Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Carbosulcis: così non regge più

La lotta dei lavoratori del Sulcis chiede rispetto, solidarietà  e sostegno. Rispetto significa innanzitutto usare un linguaggio di verità , la solidarietà  è indispensabile per non far sentire soli quegli uomini e quelle donne costretti a forme di lotta estreme dallesasperazione causata da troppe promesse non mantenute, e il sostegno deve essere concreto e continuo per costruire soluzioni stabili e sostenibili.

Allora il primo dovere è dire con chiarezza che lattività  estrattiva di un carbone di bassa qualità  basso potere calorifico e alto tenore di zolfo, assai inquinante, non ha futuro. Non ce ne ha, questo pure va ricordato, da anni. Tenere in vita artificialmente la Carbosulcis ha causato lo sperpero di centinaia di milioni di soldi pubblici, ha fatto sopravvivere unattività  antieconomica e ambientalmente insostenibile, ha costretto centinaia di lavoratori a una fatica dannosa per la propria salute e improduttiva. Si sono letti in questi giorni paragoni impropri tra questa e la lotta dei minatori inglesi guidati da Scargill contro la Thatcher. Quella vicenda, comunque la si giudichi, fu il segnale della fine di unepoca. Questa, trentanni dopo, appare purtroppo fuori dal tempo. Illudersi che si possa risolvere il problema attraverso la sperimentazione dello stoccaggio dell’anidride carbonica è, per l’appunto, un’illusione. Non esistono al mondo progetti di questo tipo già  realizzati, e in ogni caso un intervento così, costosissimo, non risolverebbe il problema della scarsa qualità  della materia prima. Nemmeno, ci pare, vale lobiezione che è quel lavoro, faticoso e ingrato, e non un altro che i  minatori vogliono conservare, che nei commenti di qualche commentatore di destra sconfina nell’esaltazione un po’ pelosa di quanto è bella la fatica del minatore sporco di carbone. La verità  è che mai a questi lavoratori è stata offerta unopportunità  diversa. Uno dei loro rappresentanti a un giornalista del Corriere ha raccontato con orgoglio di quando, quindici anni fa, l’allora direttore generale del Minstero dellAmbiente Corrado Clini, arrivato per porre com’era suo compito problemi ambientali, venne letteralmente cacciato. Esemplare caso di miopia: si fosse iniziato allora un percorso di riconversione radicale che avesse previsto, in un orizzonte temporale definito, anche la dismissione delle attività  estrattive, non saremmo oggi a questo punto. Un punto in cui sembra difficilissimo trovare una soluzione che garantisca reddito, lavoro, sostenibilità  economica e ambientale. Ma le soluzioni ci sono, tocca al Governo metterle in campo con un progetto che consenta il rilancio industriale dell’area e dia adeguate garanzie occupazionali ai lavoratori della Carbosulcis, puntando su produzioni che abbiano un futuro. Energie rinnovabili innanzitutto: la Sardegna offre straordinarie opportunità  in questo settore, dallinsolazione che permette di sperimentare forme di sfruttamento dellenergia solare che vadano oltre il fotovoltaico, come ad esempio le tecnologie basate sul solare termodinamico, alla forte ventosità . Cosa impedisce di collocare nel Sulcis imprese di ricerca e realizzazione di impianti solari ed eolici? I soldi pubblici investiti darebbero un ritorno certo e non sarebbero sussidi a perdere come le centinaia di milioni erogati in questi ultimi anni. E ancora: sfruttare quei siti, straordinari come archeologia industriale, a fini turistici è davvero più illusorio che tenere in vita le attività  estrattive? Tutto questo va fatto presto, coinvolgendo il territorio e la Regione Sardegna. Va fatto impegnandosi, anche, in un imponente sforzo nella formazione dei lavoratori per le nuove attività  che saranno chiamati a svolgere. I minatori del Sulcis meritano di meglio che venire presi in giro come avvenuto per troppi, troppi anni.   

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

Ilva: la strada di Clini non la consulta

Il Governo si fermi e lasci perdere quell’insensata idea annunciata lunedì da Catricalà  di ricorrere alla Corte Costituzionale sul provvedimento del Gip di Taranto. Idea insensata sia sul piano strettamente formale – su cosa dovrebbe pronunciarsi la Corte? – sia sul piano politico. àˆ davvero insopportabile che dopo anni, addirittura decenni, in cui chi avrebbe dovuto controllare, monitorare, sorvegliare il comportamento dell’azienda, e che invece, per ignavia e/o complicità  con comportamenti che appaiono clamorosamente delittuosi portati avanti prima dalla proprietà  pubblica e poi da una famiglia arrogante, nulla ha fatto per tutelare la salute di cittadini e lavoratori e l’ambiente, oggi provi a fermare l’unico pezzo di Stato che sta finalmente facendo suo dovere, svolgendo le indagini. Con questo non si vuole dire che l’ultimo provvedimento, quello con cui il Gip, in contrasto con la sentenza del Tribunale del Riesame, dispone il fermo dell’impianto non sia preoccupante e non appaia eccessivo. Ma lo sforzo che Governo e gli enti locali devono giustamente fare per tenere l’impianto aperto, assicurando quel bene preziosissimo che è il lavoro, mentre si impone finalmente all’azienda di investire nelle tecnologie che permettono , in tante altre parti del mondo dove si produce acciaio, a partire dal “modello tedesco”, di farlo senza uccidere salute e ambiente, non può e non deve mai passare attraverso un attacco a quei magistrati che hanno avuto semplicemente il coraggio di servire il loro Paese e la ricerca della verità . Il governo reclama il diritto di fare la politica industriale di questo paese. Giusto, è quello che è mancato in questi anni. Per l’Ilva la strada indicata da Ministro Clini sembra quella giusta: rifiutare il fermo dell’impianto perchè sarebbe assai difficile farlo ripartire, ma avviare immediatamente il programma di bonifiche anche con i soldi della collettività  per i guasti provocati negli anni di pubblica proprietà  e costringere finalmente i Riva a investire in best tecnologies sia sulle bonifiche che sui processi produttivi. Mettere ancora oggi in contrapposizione ambiente e salute da una parte, e sviluppo e occupazione dall’altra è non solo antistorico ma una sciocchezza che impedirebbe ogni progresso.
P. S. A proposito di politica industriale e prerogative del Governo certo che il programma annunciato dal Ministro Passera sull’energia appare del tutto inadeguato e per alcuni tratti – libertà  di trivellazioni e ulteriore freno allo sviluppo delle rinnovabili – addirittura dannoso. Compito del Partito Democratico in Parlamento sarà  quello di correggerlo radicalmente

La via stretta

Del dramma sociale di Taranto si può pensare tutto tranne giudicarlo sorprendente. La storia dell’Ilva è antica e molto esemplare. E’ la storia dei grandi poli dell’industria pesante italiana, quasi sempre industria pubblica, disseminati dagli anni Cinquanta e Sessanta nel cuore di città  grandi e piccole: Porto Marghera a Venezia, Bagnoli a Napoli, Cornigliano a Genova, e poi Taranto, Mantova, Manfredonia, Augusta. Scelta che già  quando venne compiuta – questa è una prima verità  da affermare contro troppi racconti fantasiosi – mostrava evidenti controindicazioni per il rischio di esporre centinaia di migliaia di persone all’impatto ravvicinato di un forte, spesso devastante inquinamento. Quel modello poi entrò in crisi, e non solo perché l’ambiente e la difesa dall’inquinamento sono diventati sempre più importanti nella percezione sociale. E’ entrato in crisi anche sul piano squisitamente industriale. Così è rimasta l’eredità  terribile di decenni di avvelenamento impunito, di immense aree da bonificare, e al tempo stesso se ne sono andati centinaia di migliaia di posti di lavoro.  Qui è la differenza con Taranto, dove alla fine del secolo scorso lo stabilimento siderurgico Italsider, con il suo carico di problemi ambientali mai affrontati, venne acquistato dalla famiglia Riva, e dove tuttora lavorano oltre diecimila persone cui se ne aggiungono almeno altrettante nell’indotto. I padroni privati dell’Ilva, come prima i padroni pubblici, hanno responsabilità  rilevantissime per non avere fatto ciò che potevano e dovevano – come investimenti e come miglioramenti tecnologici – per abbattere l’impatto inquinante della fabbrica. Così, come ha evidenziato Legambiente in un suo recente dossier, l’Ilva è in Italia l’impianto industriale che emette in assoluto più  diossina, di idrocarburi policiclici aromatici, di piombo, di mercurio, di benzene, di cromo, con conseguenze sanitarie assai gravi. Che la magistratura da alcuni anni abbia cominciato ad occuparsi dell’Ilva come di altre situazioni analoghe di inquinamento industriale impunito – basti pensare alle inchieste dell’allora procuratore Casson su Porto Marghera – non è stato solo inevitabile: è stato ed è provvidenziale. Ma nel caso di Taranto la via da percorrere è particolarmente stretta: bisogna riportare l’llva in condizioni di legalità  e in condizioni di sicurezza ambientale e sanitaria per chi ci lavora e per tutti i cittadini di Taranto, e nello stesso tempo bisogna evitarne la chiusura che rappresenterebbe per la città  una catastrofe sociale insopportabile. E’, lo ripetiamo, una via molto stretta, ma è l’unica realistica e responsabile. E’ la via imboccata non da oggi dalla Regione Puglia di Vendola, che con una legge del 2008 ha equiparato i limiti alle emissioni in atmosfera di diossina per gli stabilimenti pugliesi a quelli europei. I Riva hanno cercato in ogni modo di fermare questa norma, ma fortunatamente hanno perso e hanno dovuto avviare interventi concreti per ridurre le emissioni inquinanti. Ora bisogna proseguire sulla stessa strada,  per dare a Taranto, nei tempi più rapidi, un’Ilva che non sia più fabbrica della morte. Infine, una notazione generale. Dopo i sigilli messi dalla magistratura all’Ilva, qualcuno è tornato ad agitare l’idea che lavoro e ambiente siano interessi inconciliabili, e che in una fase come l’attuale di acuta crisi economica il primo interesse debba avere la meglio sul secondo. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi. Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come  in qualunque altra città , non è disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio. Per l’industria italiana, puntare sull’eccellenza ambientale non è soltanto un  obbligo imposto dalle leggi; è l’unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l’automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale l’hanno davvero capito: c’è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

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