Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Sabato prossimo a Roma nasce l’Associazione degli Ecologisti Democratici.

Sabato prossimo a Roma nasce l’Associazione degli Ecologisti Democratici.
Viste le discussioni delle ultime settimane, è bene chiarire in premessa che questa nostra tutto sarà  tranne che una nuova, ennesima corrente del Pd.
Siamo più presuntuosi. Mentre le questioni dell’energia, del cibo, dell’acqua s’impongono nel mondo come priorità  ambientali, sociali, economiche, vorremmo che tutto il Partito democratico, non solo un suo spicchio, scelga l’ambiente come suo terreno di elezione, vorremmo che il Pd come tale dia voce ad un ambientalismo politico moderno, propositivo, di governo, liberato dalle ipoteche minoritarie dell’ecologismo del no e al  tempo stesso capace di liberare il nostro nuovo partito dalle ipoteche ideologiche del Novecento.
Non è un obiettivo scontato, sappiamo bene che per raggiungerlo dobbiamo lanciare e vincere dentro il Pd una difficile sfida politica e culturale: per questo abbiamo scelto di costituirci in associazione, dando vita in tutta Italia a circoli ecodemocratici aperti a coloro che del Pd fanno parte, in qualunque “componente ” si riconoscano, e aperti anche a tanti che al Pd non hanno aderito ma condividono le nostre ragioni.
Intanto, un primo risultato non piccolo noi ecodemocratici l’abbiamo già  raggiunto: non siamo “ex”, come sono ancora troppi nel Pd. Tra noi c’è chi viene dai Ds, chi dalla Margherita, chi dall’associazionismo, chi anche dai Verdi: ma come toccheranno con mano tutti quelli che parteciperanno all’assemblea di sabato, a cominciare da Walter Veltroni che interverrà  la mattina, oggi siamo e ci sentiamo soltanto ecologisti democratici.
Che mattoni possiamo portare da ambientalisti alla costruzione del Pd?
Per prima cosa vorremmo contribuire, con il nostro punto di vista, a una riflessione proficua sul significato della sconfitta elettorale e sui modi per avvicinare il tempo della rivincita.
Il Pd ha bisogno di darsi una chiara, definita “visione del mondo”. Come ha detto Pierluigi Bersani all’assemblea nazionale recuperando una parola che la storia del Novecento ha ridotto a tabù, ma una parola in sé nobilissima e utile, ha bisogno di un’ideologia, cioè di un discorso compiuto sulla realtà  che venga prima dei programmi, delle proposte su questo o quel tema.
Finora noi abbiamo fatto una rivoluzione fuori di noi, una rivoluzione positiva che ha cambiato radicalmente il paesaggio della politica italiana avvicinandolo alle esigenze di una politica non frammentata, di una politica capace di guardare all’interesse generale. Ma ci resta da realizzare un cambiamento altrettanto radicale dentro di noi: nel nostro sguardo sulle cose, nella nostra idea di futuro.
Quasi tutti convengono che il nostro problema principale è di radicarci nel territorio. Ma radicamento territoriale vuol dire prima di tutto, lo ha scritto Giorgio Ruffolo in un bellissimo articolo su la Repubblica di qualche giorno fa, percepire i grandi cambiamenti sociali, culturali, persino antropologici che hanno camminato in questi anni. Vuol dire, per esempio, guardare in faccia quel bisogno di luogo – dal quale nasce tanto il ritornello leghista del “padroni a casa nostra” quanto l’esplosione di mille Nimby – che troppi di noi vedono come un residuo del passato e che invece è un pezzo importante della modernità  e dei processi di globalizzazione: un bisogno che va mediato, governato, ma che non si può liquidare come un’anticaglia. E radicamento territoriale vuol dire scoprire che oggi sempre più persone votano non in quanto operai o imprenditori, ma in quanto giovani o vecchi, in quanto membri di una comunità  territoriale: l’appartenenza generazionale, l’appartenenza locale spesso contano di più dell’appartenenza sociale nell’orientare opinioni, aspirazioni, anche scelte elettorali. Ancora, radicamento territoriale vuol dire radicarsi nei problemi inediti della contemporaneità , a cominciare dall’ambiente: che è un grande tema sociale ed economico decisivo per noi contemporanei prima che una questione di generosità  verso le generazioni future; che è il terreno su cui si può declinare in senso progressista, solidale il crescente bisogno comunitario che se nutrito da altri porta ad esiti di chiusura e di intolleranza. E badate: se la questione ambientale non cominciamo a presidiarla noi, se non la mettiamo davvero al centro del nostro discorso pubblico, presto o tardi anche in Italia lo farà  la destra come già  sta avvenendo in tutta Europa da Cameron ad Angela Merkel. 
Questo passaggio non riguarda naturalmente solo il centrosinistra italiano: è tutto il riformismo che deve ripensare se stesso, innovare rispetto a un tempo recente in cui è sembrato talvolta subalterno, persino più della destra, al pensiero unico del mercato globale come via automatica e obbligata al progresso (peccato venga da Tremonti, ma questa immagine della sinistra che ambisce a fare il manager della globalizzazione non è proprio peregrina…). La difficoltà  di proporre idee nuove per i problemi, nuovi, del presente, ma restando fedele ai valori di socialità , solidarietà , giustizia che sono la ragione sociale del riformismo, è il nocciolo dell’attuale crisi d’identità  e di consenso del centrosinistra: che come ha  ha ricordato Veltroni sabato scorso, solo dieci anni fa governava quasi tutti i Paesi del G8 e oggi quasi dappertutto è minoranza. Anche per questo non avrebbe senso che il Pd, nato per costruire in Italia un riformismo all’altezza delle sfide del XXI secolo, cercasse ora rifugio al riparo di una tradizione, quella socialista, che a sua volta è chiamata a trasformarsi che peraltro, pure questo va detto, non appartiene alla storia di nessuna delle famiglie politiche che al Pd hanno dato vita.
Per noi ecodemocratici, un altro terreno fondamentale su cui il Pd deve mostrarsi innovativo, netto, è quello, per dirla con Alex Langer, di una “ecologia della politica”. Come ha affermato Veltroni all’assemblea nazionale, a Roma e in ogni territorio chi rappresenta il Pd, chi chiede voti per il Pd, deve testimoniare un rigore etico che sia coerente, oggettivamente coerente con l’obiettivo di dare corpo a una “buona politica”. Adesso, dobbiamo dirlo e dircelo senza paura, non è sempre così, e in particolare nel Sud si avverte il rischio di un Pd che finisca per assommare vocazione minoritaria e stili politici non proprio edificanti.
Questi sono i temi principali sui quali si impegneranno gli ecodemocratici. Nella speranza che nel Pd in costruzione si cominci a parlare un po’ meno della forma-partito e un po’ più della sostanza del partito, a guardare un po’ meno nel nostro ombelico e un po’ di più in direzione degli italiani.   
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante
 

 

IN MARCIA PER IL CLIMA

In marcia per il clima. Sotto questo slogan, sabato scorso a Milano un vasto cartello di associazioni – da quelle ambientaliste, guidate da Legambiente, alle organizzazioni agricole, dai sindacati a Slow Food, dall’Arci alle Acli – si è ritrovato a Milano per una giornata di iniziative e manifestazioni, conclusa con un corteo da Piazza San Babila a Porta Venezia. Erano moltissimi, oltre 50 mila secondo gli organizzatori, e in un clima di festa hanno detto i loro “no” – al nucleare, al Ponte sullo Stretto -, ma soprattutto hanno provato a raccontare quel uturo migliore per cui quotidianamente si impegnano nei loro territori. Un futuro fatto di risparmio energetico e fonti rinnovabili per combattere l’aumento dell’effetto serra e affrontare i mutamenti climatici in atto, di solidarietà  nei confronti dei popoli più poveri (erano tanti i volontari impegnati nelle organizzazioni non governative, a partire da quelli della Focsciv). Un futuro con più coesione e giustizia sociali.

Alla manifestazione ha aderito anche il Partito Democratico, e una delegazione degli Ecologisti Democratici ha partecipato al corteo. E’ auspicabile che questa adesione non resti solo un atto formale, ma sia la premessa di una rinnovata, più forte attenzione del Pd verso la grande questione dell’ambiente – centrale nel dibattito pubblico in gran parte del mondo e ripetutamente indicata da Walter Veltroni come un tema fondativi dell’identità  democratica – e verso le persone in carne e ossa che ne fanno tutti i giorni la base di preziose esperienze di cittadinanza attiva, di una “buona politica”.

Non sappiamo quanti di coloro che hanno sfilato a Milano abbiano votato per il Pd, ma certo una gran parte di loro ci guarda con curiosità  ed interesse. Una stessa curiosità , un analogo interesse deve mostrare il Pd nei loro confronti. Nelle cose che dicevano, che chiedevano non c’è alcun “massimalismo“, c’è invece una gran voglia di cambiare anche radicalmente modelli di consumo e stili di vita; c’è l’impegno sociale quotidiano di migliaia di italiani, di decine di associazioni che magari non “bucano” i media ma senza l’emergia e l’intelligenza dei quali è impensabile costruire un forte, maggioritario partito riformista. Non si tratta, com’è ovvio, di immaginare per questa o quella sigla ruoli improbabili e impropri da “fiancheggiatori”: la maggior parte delle organizzazioni presenti a Milano hanno fatto da tempo e per fortuna una scelta irreversibile di autonomia. Piuttosto occorre riconoscere a questi soggetti la piena dignità  di interlocutori politici, e dunque confrontarsi con loro e ricavarne idee, suggestioni, passioni con cui nutrire una nostra credibile e convincente idea di futuro. Parlando di ambiente, questo incontro è facilitato dall’obiettiva vicinanza tra la piattaforma della manifestazione di sabato a Milano e il programma del Pd: contro i mutamenti climatici e contro il caro-petrolio, puntare su una politica energetica volitiva e innovativa, che invece di inseguire le sirene improbabili e incerte di un ritorno al nucleare promuova il risparmio energetico, l’efficienza, le fonti rinnovabili, forme diffuse di produzione di energia.

Ognuno deve fare la sua parte: il Partito Democratico impegnandosi in Parlamento e negli enti locali (specie dove siamo al governo) per concretizzare questa svolta, le associazioni sensibilizzando i cittadini e premendo sulla politica, su tutta la politica, perché l’Italia, in fatto di energia, entri finalmente nel XXI secolo. 

 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Ambientalismo del fare

I media italiani quasi non se ne sono accorti, ma tra i segni politici, culturali, programmatici più innovativi del Pd guidato da Walter Veltroni, c’è la priorità  assegnata a quello che Veltroni stesso ha chiamato “ambientalismo del fare”. Al Lingotto, a Spello, nel discorso all’assemblea costituente di sabato scorso – cioè nelle tre principali occasioni in cui il segretario ha presentato la sua idea di Partito democratico – il racconto veltroniano della “weltanschaung” democratica è sempre partito dall’ambiente.

“La nuova Italia – così Veltroni al Lingotto – nasce dalla riscrittura di almeno quattro grandi capitoli della nostra vicenda nazionale: ambiente, nuovo patto fra le generazioni, formazione e sicurezza. I mutamenti climatici sono il primo banco di prova di questa vera e propria sfida. (…) L’Italia deve giocare da protagonista questa partita recuperando il terreno perduto, oppure non solo avremo mancato di dare il contributo che ci tocca a fermare i mutamenti climatici, ma ci ritroveremo più arretrati, meno dinamici e competitivi degli altri grandi paesi europei”.
A Spello: “Nessun popolo della terra ha ereditato tanto dai suoi progenitori. E nessun popolo, meglio del nostro, è messo nelle condizioni di capire come lo sviluppo economico non solo non sia in contrasto, ma possa e debba sposarsi con la qualità  della vita. Troppo a lungo crescita economica e salvaguardia dell’ambiente, espansione urbanistica e tutela del patrimonio artistico, perfino lavoro e cultura,  occupazione e scolarizzazione, sono stati pensati come valori contrapposti, come se l’uno fosse una minaccia per l’altro. E invece, oggi abbiamo compreso che quei valori sono tali solo se promossi insieme. (…) Questa è la modernità  che ci piace. Quella che unisce l’incremento del Pil alla qualità  della vita e alla tutela della natura”.
Infine, all’assemblea costituente di sabato scorso, Veltroni ha indicato, come prima di dodici priorità  programmatiche, la coppia infrastrutture-qualità  ambientale: sostenendo che serve una politica energetica europea comune, orientata a ridurre le emissioni dannose per il clima e ad aumentare efficienza energetica e peso delle energie rinnovabili, proponendo l’obiettivo – cui ha dato il nome di “rottamazione del petrolio” – di trasformare ad energia solare entro dieci anni il riscaldamento di tutti gli edifici pubblici e privati, e affermando che nell’immediato futuro lo sviluppo delle tecnologie necessarie per fronteggiare i problemi ambientali sarà  l’equivalente di ciò che è stato nel ventennio scorso la rivoluzione informatica, cioè “il motore di un più vasto cambiamento economico e sociale”.

Dopo il Lingotto, dopo Spello, dopo l’assemblea costituente di sabato, finalmente l’Italia non è più l’unico grande Paese occidentale dove di ambiente in politica si occupano soltanto i Verdi. Come in Francia con Sarkozy e la Royal, come in Inghilterra con Brown e Cameron, come in Germania con la Merkel, come in Spagna con Zapatero, come negli Stati Uniti con Obama, Clinton e Mc Cain, anche in Italia grazie a Veltroni la politica con la P maiuscola, la politica dei leader – quella del Pd, perché la destra italiana resta la più anti-ambientalista d’Europa – mette l’ambiente al centro del suo discorso.

Questo risultato è tanto più importante visto cosa sono – meglio: cosa sono diventati – i Verdi italiani: un partitino autoreferenziale, che prende la stessa manciata di voti di quando è nato vent’anni fa e la cui principale preoccupazione – una sorta di “ragione sociale” – è accaparrarsi frammenti di visibilità  offrendo sponda e protezione a qualunque gruppo, comitato che si oppone a qualcosa. Poco importante se il “qualcosa” siano pale eoliche o centrali inquinanti, ferrovie o autostrade, discariche o impianti di compostaggio per riciclare i rifiuti. 

Il nanismo numerico e politico dei nostri Verdi ha contribuito a un’altra anomalia tutta italiana. Nel mondo la questione ambientale – a cominciare dal tema inedito e drammatico dei mutamenti climatici – è in cima all’attenzione dell’opinione pubblica e delle stesse forze politiche; a destra come a sinistra si dà  atto all’ambientalismo di avere capito e detto per primo che nel tempo presente senza l’ambiente al centro non c’è vero progresso né sviluppo duraturo; la maggior parte degli osservatori individua nella rivoluzione energetica, nell’uscita dall’età  del petrolio, il principale banco di prova non solo per affrontare i problemi dell’inquinamento ambientale, ma per modernizzare l’economia e lavorare ad un mondo nel quale il riscatto sociale ed economico di Paesi immensi come la Cina e l’India non sia pagato con il suicidio ecologico dell’intera umanità . Così nel mondo, mentre in Italia l’ambientalismo politico di cui si parla è quello che impedisce di fare, di fare pure le cose indispensabili per difendere l’ambiente: l’ambientalismo del no ha impedito di fare in Campania gli impianti di compostaggio e i termovalorizzatori, che si batte contro i rigassificatori e contro l’alta velocità , contro l’eolico e magari contro le tramvie.

Adesso però il Pd deve guardarsi da un pericolo: l’ambientalismo del fare vuol dire che per noi ci sono molte infrastrutture che vanno fatte proprio e innanzitutto nell’interesse dell’ambiente, ma l’ambientalismo del fare non deve ridursi, nella vulgata che ne danno i giornali, magari anche nelle intenzioni di tanti nostri compagni ed amici di partito tuttora fermi ad un’epoca in cui benessere e sviluppo erano sinonimi di ciminiere ed asfalto, all’obiettivo di togliere di mezzo lacci, lacciuoli, veti – anche i veti dell’ambientalismo del no – che hanno rallentato le grandi opere. Intanto perché le grandi opere non devono essere un tabù ma nemmeno un totem: ce ne sono di indispensabili e urgenti – indispensabili e urgenti anche per ragioni ambientali: è il caso delle ferrovie, degli impianti per riciclare i rifiuti, degli stessi rigassificatori – e ce ne sono di dannose. Per esempio, in un Paese come il nostro dove tre quarti dei passeggeri e delle merci si spostano su strada e dove i pannelli solari sono un ventesimo che in Germania, bisogna dire sì all’alta velocità  e a un forte potenziamento del trasporto pendolare e dei trasporti collettivi urbani, e no a nuove autostrade; sì ai rigassificatori e agli impianti che utilizzano le energie pulite, no a nuove centrali a  carbone e no a un improbabile ritorno al nucleare. 

E poi l’ambientalismo del fare non è solo una questione di infrastrutture: è molto di più, è l’idea che oggi l’ambiente sia per moltissimi un criterio decisivo per misurare il progresso e il benessere; è la convinzione che per l’Italia l’ambiente è il simbolo di alcune delle nostre risorse – anche risorse economiche – più strategiche: senza valorizzare l’ambiente, il paesaggio, il territorio, non c’è futuro per il turismo, per l’industria agroalimentare, per lo stesso made in Italy che dalla moda al design deve il suo successo anche e molto al fatto di evocare la bellezza italiana, quella di Firenze e di Capri, delle Cinqueterre e di Venezia.

Il Pd è un partito nato nel XXI secolo. Facciamo tutti uno sforzo – noi che abbiamo scelto di farne parte, quelli che da fuori ne osservano i primi passi – per non viverlo e non descriverlo con la testa ancora immersa nel Novecento.  

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

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