Comunicati

Bioshopper tra compostabilità  vera e tentate truffe

Pubblicato su www.ecodemonline.it

Centoottantamila tonnellate di CO2: è la quantità  di anidride carbonica che l’anno scorso non abbiamo emesso in atmosfera grazie al fatto che abbiamo prodotto trentamila tonnellate di plastica in meno per realizzare shopper usa e getta. Un primo, concretissimo, risultato del divieto in vigore dall’1 gennaio del 2011 sulla commercializzazione di shopper non biodegradabili. Sempre più cittadini infatti scelgono di portare con sé una sporta riutilizzabile e rinunciano ad acquistare uno shopper ogni volta che escono a fare la spesa. Un cambiamento negli stili di vita che era forse il primo e più importante obiettivo della norma che introducemmo ormai cinque anni fa nella finanziaria del 2007. Un cambiamento che, come appunto dimostra la cifra iniziale, porta con sé benefici effetti dal punto di vista ambientale. Effetti che saranno completi quando riusciremo a togliere definitivamente dal mercato tutti gli shopper realizzati a partire dal petrolio. Sì, perché  essendo questa la patria del “fatta la legge trovato l’inganno”, nel corso del 2011 sono “magicamente” apparsi sul mercato strani sacchetti che si autodefinivano “biodegradabili” ma che in effetti erano fatti di plastica tradizionale con aggiunta di additivi che appunto l’avrebbero degradata, ma non secondo le normative europee, e che non l’avrebbero certo resa compostabile. In altre parole, sacchetti che di fatto rischiano di essere persino più inquinanti di quelli tradizionali.

 

Il decisivo intervento chiarificatore del ministro Clini

 Grazie alla collaborazione efficace con il Ministro Clini, cui va dato atto di avere spinto con forza in questi mesi sul tasto “chimica verde”, abbiamo tolto di mezzo questo inganno con il decreto legge del marzo scorso che specifica che può essere considerato biodegradabile solo quello a norma UNI EN 13432 (cercate questa sigla sullo shopper se non volete essere truffati), prevedendo la possibilità  di commercializzare quelli non biodegradabili esclusivamente se sono davvero riutilizzabili, con la ulteriore prescrizione di spessori molto significativi. Ora quindi il mercato – comunque ridotto fortunatamente grazie al cambiamento negli stili di vita che si dovrà  continuare a promuovere – resta a disposizione unicamente dei nuovi prodotti che non usano più materia prima fossile e inquinante, bensì quella vegetale e rinnovabile.

Una storia positiva questa del divieto sugli shopper, che infatti viene guardata in Europa, ma anche in Usa, con interesse e che, per una volta, mette il nostro Paese all’avanguardia nella promozione della green economy e nelle politiche di riduzione dei rifiuti, dove di solito latitiamo.

 

I nemici della chimica verde e del progresso

 Una storia che però come è noto ha dovuto superare parecchi ostacoli: prima la lobby della vecchia chimica, organizzata da Unionplast, che ha sempre scommesso sulla proroga dell’entrata in vigore del divieto riuscendo però a farlo slittare solo di un anno;  poi il tentativo di truffa di cui sopra. Fino a una vicenda di queste ultime settimane che sarebbe anche ridicolo raccontare se non fosse l’esempio di un problema più grave  di questo Paese: l’inadeguatezza delle rappresentanze del sistema delle imprese.

La stessa Unionplast, sconfitta sulle proroghe, infatti si è inventata una fantasiosa interpretazione dell’ultimo decreto e, cosa assai grave, ha mandato una circolare a tutti i suoi aderenti (trasformatori e produttori di sacchetti tra gli altri) in cui si diceva che bastava utilizzare una certa percentuale di plastica riciclata  e si sarebbe potuto continuare a produrre shopper tradizionali come se nulla fosse, ignorando in tal modo l’obbligo previsto dalla stessa legge su biodegradabilità  e riutilizzabilità . Un’interpretazione della norma che ho immediatamente ritenuto talmente folle da risultare una sorta di “istigazione a delinquere” attirandomi immediatamente minaccia di querela (dichiaro sin da subito che rinuncerei immediatamente a qualsiasi immunità  parlamentare se tali cialtroni volessero davvero suicidarsi in aula di tribunale). Ora, dopo che oltre al Tar e al Consiglio di Stato che gli avevano bocciato incauti ricorsi, anche il Ministero dell’Ambiente gli ha formalmente dato torto, spiegando l’insensatezza di quella interpretazione, in un Paese normale i vertici di quell’associazione dovrebbero quanto meno dimettersi e i loro associati magari attivare nei loro confronti un’azione di responsabilità ,  prendendo finalmente atto di quanti danni gli hanno recato in questi anni in cui, invece di assecondare e accompagnare l’innovazione, hanno remato contro gli stessi interessi che avrebbero dovuto rappresentare. Temo però che non succederà .

* Francesco Ferrante, senatore PD, fa parte dell’esecutivo nazionale dell’Associaizone ecologisti democratici. E’ vice presidente di Kyoto Club. E’ stato direttore generale di Legambiente.

Rio+20: un vertice dal sapore amaro

Neanche questa volta l’Onu riuscirà  a dimostrare capacità  di governance di fenomeni complessi e vitali per il presente e il futuro dei popoli. Questo il sentimento più diffuso tra le migliaia di delegati che hanno partecipato ieri all’apertura del vertice internazionale sullo sviluppo sostenibile “Rio + 20”. Le faticose negoziazioni che hanno preceduto il vertice hanno infatti condotto a un testo base che fa prevedere che quello finale non conterrà  alcun obiettivo numerico da raggiungere in nessuno dei settori presi in esame: i sussidi ai combustibili fossili non verranno tagliati, gli oceani non adeguatamente protetti, sulla deforestazione gli impegni saranno troppo vaghi e soprattutto in nessuna parte del documento si parlerà  delle risorse economiche necessarie e da dove ricavarle e chi le deve impegnare per sostenere lo sforzo dei paesi più poveri. Un fallimento quindi? Una nuova Copenaghen? Qui forse bisognerà  avere qualche prudenza in più. Ciò che a Rio è apparso evidente, straordinariamente di più di vent’anni fa, è che il mondo sarebbe invece pronto per la svolta ancora mancata. Lo è sicuramente quello vitalissimo rappresentato dalle associazioni e dai movimenti, ma questa non è più una novità  ormai da almeno un decennio. La tassa sulle transazioni finanziarie, ad esempio, che dieci anni fa era idea solo di quell’arcipelago, oggi si è imposta nel dibattito pubblico e molti governi l’hanno fatta propria. Ma la novità  più forte di questi anni, che le giornate brasiliane si sono incaricate di confermare, è che anche una parte sempre crescente della business community si è incamminata su quella strada. Certo non tutti, e alcuni si attardano ancora in operazioni cosmetiche di green washing che ormai sono però abbastanza facilmente smascherate, però le imprese che scommettono su vera green economy, magari come recita la bozza di documento “equa e solidale” , attenta alle esigenze dei territori e delle comunità  aggiungeremmo noi, sono sempre più numerose in ogni parte del mondo. Infine non è più così vero che i paesi emergenti , quelli con crescita del Pil a doppia cifra siano “nemici” dell’ambiente in nome di uno sviluppo senza freni. Da quelle parti infatti i danni dell’inquinamento stanno diventando insostenibili, non solo per l ‘ambiente ma anche per motivi economici e sociali. Significativo l’allarme lanciato dalla stessa Accademia delle Scienze Sociali Cinese (controllata dal governo come tutto in Cina) che ha calcolato nel 9% del Pil il danno annuale causato all’economia dal degrado dell’ambiente, o anche la stima della Banca Mondiale (non di una org ambientalista) che per l’India stima i danni causati solo dall’inquinamento delle acque in circa il 6%del Pil. Cifre ingentissime, cui quei paesi, con la rapidità  che li contraddistingue, stanno cercando di metter riparo tanto da far dire al noto Lord Nicolas Stern che il piano quinquennale del Governo Cinese (che peraltro prevede una crescita costante del Pil del 7% l’anno!) è il contributo più significativo alla riduzione delle emissioni di gas di serra di questi ultimi anni.
Ma allora se son vere tutte e tre le cose, società  civile mondiale pronta al cambiamento, imprese disponibili a scommettere su innovazione tecnologica, green economy che si fa strada anche tra coloro che si affacciano solo ora al benessere e che condividono che “grow now, clean later” sia uno slogan desueto e impossibile, perché non si riescono a fare passi concreti nelle trattative internazionali che impegnino Paesi e Governi? Perché è così stridente la distanza tra l’entusiasmo del primo Rio che segnò una svolta mondiale e questo vertice il cui sapore finale sarà  comunque amaro? A me pare che la risposta sia proprio nell’intreccio, ormai diffuso e che vent’anni fa non esisteva, tra ragioni dell’ambiente e economia reale che quindi scatena resistenze formidabili da poteri forti, vivi e vegeti. Che green economy potremo mai perseguire, per esempio, senza cancellare i 1000 miliardi di dollari di sussidi alle fonti fossili? E quella massa di denaro oggi va a gruppi che dappertutto contano ancora molto e hanno possibilità  ampie di ostacolo. Qui è la storia: la difesa dell’ambiente, la lotta ai cambiamenti climatici, la costruzione di un mondo più pulito, condizioni essenziali per farne uno anche più giusto e coeso, sono in grado di minacciare l’assetto dei poteri mondiali. Non è, non può essere un pranzo di gala

Rio+20 verso la conclusione tra la delusione e l’ottimismo testardo

Pibblicato su www.qualenergia.it

Non ci saranno sorprese in questi due giorni: Rio + 20 si concluderà  così come è cominciato. Un documento pieno di buone intenzioni, con alcuni indubitabili e importanti passi avanti sul piano dei principi, a partire dalla definizione della green economy come “infrastruttura” fondamentale non solo per affrontare la crisi climatica ma anche per combattere la povertà , ma nessun impegno concreto in termini di tempi certi e di risorse da mettere sul piatto. Per questo Ban Ki Moon, il segretario generale dell’Onu, ha aperto il vertice ammettendo che il documento finale in discussione avrebbe dovuto essere più ambizioso, una sorta di confessione di impotenza e di inadeguatezza delle Nazioni Unite di fronte alla sfida. Un’ammissione tanto più amara se è vero che, come ha detto lo stesso Ban Ki Moon, e ancora con più forza Dilma Rousseff, la presidente brasiliana padrona di casa, che pur ha difeso il risultato ottenuto, il tempo è la risorsa più scarsa di cui disponiamo. Ha senz’altro ragione allora Hollande quando dice che la dichiarazione finale che sottoscriveranno tutti, è il solo compromesso possibile ma che lo stesso non è quello che si aspettavano i suoi concittadini e soprattutto non è quello che sarebbe stato doveroso raggiungere per le generazioni future. Forse però la speranza sta proprio nel discorso di Hollande che si è impegnato, non solo a introdurre al più presto la tassa sulle transazioni finanziarie, ma anche a destinare una parte di quei proventi proprio alla cooperazione e ai programmi di sviluppo sostenibile. E sta nella durezza del discorso della Rousseff che non ha fatto alcuno sconto ai paesi ricchi e confermato che il protagonismo di un Paese che in qui anni di sviluppo straordinario è riuscito a far uscire dalla fame milioni di persone può cambiare la storia non solo del più grande paese del Sud America. E sta infine anche in quei primi sei milioni che ha messo in gioco il premier cinese per aprire un fondo di rotazione per programmi fondati sulla green economy. Insomma, come ormai succede da tempo, il giudizio su un vertice internazionale non può che essere controverso e oscillante tra il pessimismo giustificato dalla impotenza in cui sembrano essere precipitati per sempre i meccanismi decisionali di questi multilaterali, e l’ottimismo testardo di chi rintraccia, nelle dichiarazioni dei leader e nei concreti cambiamenti in opera nell’economia di quasi tutte le aree del mondo, la strada da percorrere, fatta di efficienza energetica, energie rinnovabili, nuovi prodotti non più da fossili, lotta alla povertà  e giustizia sociale. E allora le prossime ore a Rio forse non saranno utili per migliorare in extremis il documento con cui si chiuderà  il vertice, ma con qualche fiducia possiamo pensare di raccogliere nuove e positive esperienze di un altro mondo possibile

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