti, ed appaia, un’eccezione, per conservare importanza e dignità  alle differenze tra opinioni, posizioni politiche, sensibilità  ideali, compresi i pensieri più radicalmente critici. Ci si batta, ognuno nel suo campo, per avere una sinistra e una destra non troppo scolorite, semmai un po’ più contemporanee. E ci si batta contro una deriva, che sembra colpire buona parte dell’informazione, in cui l’appello alla concordia nazionale diviene la premessa per mettere all’indice ogni voce dissonante.

L’Italia non è mai stata davvero una patria anche per questo, perché abitata da una politica che oscilla invariabilmente tra due logiche ugualmente sterili: guerra amico/nemico e inciucio tra compari. Le democrazie funzionanti sono un’altra cosa, sono il luogo della dialettica e anche del conflitto tra posizioni e opzioni alternative: dialettica e conflitto che possono essere tanto più aspri in quanto alla base vi è, tra i loro “attori”, un reciproco riconoscimento di legittimità . Oggi di differenze, di conflitti, l’Italia ha più bisogno che mai, perché nessun vero e profondo cambiamento può nascere dall’unanimità . Servono conflitti, e scelte originate da conflitti, per uscire meglio dalla crisi, per combattere la povertà  che aumenta, per riformare il welfare, per decidere dove e come trovare risorse per il lavoro, per decidere come cambiare il fisco, per decidere che posto devono avere i beni comuni, l’ambiente, la green economy nel futuro dell’Italia.

Insomma, è un bene che destra e sinistra imparino a riconoscersi e a rispettarsi, è malissimo immaginare le loro ricette, le loro politiche come indifferenti o intercambiabili. I governi di salute pubblica sono necessari quando tutta una nazione deve resistere – a un invasore, a una guerra – o ricostruirsi dopo una catastrofe, sono un danno quando serve avviare un cambiamento radicale che obbligatoriamente impone di scegliere tra visioni, e anche tra interessi, tra loro inconciliabili. Per questo il governo Letta se dura più dello stretto indispensabile non è la salvezza dell’Italia, ma la sua definitiva condanna.

Roberto Della Seta

FrancescoFerrante

Imoplosione del Pd. Sicuro sia un male?

pubblicato su Huffingtonpost

E se la fine del Pd, la sua “implosione”, fosse un passaggio necessario per dare un futuro vincente al campo politico dei progressisti?

La domanda, crediamo, non è oziosa. Il Partito democratico è nato da un’ambizione generosa e brillante, sulla quale noi come tanti altri abbiamo scommesso con entusiasmo: non solo e non tanto unificare in un unico soggetto politico le correnti riformiste di più antica tradizione – Ds, popolari, liberaldemocratici -, ma aprirle a una conversione pienamente contemporanea e contaminarle con riflessioni e culture molto più recenti, come l’ecologismo. L’idea era di approfittare di un’anomalia italiana – l’assenza di un grande partito socialista che come nel resto d’Europa guidasse i progressisti – per tentare un esperimento di forte innovazione .

L’esperimento, bisogna dirlo, sembra fallito. Oggi nel Pd vi è molta più guerra, molta più lotta di fazioni di quanta non ve ne sia mai stata nel centrosinistra diviso in più partiti. Le vicende desolanti di questi ultimi giorni, culminate nel trattamento offensivo, inqualificabile riservato dai democratici a Romano Prodi, cioè al fondatore dell’Ulivo e al principale ispiratore dello stesso Pd, lo certifica in modo definitivo: quello che manca nel Partito democratico non è tanto la strategia, la capacità  di decidere gli obiettivi e costruire percorsi adatti a raggiungerli. Ciò che manca, per dirla alla Bersani, è piuttosto la “ditta”, il sentirsi parte di una stessa impresa politica. Il Pd somiglia piuttosto a un dormitorio o ad un motel dove convivono casualmente e provvisoriamente persone e gruppi tra loro del tutto estranei: chi scambia Grillo per il nuovo leader della sinistra e si fa dettare la linea da qualche decina di frequentatori del web, chi si sente ancora democristiano e chi rimpiange il centralismo democratico, chi guarda alla Fiom e chi all’agenda Monti, chi vorrebbe politiche “green” e chi voleva il ritorno al nucleare, chi dopo essere stato promosso in prima linea per cieca fedeltà  al capo quando il capo è sconfitto ne invoca tra i primi le dimissioni…

Da qui allora bisogna ripartire. Il progetto da cui è nato il Pd era generoso, alto, nobile, ma era pure velleitario. Volevamo imitare gli americani, fare anche da noi un “partito democratico” liquido e leggero che ospitasse al suo interno tutte le infinite declinazioni del pensiero progressista, e ci siamo dimenticati di essere europei. In Europa un’offerta così non esiste, in Europa le “varietà ” riformiste sono molto più radicate nel terreno dell’opinione pubblica: nessuno mai penserebbe in Germania di unificare Spd e Grà¼nen, o in Francia di cancellare quell’abbondanza di proposte, di sensibilità , di sigle che ha portato il socialista Hollande dal 28% del primo turno delle presidenziali al 52% del ballottaggio. E nella stessa Inghilterra, unico caso europeo di sistema tendenzialmente bipartitico, i laburisti faticano sempre di più a rappresentare le ragioni, le aspettative, dell’intero elettorato di centrosinistra.

Adesso ci si trova davanti a un bivio, “tertium non datur”: o prendere atto che il progetto del Pd non è mai decollato e imboccare altre strade per dare all’Italia ciò di cui l’Italia ha maledettamente bisogno, cioè una proposta credibile e convincente di cambiamento che magari si regga su più di una gamba ma sia in grado di correre. Che si regga e corra, magari, su gambe nuove, che sappia vedere il mondo così com’è oggi e smetta di inseguire analisi, ricette, rappresentazioni superate da decenni. L’altra strada, l’unica altra strada, è fare finta di niente e insistere in un tentativo, rianimare il Pd, che rischia di sconfinare nell’accanimento terapeutico.

Questo bivio è reso plasticamente dai cento e più franchi tiratori che nel segreto del voto hanno bocciato l’elezione di Romano Prodi al Quirinale: essi segnano un punto probabilmente di non ritorno, mostrano che la “ditta” non esiste. Dunque va benissimo prendersela con il dilettantismo dei capi democratici, con le miserie dei parlamentari che pubblicamente hanno acclamato Prodi e sulla scheda l’hanno cassato, con la meschinità  dei giovani turchi che per mesi hanno puntellato Bersani e ora lo scaricano gridando al fallimento del gruppo dirigente. Va benissimo, ma ai protagonisti e alle comparse di questo “cupio dissolvi” almeno si riconosca un merito: come nella favola di Andersen sul “Re nudo” hanno detto a tutti che il Pd, per l’appunto, è “nudo”, è una ditta che non c’è.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante

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