Comunicati

Rifiuti: bene Clini su convocazione vertice, responsabili situazione messi di fronte loro responsabilità 

“Bene la convocazione del vertice convocato dal ministro Clini sulla situazione rifiuti della Capitale.
Lunedì verranno messi di fronte alle proprie pesanti responsabilità  chi ha portato Roma in una situazione emergenziale, e ha spinto per i due siti alternativi a Malagrotta che sono da sempre, con tutta evidenza, scelte insensate e impraticabili.”
Lo dichiara il senatore del Pd Francesco Ferrante, che aggiunge – “Addirittura l’Unesco ha sollevato dubbi sull’identificazione di un sito a poche centinaia di metri da villa Adriana, mentre per quanto riguarda Riano nella cava di Quadro Alto, cosa risaputa, c’e’ una falda acquifera di cinque metri.”
 
“E’ sconcertante dunque che si sia giunti a questo punto e che a Roma si continui a fare raccolta differenziata in maniera improvvisata e senza una visione comune in città  e che adesso si pensi pure a vendere ai privati l’azienda.
Un fallimento annunciato purtroppo, a causa della condotta irresponsabile di Alemanno e Polverini e che la nomina di Pecoraro purtroppo non ha affatto migliorato” -conclude Ferrante.
 

Tav: si riparta dalla proposta di Ferrentino per uscire dal muro contro muro

“Allargare la discussione sulla Tav Torino-Lione dallo scontro sul tunnel al confronto sulle politiche necessarie per rilanciare davvero il trasporto delle merci su ferrovia, fuori dagli opposti schematismi dei no-Tav e dei sì-Tav. Questo è l’obiettivo del tutto condivisibile della proposta di Antonio Ferrentino, su cui ci auguriamo convergano i sindaci della Valsusa, la regione Piemonte e la Provincia di Torino, il governo nazionale”. E’ quanto dichiarano i senatori democratici Roberto Della Seta e Francesco Ferrante commentando il documento presentato dal sindaco di Sant’Antonino. “Come dice con chiarezza Ferrentino – affermano i due parlamentari – per spostare le merci dalla strada alla ferrovia non basta scavare un grande tunnel che comincerebbe a funzionare tra vent’anni. Occorrono intanto scelte molto più immediate e assai meno costose, dalla semplificazione delle procedure burocratiche transfrontaliere, al potenziamento del nodo intermodale di Orbassano, alla revisione dei sussidi che da anni favoriscono l’autotrasporto rispetto al trasporto su ferro. Misure espressamente previste in un documento votato all’unanimità  nel 2008 dall’Osservatorio presieduto all’architetto Virano, misure che ad oggi sono rimaste completamente disattese. Su questa base, oltre che a partire da un no senza riserve ad ogni forma di violenza e intolleranza, è forse ancora possibile sottrarre la Valsusa, il Piemonte, l’Italia al muro contro muro di queste settimane: ma occorre fare presto, o il tunnel metaforico della guerra sulla Tav diventerà  senza uscita”. 

  

 

 

La terza via del Pd

A sentire molti autorevoli dirigenti democratici e a leggere le analisi di tanti commentatori,  sembra che la scelta obbligata per il Pd nei prossimi mesi sia tra un neo-laburismo che lo riporti, così auspicano i suoi cantori da Enrico Rossi a Stefano Fassina, nell’alveo del socialismo europeo, e un’alleanza organica con il “centro” che lo separi definitivamente dalle sinistre radicali.
Può darsi che sia così, basta sapere che entrambe queste opzioni c’entrano poco sia con le storie di cui il Pd è l’erede, sia con le motivazioni che portarono alla sua nascita, sia soprattutto con l’orizzonte attuale di quel mondo vasto e composito di valori, bisogni, interessi, riflessioni che porta il nome di riformismo.
C’entra poco, pochissimo, il neo-laburismo con le due principali tradizioni fondatrici del Pd. Erano squisitamente e orgogliosamente interclassiste la visione e anche la “constituency” della sinistra democristiana, da Moro ad Andreatta a Prodi. E certo non era laburista il Pci, che come dice il nome era un partito comunista. Così,  fa sinceramente un po’ sorridere questo esibito attaccamento all’identità  socialdemocratica,  essa sì largamente laburista, da parte di chi proviene da una famiglia politica – quella della filiera Pci-Pds-Ds – per la quale il campo socialista è stato un approdo quanto meno tardivo.  In esso, temiamo, vi è paradossalmente proprio uno dei segni da cui si capisce che gli ex-Ds sono figli dell’ideologia comunista e non del socialismo europeo: il segno cioè della difficoltà  ad adattare la propria politica ai cambiamenti sociali, culturali, geopolitici. Fare un partito neo-laburista in Italia aveva senso quarant’anni fa, oggi non ne avrebbe alcuno.  
Questa idea ignora del tutto un dato storico di assoluta evidenza. Il lavoro non è stato l’elemento centrale  in nessuno dei movimenti sociali e di opinione, buoni e meno buoni, che hanno agitato e cambiato l’Europa e l’Occidente negli ultimi quarant’anni: dall’ambientalismo al femminismo, dai no-global ai movimenti giovanili a quelli per i diritti civili, dal localismo “nimby” ai partiti neo-nazionalisti, dai movimenti per i beni comuni ai partiti “pirati” del web che spopolano dalla Svezia a Berlino. Ciò non per caso, ma perché sempre di meno nell’età  che viviamo e nelle nostre società  le persone e i gruppi si percepiscono e si definiscono in prevalenza rispetto al lavoro. Il lavoro, naturalmente, continua a contare moltissimo, tanto più in una stagione di drammatica crisi economica come l’attuale e in un Paese come il nostro dove un giovane su tre è disoccupato; ma oggi per dare senso e futuro alla parola progresso, specialmente per avere qualcosa da dire su questo che interessi i più giovani, non si può e non si deve partire dal lavoro.
D’altra parte, ha poco senso anche proporre per il Pd una svolta neo-centrista, che ne faccia una sorta di nuovo “balenottero” democristiano, magari rosa invece che bianco, moderato e programmaticamente estraneo ad ogni radicalismo. Questa direzione è anch’essa piuttosto lontana dalle storie politiche confuite nel Pd, ma soprattutto è lontanissima dalla realtà  odierna, dalle attese e dalle aspirazioni dei nostri elettori attuali e potenziali. Oggi in Italia il problema più grande dei partiti, e in primo luogo del Pd vista la sua ambizione progressista, è di intercettare almeno un po’ di quella “altrapolitica” – come l’ha battezzata Stefano Rodotà  – che abbonda nella società  e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. Quest’altra politica è fatta di posizioni, sensibilità , aspirazioni le più varie: dai giovani precari che chiedono un welfare che protegga le persone più che i posti di lavoro, alle imprese che da tempo hanno scommesso sulla “green economy” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’innovazione, a quei settori crescenti della pubblica opinione che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, riduzione delle diseguaglianze sociali, allargamento e consolidamento della sfera dei beni comuni dall’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono sicuramente classificabili come “liberali” (ciò spiega la larga e trasversale popolarità  delle scelte più liberalizzatrici del governo Monti), altre nascono dall’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande “radicali”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche. Bene, sembra improbabile che chi si riconosce nell’altra politica si lascerebbe coinvolgere o anche solo incuriosire da un Pd-balenottero rosa.
D’altra parte è proprio una richiesta forte e potente di cambiamento “radicale” che consegnano al Pd i tanti elettori, nostri elettori, delle primarie da Firenze alla Puglia, da Genova a Cagliari, da Milano a Palermo. Storie diverse e locali ma con un loro filo conduttore, che non ha senso leggere, come qualcuno continua a fare, con vecchi occhiali destra/sinistra o tanto meno laburisti/centristi.
Abbiamo meno di un anno davanti per decidere che partito vogliamo essere e su quale progetto vogliamo chiedere agli italiani di darci fiducia. La delicatezza, la drammaticità  della crisi economica in atto, il dato indiscutibile che abbiamo fatto benissimo a sostenere lo sforzo di Napolitano e poi di Monti per salvare l’Italia e forse l’Europa dal baratro, non tolgono nulla all’urgenza di questo impegno: anzi lo rendono ancora più necessario, perché dopo questo intermezzo “tecnico” la politica non potrà  certo tornare a proporsi, e a dividersi, secondo i confini e gli schemi degli ultimi vent’anni.
Abbiamo meno di un anno per convincere i 30 milioni di italiani dei referendum di giugno che per noi i beni comuni – si chiamino ambiente o legalità , coesione sociale o pari opportunità  – sono la base su cui costruire un futuro di sviluppo e di benessere. Meno di un anno per combattere l’antipolitica nell’unico modo guiusto e utile: facendo intanto pulizia di tutte le nostre “zone grigie”. Meno di un anno per imparare a guardare ai problemi di oggi con occhi di oggi: smettendola di litigare tra nostalgici di un laburismo ormai stracotto e neofiti di un liberismo anch’esso ovunque boccheggiante, e convincendoci che la  crisi economica cominciata nel 2008 non è una parentesi, chiusa la quale si può ricominciare “da dove eravamo rimasti”, ma segna un punto di non ritorno che impone risposte nuove ai problemi nuovi posti dalla globalizzazione, dall’allargamento intollerabile nella società  italiana della distanza tra ricchi e poveri, dalla crisi climatica e ambientale. Impone, per esempio, di definire una “road map” credibile per il rilancio dell’economia basata su scelte coraggiose che liberino le migliori energie del Paese battendo conservatorismi di destra e di sinistra e promuovendo una vera innovazione, che faccia nascere lavoro e impresa nei settori per noi più promettenti.
Insomma, abbiamo un po’ meno di un anno per mettere in campo un’idea convinta e convincente di modernità , quell’idea che nemmeno il provvidenziale governo Monti sembra in grado di offrire agli italiani. Di un Pd così c’è un estremo bisogno, e peraltro – così ricordiamo – eravamo nati più o meno per questo.  
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

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