Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Nè con Keynes, nè con Monti

In Italia, desolante ma vero, il dibattito sullidentità  della sinistra sembra monopolizzato da due opposte insensatezze: di chi riformista contrabbanda come non plus ultra del riformismo lesecuzione, senza fronzoli né libere interpretazioni, delle istruzioni mercatiste della Banca centrale europea (corrente piuttosto affollata anche nel Pd); e di chi radicale addita come massimo del radicalismo il riciclaggio di vecchie e già  fallite ricette stataliste (pure in questo caso, la posizione non manca di emuli tra i Democratici). Appartiene alla seconda fattispecie anche la neonata Alleanza per il lavoro, i beni comuni e lambiente acronimo Alba che vede un gruppetto di onorabili e non giovanissimi professori universitari autoeletti ottimati proporsi come il nuovo che avanza sulla base di un manifesto che mette insieme demagogia populista noi siamo gli anti-partito, dunque seguiteci e retorica anti-capitalista.
Il primo errore, scambiare riformismo per moderatismo, ha origine nellidea che per essere realista, concreta, la sinistra debba rinunciare a propositi di radicale cambiamento della realtà  e rifuggire, anche, da troppo aspri conflitti sociali. Unidea che particolarmente in Italia ha condizionato la sinistra di governo, spingendola spesso ad assecondare gli interessi più forti e consolidati: nasce anche da qui, da un malinteso senso di realismo, la ricorrente opacità  del rapporto tra la nostra politica la politica dei riformisti al governo delle città , dei territori – e gli affari, anche da qui dunque la nostra fetta di questione morale.
Laltro errore, scambiare radicalismo per statalismo, è nel guardare al presente e al futuro dallo specchietto retrovisore. Così non si vede lessenziale. Non si vede, per esempio, che difendere i beni comuni è il contrario di negare, come negano tanti nostri referendari, che lacqua chiunque la gestisca è una risorsa scarsa e che per amministrarla come bene comune occorre che chi più ne consuma più la paghi. Non si vede che se certo bisogna battersi per uno spazio pubblico di politiche, di servizi e anche di spesa irriducibile alle logiche del mercato, al tempo stesso vanno recuperate parole a lungo considerate dalla sinistra con sospetto una per tutte: liberalizzazioni ma diventate oggi squisitamente di sinistra perché corrispondono al bisogno, allinteresse, allaspirazione di quellesercito di ultimi i precari, i giovani, le donne lasciati ai margini del lavoro e dei diritti sociali che sono i veri proletari del XXI secolo. E ancora, tenendo lo sguardo fisso allindietro non si vede che questa crisi è figlia non soltanto dello strapotere della grande finanza, ma viene soprattutto da un cambiamento rivoluzionario in atto nel mondo, con due o tre miliardi di persone che dopo secoli di assenza ora bussano sempre più rumorosamente alla porta del benessere che è stata finora una porta solo nostra: cambiamento che di per sé, misurato sui valori della sinistra, è totalmente positivo, e che però per la sinistra europea rappresenta una sfida terribilmente difficile.
Ma davvero non ci sono abiti mentali diversi da questi per una sinistra che voglia restare fedele alla sua ragione sociale cambiare il mondo, renderlo più equo e più prospero e rimanere al tempo stesso contemporanea? Noi crediamo che ce ne siano. Sono gli abiti di un riformismo che non rinuncia a proporre cambiamenti radicali e conflittuali, siano la richiesta di unEuropa pienamente democratica o il rifiuto di un pensiero unico attento solo alle risposte dei mercati e indifferente, come macroscopicamente nel caso della Grecia, ai costi sociali delle politiche di risanamento. E sono gli abiti decisamente radicali, ma lontani dalle nostalgie del dirigismo novecentesco, dei Grà¼nen tedeschi, che nel mezzo della crisi hanno trovato maggiori consensi, fino a vincere le elezioni nel Baden-Wà¼rttemberg che è la regione più ricca e popolosa dEuropa, offrendo alla Germania una proposta che può valere per lEuropa intera: in un mondo trasformato dallarrivo sulla scena di protagonisti che per numeri, per forza durto quantitativa sono incomparabilmente più grandi e potenti di noi,  i Paesi industrializzati per difendere il loro peso competitivo e il loro benessere sociale devono specializzarsi nel produrre e vendere qualità , a cominciare dalla qualità  ambientale.
Allora ciò che serve alla sinistra anche in Italia non è ricercare lennesima terza via. E convincersi che la differenza tra conservatori e progressisti ha ancora molto senso ma solo a patto di collocarla nel nostro tempo. E che per dare corpo e speranza a questa differenza non serve resuscitare Keynes e Marx ma nemmeno sostituirli con Trichet, con Draghi o con lo stesso Monti. 
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Cosa vuol dire “sinistra” oggi

Probabilmente il grande Gaber aveva torto: non è vero che sinistra e destra sono parole svuotate di senso, come ieri cantava lui e come oggi, con meno talento e frequente strumentalità , fanno coro in molti. Se per sinistra s’intende l’aspirazione ad allargare a tutti la sfera del benessere, dei diritti e delle opportunità , questo rimane un criterio discriminante nel modo di immaginare e desiderare il futuro. Invece è vero che da quando esiste la sinistra, cioè da oltre ducento anni, il perimetro del benessere, dei diritti e delle opportunità  da promuovere si è modificato e continuamente allargato. Ed è verissimo che ogni qual volta un nuovo pensiero, una nuova cultura anno proposto uno di questi “allargamenti di senso”, molti che si consideravano cultori e custodi di una nozione dura e pura di sinistra hanno reagito con invettive, scomuniche, e  soprattutto con un’accusa più infamante di tutte: le nuove idee e i loro sostenitori non erano che destra mascherata.
 

Questa difficoltà  delle forze progressiste più tradizionali e consolidate ad accogliere declinazioni inedite, originali dell’idea generale di sinistra, ha avuto una diffusione assai larga. Ma in Italia, indubbiamente, si è manifestata con più forza che altrove, per la prevalenza nella sinistra italiana di una cultura – quella del Pci – che ha sempre faticato moltissimo ad adeguare le proprie visioni all’evoluzione sociale e culturale. Persino il bipolarismo e la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Pd , per partire da temi più di politica “politicienne”, di cui in questi giorni sembra celebrarsi l’ineluttabile funerale, sono stati digeriti con difficoltà  da molti ex-Pci, visti come un espediente tattico e non certo come condizione per una vera, credibile visione di cambiamento da offrire agli italiani.
 

Più in profondità , sul piano culturale e limitando lo sguardo agli ultimi cinquant’anni, un primo choc la sinistra italiana dovette affrontarlo a partire dagli anni Sessanta, quando si trovò a fare i conti con il tema dei diritti individuali. Lo sanno bene i radicali: per merito loro la sinistra in Italia ha cominciato a battersi per i diritti civili, personali dei singoli, cioè per diritti squisitamente liberali, ma per questo sono stati considerati a lungo, specie dal Partito comunista, alla stregua di una sinistra abusiva, usurpatrice, quasi una “banda” di infiltrati. C’è voluto tempo prima che questa “eresia” mettesse definitivamente radici nel discorso pubblico della sinistra, e forse il tempo non è finito: basta vedere come un obiettivo, il riconoscimento di elementari diritti civili alle persone e alle coppie omosessuali, che in molti Paesi occidentali è un dato acquisito e in tutta Europa è un carattere distintivo dell’identità  di sinistra, da noi resta una chimera e resta un fattore di divisione  all’interno stesso del campo progressista, per colpa in questo caso di chi ritiene così di difendere presunte identità  cattoliche.
 

Un secondo, temibile test è stato per la nostra sinistra l’affacciarsi sulla scena, tra gli anni Settanta e Ottanta, del pensiero ecologista, che con il principio della sostenibilità  affermò l’idea che si dovessero tutelare anche i diritti, le opportunità  delle generazioni future.  Proprio in questi giorni ricorrono i quarant’anni dalla pubblicazione in Italia del celebre rapporto del Club di Roma su “I limiti dello sviluppo”, dove per la prima volta veniva messo in discussione il dogma, caro tanto ai liberali quanto ai marxisti, della crescita economica come fenomeno lineare e illimitato, e dichiarata l’urgenza di ridurre il prelievo di risorse naturali e la pressione inquinante sugli ecostsitemi. Il libro fu stroncato senza appello dai giornali di sinistra: l’idea stessa che esistessero “limiti allo sviluppo” venne bollata come reazionaria, tentativo consapevole di cristallizzare le diseguaglianze sociali ed economiche tra Paesi ricchi e Paesi poveri, o rigurgito “neo-romantico” nemico del progresso. Sul Manifesto, Umberto Eco scrisse che dietro le posizioni di chi auspicava una riconciliazione tra uomo e natura si celava l’ideologia reazionaria che vorrebbe “una vita media di 50 anni, eliminazione automatica dei meno dotati, accettazione della malattia come fatalità  insormontabile, fame e sporcizia come dono di Dio”. 
 

Ma se la sinistra italiana non ha mai assimilato del tutto l’inclusione dei diritti individuali e dell’ambiente nel proprio “pantheon” di valori, la ragione più profonda è in un tratto che accomuna le due questioni: sia l’una che l’altra spostano il fronte della battaglia progressista dal solo luogo classico del lavoro. Per molti, anche nel Pd, questo resta un tabù, come dimostra l’ossessione neo-laburista di chi pretende di trasformare il Partito democratico nella replica fuori tempo e fuori luogo di un modello che in Italia non si è mai radicato e che gli stessi partiti socialisti europei stanno cercando in ogni modo di superare.
 

Oggi, certo, nessuno si sognerebbe di negare – almeno a parole – “cittadinanza progressista” al tema dei diritti di libertà  o a quello della sostenibilità . Ma rimane in più d’uno la tentazione di tacciare come destra travestita chi chiede di allargare il senso della nozione di sinistra, di calarlo nei problemi e nelle sfide del tempo presente. Chi, per esempio, sostiene che è di sinistra battersi contro il debito pubblico che minaccia i diritti e le opportunità  delle generazioni future; che è di sinistra reclamare un nuovo welfare che protegga un po’ meno meno i posti di lavoro e un po’ di più le persone, a cominciare da giovani e precari; che è decisamente di sinistra fare di tutto, come italiani e come europei, per evitare che la globalizzazione, grandioso processo storico grazie al quale due terzi dell’umanità  si stanno avvicinando al benessere, ai diritti, alle opportunità , non si traduca in un arretramento per l’altro, il “nostro” terzo, e in un danno irreparabile per gli ecosistemi.   
 

Per tutto questo,crediamo, va benissimo discutere e litigare su cosa significhi oggi essere di sinistra. Ma sempre diffidando di chi distribuisce, sul tema, improbabili patenti di ortodossia.
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

La terza via del Pd

A sentire molti autorevoli dirigenti democratici e a leggere le analisi di tanti commentatori,  sembra che la scelta obbligata per il Pd nei prossimi mesi sia tra un neo-laburismo che lo riporti, così auspicano i suoi cantori da Enrico Rossi a Stefano Fassina, nell’alveo del socialismo europeo, e un’alleanza organica con il “centro” che lo separi definitivamente dalle sinistre radicali.
Può darsi che sia così, basta sapere che entrambe queste opzioni c’entrano poco sia con le storie di cui il Pd è l’erede, sia con le motivazioni che portarono alla sua nascita, sia soprattutto con l’orizzonte attuale di quel mondo vasto e composito di valori, bisogni, interessi, riflessioni che porta il nome di riformismo.
C’entra poco, pochissimo, il neo-laburismo con le due principali tradizioni fondatrici del Pd. Erano squisitamente e orgogliosamente interclassiste la visione e anche la “constituency” della sinistra democristiana, da Moro ad Andreatta a Prodi. E certo non era laburista il Pci, che come dice il nome era un partito comunista. Così,  fa sinceramente un po’ sorridere questo esibito attaccamento all’identità  socialdemocratica,  essa sì largamente laburista, da parte di chi proviene da una famiglia politica – quella della filiera Pci-Pds-Ds – per la quale il campo socialista è stato un approdo quanto meno tardivo.  In esso, temiamo, vi è paradossalmente proprio uno dei segni da cui si capisce che gli ex-Ds sono figli dell’ideologia comunista e non del socialismo europeo: il segno cioè della difficoltà  ad adattare la propria politica ai cambiamenti sociali, culturali, geopolitici. Fare un partito neo-laburista in Italia aveva senso quarant’anni fa, oggi non ne avrebbe alcuno.  
Questa idea ignora del tutto un dato storico di assoluta evidenza. Il lavoro non è stato l’elemento centrale  in nessuno dei movimenti sociali e di opinione, buoni e meno buoni, che hanno agitato e cambiato l’Europa e l’Occidente negli ultimi quarant’anni: dall’ambientalismo al femminismo, dai no-global ai movimenti giovanili a quelli per i diritti civili, dal localismo “nimby” ai partiti neo-nazionalisti, dai movimenti per i beni comuni ai partiti “pirati” del web che spopolano dalla Svezia a Berlino. Ciò non per caso, ma perché sempre di meno nell’età  che viviamo e nelle nostre società  le persone e i gruppi si percepiscono e si definiscono in prevalenza rispetto al lavoro. Il lavoro, naturalmente, continua a contare moltissimo, tanto più in una stagione di drammatica crisi economica come l’attuale e in un Paese come il nostro dove un giovane su tre è disoccupato; ma oggi per dare senso e futuro alla parola progresso, specialmente per avere qualcosa da dire su questo che interessi i più giovani, non si può e non si deve partire dal lavoro.
D’altra parte, ha poco senso anche proporre per il Pd una svolta neo-centrista, che ne faccia una sorta di nuovo “balenottero” democristiano, magari rosa invece che bianco, moderato e programmaticamente estraneo ad ogni radicalismo. Questa direzione è anch’essa piuttosto lontana dalle storie politiche confuite nel Pd, ma soprattutto è lontanissima dalla realtà  odierna, dalle attese e dalle aspirazioni dei nostri elettori attuali e potenziali. Oggi in Italia il problema più grande dei partiti, e in primo luogo del Pd vista la sua ambizione progressista, è di intercettare almeno un po’ di quella “altrapolitica” – come l’ha battezzata Stefano Rodotà  – che abbonda nella società  e che si sente del tutto estranea ai programmi, ai linguaggi, ai comportamenti della politica ufficiale. Quest’altra politica è fatta di posizioni, sensibilità , aspirazioni le più varie: dai giovani precari che chiedono un welfare che protegga le persone più che i posti di lavoro, alle imprese che da tempo hanno scommesso sulla “green economy” e vorrebbero politiche industriali davvero orientate a promuovere l’innovazione, a quei settori crescenti della pubblica opinione che reclamano al tempo stesso più spazio per il merito, meno potere per le corporazioni, più etica pubblica, riduzione delle diseguaglianze sociali, allargamento e consolidamento della sfera dei beni comuni dall’ambiente alla scuola. Alcune di queste domande sono sicuramente classificabili come “liberali” (ciò spiega la larga e trasversale popolarità  delle scelte più liberalizzatrici del governo Monti), altre nascono dall’idea che vi siano beni e servizi che non vanno trattati come merci. Tutte sono domande “radicali”, nel senso che implicano e rivendicano cambiamenti profondi, talvolta rivoluzionari, nelle politiche. Bene, sembra improbabile che chi si riconosce nell’altra politica si lascerebbe coinvolgere o anche solo incuriosire da un Pd-balenottero rosa.
D’altra parte è proprio una richiesta forte e potente di cambiamento “radicale” che consegnano al Pd i tanti elettori, nostri elettori, delle primarie da Firenze alla Puglia, da Genova a Cagliari, da Milano a Palermo. Storie diverse e locali ma con un loro filo conduttore, che non ha senso leggere, come qualcuno continua a fare, con vecchi occhiali destra/sinistra o tanto meno laburisti/centristi.
Abbiamo meno di un anno davanti per decidere che partito vogliamo essere e su quale progetto vogliamo chiedere agli italiani di darci fiducia. La delicatezza, la drammaticità  della crisi economica in atto, il dato indiscutibile che abbiamo fatto benissimo a sostenere lo sforzo di Napolitano e poi di Monti per salvare l’Italia e forse l’Europa dal baratro, non tolgono nulla all’urgenza di questo impegno: anzi lo rendono ancora più necessario, perché dopo questo intermezzo “tecnico” la politica non potrà  certo tornare a proporsi, e a dividersi, secondo i confini e gli schemi degli ultimi vent’anni.
Abbiamo meno di un anno per convincere i 30 milioni di italiani dei referendum di giugno che per noi i beni comuni – si chiamino ambiente o legalità , coesione sociale o pari opportunità  – sono la base su cui costruire un futuro di sviluppo e di benessere. Meno di un anno per combattere l’antipolitica nell’unico modo guiusto e utile: facendo intanto pulizia di tutte le nostre “zone grigie”. Meno di un anno per imparare a guardare ai problemi di oggi con occhi di oggi: smettendola di litigare tra nostalgici di un laburismo ormai stracotto e neofiti di un liberismo anch’esso ovunque boccheggiante, e convincendoci che la  crisi economica cominciata nel 2008 non è una parentesi, chiusa la quale si può ricominciare “da dove eravamo rimasti”, ma segna un punto di non ritorno che impone risposte nuove ai problemi nuovi posti dalla globalizzazione, dall’allargamento intollerabile nella società  italiana della distanza tra ricchi e poveri, dalla crisi climatica e ambientale. Impone, per esempio, di definire una “road map” credibile per il rilancio dell’economia basata su scelte coraggiose che liberino le migliori energie del Paese battendo conservatorismi di destra e di sinistra e promuovendo una vera innovazione, che faccia nascere lavoro e impresa nei settori per noi più promettenti.
Insomma, abbiamo un po’ meno di un anno per mettere in campo un’idea convinta e convincente di modernità , quell’idea che nemmeno il provvidenziale governo Monti sembra in grado di offrire agli italiani. Di un Pd così c’è un estremo bisogno, e peraltro – così ricordiamo – eravamo nati più o meno per questo.  
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

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