Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Pd, è ora di dire quanto sei veramente green

Lunedì 11 giugno il Pd tiene a Roma la sua Conferenza nazionale sull’economia verde. Sarà  l’occasione, soprattutto, per provare a rispondere a due domande. Ha senso occuparsi di ambiente in un tempo come il nostro di drammatica crisi economica e sociale? E poi una seconda domanda, su cui ci auguriamo verranno da Bersani, che concluderà  l’iniziativa, parole chiare e impegnative: il Pd vuole davvero proporsi come la casa di un ecologismo moderno e non rituale?
Per rispondere, positivamente, alla prima domanda basta forse passare in rassegna i tanti casi di settori “green” che dall’inizio della crisi stanno svolgendo una preziosa funzione anticiclica: dalle energie rinnovabili, il cui decollo ha portato la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro, all’efficienza energetica, che grazie al credito d’imposta sulle ristrutturazioni enegetiche degli edifici ha visto l’apertura di un milione e mezzo di cantieri; dalla chimica verde, grazie alla quale si potranno salvare dal declino i distretti della vecchia chimica, al riciclaggio dei rifiuti, che ha fatto crescere malgrado la recessione la produzione e il consumo di materie prime seconde.
All’Italia, poi, l’economia verde porta in dote un ulteriore, importante valore aggiunto: come dimostrano moltissimi dati – citiamo tra tutti quelli di un recente studio delle Camere di commercio ripresi da Emete Realacci nel suo libro “Green Italy” – è tra i principali terreni d’investimento della parte più dinamica del nostro sistema produttivo, delle migliaia di piccole e medie imprese, cuore del “made in Italy”, che anche grazie a questa scelta stanno “tenendo” malgrado la difficilissima congiuntura.
Insomma, pochi settori come l’economia verde sono altrettanto indispensabili allo sforzo, difficile ma ancora possibile, di contrastare i pericoli indiscutibili di un graduale declino del posto dell’Italia nell’economia globale.
Finora la politica non ha fatto granché per sostenere l’economia verde. Scelte importanti sono venute dall’ultimo governo Prodi – gli incentivi alle energie rinnovabili, il credito d’imposta per il risparmio energetico negli edifici -, poi buio pesto nei tre anni e mezzo di governo Berlusconi e adesso, con Monti, un’incertezza preoccupante: nulla per orientare gli investimenti in infrastrutture verso direzioni di sostenibilità  ambientale (a cominciare dalla messa in sicurezza del patrimonio edilizio, la cui urgenza ci è stata tragicamente ricordata dal terremoto in Emilia), e ora una riscrittura insensata degli incentivi alle rinnovabili che rischia di dare un colpo mortale a migliaia di aziende.
A questo punto torna la seconda domanda: il Pd è pronto a diventare il partito dell’economia verde, a battersi per scelte molto più incisive e coerenti in questo campo? Noi Ecologisti democratici lo chiediamo da tempo, vorremmo adesso risposte convincenti. L’ambiente, certo, non è solo economia: evoca anche e molto l’esigenza di allargare e tutelare meglio lo spazio dei beni comuni, simboleggia grandi cambiamenti culturali che investono gli stili di vita, la stessa idea di progresso e di benessere. Bene, per tutte queste buone ragioni – economiche, sociali, culturali, etiche – noi siamo convinti che nel tempo presente avrebbe poco senso un partito riformista che non metta l’ambiente tra le sue pietre angolari, e siamo convinti – ci si perdoni la brutalità  – che puntare sull’ecologia sia per il Pd anche un ottimo investimento sul terreno della tattica, della ricerca del consenso. Per un numero crescente di italiani l’ambiente è un valore, un bisogno, un interesse di prima importanza, ed è l’emblema di una prospettiva generale di cambiamento. Sarebbe bene che di questo valore, di questo bisogno, di questo interesse, di questa speranza di cambiamento non lasciassimo ad altri la rappresentanza, ma perché ciò avvenga dobbiano ritrovare – o scoprire? – il gusto di una qualche radicalità  nelle scelte, nelle posizioni che da sempre è segno distintivo di ogni vero riformismo. Come diceva il Premio Nobel Paul Samuelson, “o si produce burro o si producono cannoni”. Noi preferiamo il burro.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Il Paese fragile e le regole

Le zone colpite dal terremoto, in particolare l’Emilia, contano 24 morti, danni al tessuto abitativo, artistico ed economico per diversi miliardi di euro e gli sfollati sono circa quindicimila:un quadro che racchiuso in queste essenziali informazioni è già  di per se estremamente tragico e luttuoso, ma che ad una larga parte dei media e dell’informazione in generale sembra non essere sufficiente.

Così leggiamo e ascoltiamo di paesi interi rasi al suolo, di una regione al collasso, addirittura di cittadini alla fame.

Un riflesso condizionato ha fatto poi partire l’accostamento ai terremoti dell’Irpinia e del Friuli.

Terremoti che, ricordiamolo, provocarono 4mila morti e centinaia di migliaia di sfollati.

Vogliamo sottovalutare la portata di quanto è successo?

Assolutamente no, ma vogliamo invece mettere in luce che un certo tipo di informazione contribuisce a consolidare la fenomenologia del disastro naturale cui occorre semplicemente arrendersi, pensando che dopo essersi chinati di fronte all’ineluttabile catastrofe, si ricominci da dove si era lasciato, rifacendo gli identici errori.

Questo sentimento diffuso non stupisce, perchè è stato accarezzato e utilizzato per decenni dalla classe dirigente del nostro Paese, incentivando a costruire, sempre e comunque, antropizzando il territorio in nome della sicurezza del mattone.

E gli anni del berlusconismo di questa tendenza hanno fatto la propria cifra: solo un anno fa il governo Berlusconi voleva rilanciare l’economia appunto col mattone, con una ricetta da Italia anni 50.

La vocazione a occupare il territorio è una caratteristica di economie in cui il nostro Paese non può più riconoscersi, perchè gli oneri che derivano dalla dispersione energetica e dall’inquinamento si traducono in innalzamento dei costi e abbassamento della qualità  della vita.

L’occupazione del territorio va poi di pari passo poi con quella voglia sfrenata di deregulation, che duole dirlo abbiamo visto cosa ha comportato con molti capannoni industriali, magari costruiti 10 anni fa, e venuti giù come castelli di carte.

Non possiamo che chiedere, come facciamo da tempo, a volte non sostenuti con energica convinzione nemmeno dalla nostra parte politica,perchè in una Italia che fatica così tanto a rispettare le regole, dove la cosa pubblica è intesa spesso come la cosa di nessuno da sfruttare, svilire, mortificare, tuttavia non si impari mai la dura lezione dell’esperienza.

Forse perchè è il facile gioco di chi vuole fare il furbo, mescolando le carte e camuffando le ipotesi di sanatoria dell’abusivismo edilizio con la necessaria semplificazione burocratica. La continua proroga all’entrata in vigore delle norme antisismiche e il tentativo di “tana libera tutti” contenuto nei piani casa di troppe regioni, compresa una semplificazione in materia antisismica, devono appartenere ad una storia che non dobbiamo mai più vedere nel nostro paese.

Ora è il momento della solidarietà  nazionale e della necessità  di intervenire rapidamente, anche facendo ricorso a quei due centesimi in più sulla benzina che in molti, in maniera bipartisan, hanno criticato per un mal interpretato senso di equità .

Da domani cominciamo invece a considerare il nostro Paese come è realmente, ovvero fragile e bisognoso di attenzione, per cui ognuno deve fare la propria parte, iniziando magari a mettere in sicurezza la propria abitazione, cosa per la quale sarebbe veramente auspicabile l’estensione degli ecoincentivi del 55%.

Sperando di non sentire , magari dalle stesse voci che in questi giorni mostrano grave indignazione e foga polemica, qualche nuovo peana per quelle “semplificazioni” che in realtà  nascondono pericolose derugulation. E un banco di prova sarà  nei prossimi giorni osservare le reazioni all’insensata proposta del ministro Passera di liberalizzare le trivellazioni in mare.

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Ripartiamo dal basso

Queste elezioni hanno due vincitori: il centrosinistra che strappa alla destra un gran numero di governi locali (Pd e alleati vincono in 85 dei 157 comuni dove si è votato con il doppio turno, mentre governavano soltanto in 55), e i “5 stelle” che in particolare con l’exploit di Parma – non un comune qualsiasi, ma la seconda città  dell’Emilia e una delle capitali economiche e culturali del nord padano – dimostra di essere diventato molto di più di un gruppetto di urlatori dell’anti-politica. Il Pd deve guardare bene dentro entrambi questi dati. E’ legittima la soddisfazione per le  tante vittorie “in trasferta” – da Como a Rieti, da Monza ad Asti, da Lucca a Brindisi -, ma restano e anzi crescono i segnali d’allarme. Cresce l’astensione, e questo – insieme all’esplosione delle liste civiche –  ci fa perdere molti voti rispetto a quasi tutte le ultime elezioni (politiche, europee, regionali, amministrative); e si conferma una tendenza che già  si era manifestata l’anno scorso: nelle grandi città  vince il centrosinistra, ma eleggendo sindaci che spesso non sono del Pd e che talvolta il Pd non ha nemmeno sostenuto. Era successo nel 2011 a Milano, a Napoli, a Cagliari, è successo di nuovo ora a Palermo e a Genova. 
Questi segnali di segno diverso e in parte contraddittorio non possono sorprendere più di tanto. Chiunque abbia girato un po’ per lItalia in questultima campagna elettorale ha potuto toccare con mano sia lo squagliamento in atto nel Pdl e nella Lega sia la diffidenza e la distanza crescenti verso la politica tradizionale e verso i partiti, tutti i partiti, che hanno trovato voce nel non voto e nel successo vistoso dei “grillini”. Così, verrebbe quasi da ringraziare la vittoria di Pizzarotti a Parma  che almeno rende impraticabile per noi del Pd ogni lettura autoconsolatoria, e autoillusoria, dei risultati elettorali.
Per il Partito democratico, sottovalutare la rabbia, la disaffezione, il disprezzo verso chi fa il mestiere della politica che si vanno diffondendo in un numero sempre più grande di italiani, anche di italiani che si considerano di sinistra e di centrosinistra, sarebbe un errore mortale. Abbiamo poco tempo a disposizione, meno di un anno, per trovare risposte sensate e convincenti a questo disagio, risposte che fino ad ora non abbiamo nemmeno cercato. I dati del problema sono chiari: noi non intercettiamo un solo voto di quelli in fuga dal centrodestra, e ancora una volta – come era già  successo a Milano, in Puglia, a Napoli in forma sempre diversa – si dimostra che per attrarre i delusi di Pdl e Lega non serve a nulla presentarsi come più “moderati”, più di “centro”. Non serve a Palermo, dove il voto seppellisce al tempo stesso l’alleanza del Pd con Lombardo e l’idea che le elezioni si vincano a tavolino giocando al puzzle delle alleanze; non serve a Parma dove – lo dicono le prime analisi dei flussi elettorali tra primo e secondo turno – i quattro quinti di quelli che avevano votato due settimane fa per i candidati del Pdl e dell’Udc hanno preferito l'”estremista” Pizzarotti al “moderato” e rassicurante Bernazzoli. 
Se vogliamo mettere a frutto la lezione di questo turno elettorale, dobbiamo ripartire dal “basso” e da “fuori”. Dal basso mettendoci in ascolto dei nostri circoli: scopriremmo, per esempio, che per gli iscritti del Pd la “green economy”, l’attenzione ai beni comuni sono le vie maestre da battere per dare futuro all’economia e al lavoro, da battere senza se e senza ma anche contrastando le scelte recenti del governo Monti che rischiano di mettere in ginocchio migliaia di imprese che hanno scommesso sulle energie rinnovabili; o ancora, ci accorgeremmo che la base del Pd chiede posizioni molto meno caute su fronti delicati come la difesa dei diritti degli omosessuali o l’integrazione dei cittadini immigrati. Dobbiamo ripartire dal basso e anche ripartire da “fuori”, smettendola di perdere tempo con fumisterie improbabili e anacronistiche come “riscoprire la socialdemocrazia” e invece tornando alla vocazione originaria del Pd che contemplava tra l’altro scelte nette su temi oggi attualissimi quali la moralità  pubblica e i rapporti tra politica e affari.
Grillo dice un sacco di sciocchezze, a volte urticanti e pericolose come quando minimizza la mafia o se la prende con gli immigrati. Ma i suoi elettori pongono domande di cambiamento che abbiamo il dovere e la necessità  di accogliere. Finora evidentemente non lo abbiamo saputo fare. A Parma è suonata la campana dell’ultimo giro, abbiamo meno di un anno davanti per cominciare a correre. 

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