Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

G8 di Genova. La sentenza ha negato la verita’

Noi due quel giorno eravamo a Genova. Eravamo lì insieme alla nostra associazione, Legambiente, e a migliaia di cittadini, in larghissima parte giovani che si accostavano per la prima volta alle manifestazioni politiche e in stragrande maggioranza non solo pacifici ma assolutamente alieni da  ogni forma di violenza. La loro, la nostra passione era contestare il pensiero unico allora dominante, quello per il quale bastava lasciar fare al mercato e la globalizzazione avrebbe reso tutto il mondo più ricco e sancito la fine della storia: quel pensiero che oggi è finito sommerso sotto le guerre, il terrorismo, la crisi finanziaria, i mutamenti climatici, ma che per molti anni è stata la stella polare delle classi dirigenti di tutto il mondo.

Quei ragazzi di Genova, poi, gli stessi che l’anno dopo animarono le centinaia di seminari e convegni del “Social Forum” di Firenze, avevano un’immensa voglia di capire, di studiare, altro che menare le mani!  Ce lo ricordiamo bene quel clima stralunato, inquieto, teso in cui si svolse il corteo all’indomani dell’uccisione di Carlo Giuliani, ci ricordiamo bene la preoccupazione nostra di impedire ai “black-block” di avvicinarsi ai ragazzi che sfilavano disarmati, straniti ma convinti delle loro ragioni. E ci ricordiamo la tensione provocata dal comportamento della polizia, più pronta ad intimidire i manifestanti pacifici che non ad isolare e reprimere i teppisti. Un comportamento che successivamente assunse drammatica chiarezza quando si seppe dei fatti accaduti nella scuola Diaz e a Bolzaneto.

E’ assurdo pensare che quegli atti sistematici di inaudita violenza su persone inermi siano avvenuti solo per l’improvviso impazzimento di un manipolo di poliziotti incattiviti. A Genova nel luglio 2001 le forze di polizia, a cominciare dalle loro catene di comando, si comportarono in modo non solo inadeguato ma sleale: sleale verso le vittime di soprusi e violenze, sleale verso le leggi della Repubblica, sleale verso la stessa dignità  e verso l’onore delle forze dell’ordine. E’ questa la verità  che la sentenza di ieri ha negato, che le indagini evidentemente incomplete non hanno saputo ricostruire. Ed è in nome di questa verità  che tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, la libertà , i diritti devono continuare a battersi perché sia data  giustizia alle vittime della Diaz e restituito l’onore alla Repubblica punendo i suoi servitori sleali.

Francesco Ferrante

Roberto Della Seta

 

COMMISSIONE ATTALI

Ci pare discutibilissima e stucchevole questa idea che il Partito Democratico, per dimostrare d’essere una forza riformista moderna, responsabile, credibile per governare, debba vestirsi di un abito bipartisan, sforzandosi in ogni modo di non apparire pregiudizialmente ostile all’attuale maggioranza.

Se Giuliano Amato entra a far parte della Commissione Attali “bonsai” voluta da Alemanno non è certo uno scandalo: Amato è un esponente autorevole del Pd ma è anche uno studioso di indiscusso prestigio, il suo contributo a questa iniziativa, che sarà  di sicuro pregevole, non impegna il Pd. Come non ha impegnato minimamente la sinistra francese, e anzi da sinistra è stata aspramente contestata, la scelta di Kouchner o dello stesso Attali di collaborare con Sarkozy. Del resto, l’iniziativa di Amato nasce da evidenti motivazioni personali: da una parte la resistenza di un politico di lungo corso, da decenni sotto le luci della ribalta, a lasciare le prime file del palcoscenico; dall’altra la sua legittima speranza che mostrandosi “super-partes” si può meglio accreditare come pretendente per futuri ruoli di garanzia istituzionale.

Ma dare dignità  politica alla stampella offerta da Amato al neo-sindaco di Roma, questa è una tentazione –  lo ha detto bene Andrea Romano in un’intervista a La Stampa – molto più italiana che europea: viene dal riflesso pavloviano di troppi che provenendo dalla destra missina, come Alemanno, ma anche dalla sinistra ex-comunista, avvertono tuttora una sorta di “ansia da legittimazione”. 

Insomma, al contrario di ciò che pensano i “terzisti” nostrani, questa voglia di consociazione è un frutto malato della prima repubblica e della sua democrazia bloccata, piuttosto che l’annuncio dell’approdo del sistema politico italiano alla forma e alla sostanza di una moderna e compiuta democrazia bipolare. In Francia e in Inghilterra la polemica tra destra e sinistra è sempre acida e corrosiva (basta dare un’occhiata agli scontri settimanali nella “House of Parlament”), e in campagna elettorale raggiunge livelli che non sfigurano nemmeno di fronte all’antiberlusconismo ossessivo di Travaglio o dello stesso Di Pietro. Ancora Andrea Romano ricordava che in Germania la Merkel governa con l’Spd non per vocazione ma solo perché i risultati del voto glielo hanno imposto, e che nell’imminente campagna elettorale socialisti e democristiani, pur alleati, si scambieranno colpi durissimi pur di non essere condannati a rinnovare la “grande coalizione”. Infine negli Stati Uniti, tanto nelle primarie che ora nello scontro finale per la presidenza gli opposti candidati avevano e hanno un unico obiettivo: dimostrare che la propria visione, il proprio programma sono diversi e migliori rispetto a quelli del proprio avversario diretto.

Questo deve fare anche il Pd: impegnarsi per rendere quanto più chiara e netta la propria “differenza” dal centrodestra, e per convincere la maggioranza degli italiani della superiorità  delle proprie proposte. Essere riformisti non significa sforzarsi di assomigliare ai propri avversari, e l’opposizione, sia a Roma che in Italia, va fatta come si fa in tutto il mondo democratico, appunto “opponendo” e “opponendosi”. Opponendosi al centrodestra anche “pregiudizialmente”, poiché il “giudizio” sulla pericolosità  e l’inadeguatezza di questo centrodestra “previene” – nel senso letterale di venire prima, di derivare da una inconciliabilità  generale di visioni e di valori, e anche tendenzialmente da una diversità  di riferimenti sociali – i giudizi sulle scelte di volta in volta compiute dal governo Berlusconi o dalla Giunta Alemanno. Dalla destra il Pd ha molto da imparare, come agilità  nel mettere al proprio ordine del giorno temi, bisogni inediti che nel tempo presente si vanno radicando nella società . Ma le nostre risposte a questi bisogni e a questi temi, le nostre idee politiche come si diceva una volta, non possono che essere “pregiudizialmente” altre: sulle tasse come sull’immigrazione, sul welfare come sull’ambiente, sulla giustizia come sui diritti civili.

Molti osservatori, e anche qualcuno dentro il Pd, sembrano invece augurarsi un Partito Democratico che non solo – cosa utile e giusta – cerchi un buon accordo con il centrodestra su nuove e più efficaci cornici istituzionali, ma che snaturi il proprio ruolo di opposizione diventando una via di mezzo tra consulente e vigilante di chi governa: proponendo qualche puntuale modifica a questa o quella proposta di riforma, o richiamando governo e maggioranza al rispetto del loro programma. “Ricordatevi di abbassare le tasse, o verrete meno alle vostre promesse”: accenti così possono tornare buoni come espedienti tattici nella polemica quotidiana, ma il nostro compito è soprattutto di persuadere gli italiani, la metà  più uno degli italiani, che sia l’azione della destra, sia il suo programma – rispettato o no – non corrispondono all’interesse generale.

Evitiamo allora le ipocrisie: noi del Pd – dirigenti, militanti, sostenitori – ci auguriamo che la destra fallisca il prima possibile e nel modo più conclamato, perché pensiamo che più a lungo governa e più farà  danno all’Italia. Questo tutti i giorni ci diciamo scambiandoci opinioni e previsioni dalle stanze del Parlamento alle riunioni politiche alle chiacchierate estive. Questo sarebbe bene dicessimo anche pubblicamente.

 

ROBERTO DELLA SETA

FRANCESCO FERRANTE

G8 IN GIAPPONE. FAME, ENERGIA, CAMBIAMENTI CLIMATICI… GRANDI SFIDE E RISPOSTE INADEGUATE

Le riunioni del G8 da molto tempo si concludono con un nulla di fatto in termini di proposte concrete, oppure, ancor peggio, con grandi promesse – come nel caso della lotta alla povertà  e il sostegno ai Paesi più poveri del mondo e all’Africa in particolare – cui non seguono i fatti. Anche la riunione in Giappone non ha fatto eccezione. La questione è talmente evidente da mettere in discussione la stessa composizione del “club” come recentemete ha dichiarato anche lo stesso Sarkozy. Probabilmente sono prorio i due temi che negli ultimi anni della globalizzazione si sono imposti al centro della discussione, la lotta ai mutamenti climatici e quella contro la povertà , che richiederebbero quell’allargamento cui si sono immediatamente dichiarati contrari Bush e Berlusconi. Che senso ha discutere della fame nel mondo, delle epidemie, dei disastri causati da eventi meteorologici estremi non confrontandosi con i rappresentanti di quei popoli che più ne soffrono le conseguenze? E che senso ha parlare di come ridurre le emissioni di gas di serra senza coinvolgere quei paesi, dalla Cina all’India al Brasile, che vivono un periodo di ruggente crescita economica? Poco o nulla.
Prendiamo il caso di ciò che è stato detto riguardo in Giappone ai mutamenti climatici, il “caro petrolio”, la questione energetica. Temi centrali per lo sviluppo in qualsiasi parte del mondo, per la vita delle persone qui e nei Paesi più poveri. Il petrolio oltre 150 dollari sta mettendo a dura prova tutte le economie, i  mutamenti climatici non sono più una vaga minaccia per il futuro ma una drammatica realtà  del presente. Di fronte a tali emergenze sarebbero necessarie risposte serie che radicalmente affrontino la questione che è centrale: l’economia mondiale basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili non regge più. L’Europa ormai da anni ha scelto come assi fondanti della sua politica del futuro per liberarsi dalla “schiavitù del petrolio”, l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Da qui gli obiettivi 20-20-20 al 2020 (riduzione del 20% delle emissioni di CO2, risparmio del 20% di energia, ricorso per il 20% della produzione alle rinnovabili). La scommessa è quella di puntare sull’innovazione tecnologica per affrontare il problema ambientale da un lato e per dare nuovo ossigeno ai nostri sitemi economici dall’altro. Di questo forse si sarebbe dovuto parlare in un consesso internazionale largo: come trasferire le tecnologie adatte ai paesi emergenti, come conciliare la sacrosanta aspirazione di quei popoli ad un maggior benessere con la ineludibile esigenza di contenimento delle emissioni di gas di serra. Invece niente. Nel documento finale al solito si parla di un dimezzamento delle emissioni al 2050 senza nessun obiettivo intermedio, così come ha sempre voluto l’attuale Governo Usa, e quindi senza alcuna concreta proposta per l’oggi. E in questo quadro, visto il recente dibattito sul nucleare, il nostro premier si è sentito autorizzato a fare la sua “sparata” su 1000 nuove centrali nucleari da costruire! A problemi seri servirebbero risposte serie. Nel mondo sono attualmente in funzione 439 centrali nucleari (che forniscono appena il 5, 8% dei consumi totali di energia), come può essere credibile un obiettivo di farne 1000 nuove! Senza considerare i drammatici problemi connessi all’approvvigionamento di uranio per il loro funzionamento e quelli forse ancor più complessi di smaltimento delle scorie di un parco così gigantesco considerando che a tutt’oggi non esiste al mondo un deposito finale di scorie ad alta radioattività . Non a caso la stessa Aiea (l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) prevede al contrario che nei prossimi anni il peso dell’atomo nella produzione elettrica mondiale, calerà  dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030, mentre la IEA (International Energy Agency) è ancor più pessimista prevedendo per quella data un contributo tra il 9% e il 12% Certo le ricette dei vari Paesi europei sono diverse, si va dalla Francia che punta ovviamente sul nucleare per favorire la sua industria del settore, alla Spagna in cui Zapatero sostiene che l’energia del futuro è quella rinnovabile e che si debba dire no al nucleare. Negli stessi Usa dove ultimamente si è molto discusso di un rilancio del nucleare è un fatto che dal 1978 non si ordina nessun nuovo reattore, soprattutto per motivi economici. Perché lì nella patria del libero mercato, senza sovvenzioni statali, nessuna azienda privata ha ritenuto che davvero i costi di produzione del nucleare fossero così convenienti.
Insomma di nucleare si puo’ e si deve parlare, specialmente in termini di ricerca e sviluppo di una nuova tecnologia che risolva, o che almeno riduca drasticamente, il problema delle scorie, ma è davvero segno di improvvisazione e ignoranza la proposta berlusconiana dei 1000 nuovi siti. Un’ulteriore prova della necessità  di cambiare il G8, ma anche di quanto ci sia di “ideologico” e poco concreto nella proposta del nostro Governo di “nucleare italiano”.
 

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