Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Con Dario, perché la green economy è il nostro futuro

Gli ecologisti del Partito Democratico sosterranno Dario Franceschini. Non è stata una scelta scontata, abbiamo a lungo accarezzato l’idea che una candidatura ambientalista autonoma fosse la via migliore per raggiungere due obiettivi per noi irrinunciabili: mettere l’ambiente finalmente al centro dell’identità  e delle proposte del Pd, aggregare persone, gruppi, interessi decisi a proseguire senza più incertezze, e con qualche maggiore radicalità , nella costruzione di un partito davvero nuovo, capace di affermare le ragioni di un riformismo proiettato nei problemi e nei bisogni del XXI secolo. Questa possibilità  si è rivelata impraticabile, dunque scegliamo con convinzione quello tra i candidati in campo che si è dimostrato, da tempo, più vicino agli obiettivi che ci stanno a cuore: proporre i temi della sostenibilità  e della difesa dell’ambiente come questioni decisive per lo sviluppo e il benessere dell’Italia; vedere in essi anche uno strumento di grande efficacia per quel radicamento territoriale del Pd da troppi invocato come un generico totem; parlare non solo ai nostri circoli e ai nostri iscritti, che restano com’è naturale i primi e più diretti interlocutori per dare gambe e cuore al Partito Democratico, ma a tutti i cittadini che attendono dalla politica, dalla nostra politica, un impegno vero per cambiare se stessa e contribuire ai necessari cambiamenti del Paese.
In un bell’articolo pubblicato ieri sul “Sole 24 Ore”, Dario Franceschini ha detto che per lui la “green economy” è il futuro dell’Italia, che è al tempo stesso il più grande motore d’innovazione economica, di risposta alla crisi economica, e il terreno ideale per valorizzare quella gran parte dell’economia italiana che deve la sua forza, il suo successo alla qualità : l’economia del made in Italy, l’economia, del turismo e del paesaggio, l’economia della cultura. Lo prendiamo in parola, e ci spenderemo perché questo messaggio sia tra gli elementi forti che danno profilo alla sua candidatura.
Sosteniamo Franceschini perché meglio di altri può condurre il Pd verso il Paese reale, renderlo capace di immergersi nei suoi problemi e nelle sue speranze, di lavorare per il suo futuro. L’Italia vive grandi difficoltà  ma è un Paese vitale, ricco di energie e di eccellenze: ciò che è mancato, finora, è una classe dirigente all’altezza del suo ruolo, che abbia coraggio e visione sufficienti per fare di queste energie e di queste eccellenze un “sistema”, la bussola del nostro cammino nel mondo globalizzato. Il Pd è nato per questo, e oggi Franceschini è la persona giusta, la più moderna e la più coerente, per concretizzarne l’ambizione originaria, per offrire agli italiani un’alternativa credibile e attraente alla demagogia, al populismo della nostra destra.
Rispettiamo naturalmente gli altri candidati alla segreteria, e tanto più rispettiamo le ragioni di nostri amici e compagni che hanno scelto altre strade dalla nostra: chi chiede un partito molto strutturato e per questo si riconosce in Pierluigi Bersani, che temiamo però pensi a un Pd somma di passati più che leva di futuro; chi appoggia la candidatura di Ignazio Marino, che certo s’identifica con un tema di straordinaria rilevanza, quello della laicità , ma che difficilmente potrà  basare solo su questo una proposta convincente per iscritti ed elettori democratici. Così pure cercheremo di dialogare con i tanti che in questi mesi si sono allontanati dal Pd o che al Pd non si sono ancora avvicinati: coloro che spinti dall’insofferenza, più che legittima, per una politica chiusa, castale, hanno dato fiducia al “dipietrismo”, e poi i moltissimi che elettori che pur non essendo e non sentendosi “di destra” hanno creduto di trovare nella destra italiana risposte più semplici e comprensibili alle loro domande.
Insomma, ci impegneremo in questa lunga campagna congressuale sapendo che il dibattito, il confronto sarà  duro e aspro – è in gioco pur sempre la prospettiva di una grande speranza, qual è stato e rimane il Partito Democratico -, ma sapendo che la battaglia vera per il Pd è quella per conquistare su basi di chiarezza, di novità , di coerenza, il consenso di molti più italiani.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Una scommessa green per dare una “vision” al Pd

L’avvio del dibattito congressuale nel Pd è sconfortante. Lo è nelle dichiarazioni dei protagonisti di prima fila, ma anche di molti comprimari di seconda e terza: tutti a dire che bisogna confrontarsi sui contenuti ma quasi nessuno che cominci, molti a dire che servirebbe una terza candidatura capace di “sparigliare” ma nessuno che si faccia veramente avanti. I media da parte loro, in particolare quelli “di riferimento”, non danno grandi stimoli: il massimo colpo d’ala è celebrare come i “giovani” del Pd un gruppo di persone che viaggia verso la cinquantina e che, di nuovo, passa il tempo a reclamare che si discuta di contenuti senza mai sviscerarne uno. Giovani che hanno la stessa età  di Zapatero, Blair, Obama quando sono diventati leader, e qualche anno di più di Walter e Massimo – remake in salsa Pd della “strana coppia” Lemmon-Matthau – quando si contendevano la segreteria del Pds (allora, ci pare, si chiamava così).
In queste ore a Roma come nei mitici “territori” si vanno schierando gli eserciti per una battaglia interna in cui sarà  difficile rintracciare chiare differenze sui principali punti dei programmi dei candidati: il nuovo welfare, con annessa difesa dei più deboli e ricette per rilanciare economia; la sicurezza; la politica estera. Come notava giustamente questo giornale, saranno programmi figli del “ma-anchismo” veltroniano, lontani mille miglia dalla necessità , vitale per il Pd, di darsi un’identità  non si pretende definitiva, ma che almeno non si limiti alla somma di due tradizioni non proprio attualissime (post-Pci, ex-Dc) o alla chiamata alle armi contro l’anomali Berlsuconi o, per converso (ma sono due facce della medesima medaglia: l’incertezza di ciò che si è), alla rincorsa dei temi e della parole d’ordine della destra. Fino adesso di questo sforzo non c’è traccia, e la questione ambientale è un’ottima cartina di tornasole di questo deficit di visione. Proprio nei giorni in cui Obama fa approvare dal Congresso Usa una legge che è una vera “rivoluzione” – l’introduzione del sistema “cap-and-trade” per le emissioni di CO2 che alimentano il “global warming” -, destinata a cambiare il volto della più grande e potente economia mondiale nel segno della “green economy”, di questo tema nel Pd italiano nessuno parla più, eccezion fatta per il solito manipolo di ecologisti e per un breve seppur meritorio (visto l’andazzo) accenno di Franceschini nel suo primo discorso da “candidato leader”. Non se ne parla nel Pd e se ne parla pochissimo sui giornali: anzi il più diffuso quotidiano nazionale si impegna in un ridicolo tentativo di minimizzare portata ed effetti della svolta ambientalista obamiana, mentre l’organo di Confindustria semplicemente ignora questa “trascurabile” notizia. Cosa dovrebbe dire sul tema un partito di opposizione? Un partito che voglia definire in modo chiaro e credibile la propria identità  progressista, e che avrebbe tutti i titoli per guidare questa ricerca e questa elaborazione in un’Europa dove la sinistra (socialista) mostra tutta la sua decrepita stanchezza? A noi sembra chiarissimo: dovrebbe sposare con coraggio la “ragione ambientale”, farne un centro del suo discorso pubblico, della sua proposta ai cittadini. Dovrebbe dire che se l’Italia perde il treno della “green economy” – e finora non c’è salita, che governasse la destra o la sinistra -, diventerà  rapidamente un Paese più povero, più marginale, con molti più problemi di occupazione e di declino industriale.
Negli Stati Uniti, Thomas Friedman commentando l’approvazione della nuova legge sui cambiamenti climatici si è spinto a proporre una tassa sulla benzina di 1 dollaro a gallone. C’è qualcuno in Italia, qualcuno che si voglia candidare a guidare il più grande partito d’opposizione, che sia capace di eguale coraggio e di un così radicale spirito d’innovazione? Se c’è batta un colpo, altrimenti il film del congresso continuerà  secondo i riti di uno stanco, stucchevole regolamento di conti interno, e un numero sempre crescente di spettatori sarà  tentato di tornarsene a casa o di cambiare sala.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Il Pd non vince col modello Penati

E’ nel “modello Penati” – tallonare la destra e la Lega sul loro stesso terreno culturale e programmatico, che si parli di federalismo o d’immigrazione – il possibile futuro vincente del Pd e in generale dei riformisti italiani? In molti nel centrosinistra la pensano così (anche il direttore di “Europa”, ci pare), e questa interpretazione sembra avvalorata dall’ottima, sebbene alla fine sfortunata, performance elettorale dell’ex-presidente della Provincia di Milano, che nel ballottaggio ha mancato di un soffio la riconferma nel territorio simbolo dell’egemonia berlusconian-bossiana.
La tesi non ci convince, intanto per una ragione squisitamente di mercato elettorale. E’ vero infatti che per sperare di vincere il Pd deve conquistare un po’ del voto cosiddetto “moderato”, strappare consensi al centrodestra: ma facendo grande attenzione a non sguarnire le retrovie, a non deludere quella parte non irrilevante del proprio elettorato tradizionale che avverte come un valore irrinunciabile l’opposizione alle parole d’ordine più populiste, razziste e demagogiche di Pdl e Lega.
La seconda obiezione è di ancora maggiore sostanza e di più lunga prospettiva, e rimanda a un paradosso che segna il cammino del centrosinistra italiano da quindici anni, dall’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi. Da allora, non c’è dubbio, noi siamo ossessionati da Berlusconi, dalla sua straordinaria capacità  d’imporre se stesso e la sua “agenda” come i terreni pressoché esclusivi del dibattito e dello scontro tra destra e sinistra. Questa ossessione ha due facce, apparentemente contraddittorie ma in realtà  figlie della stessa insicurezza di sé, della medesima incertezza identitaria che assillano in Italia il campo riformista. Una è nel cosiddetto anti-berlusconismo, nella tentazione di definirsi per differenza, per contrapposizione rispetto al leader avversario. L’altra faccia è nella tentazione di rincorrere le posizioni e le proposte di questo stesso avversario e dei suoi alleati, con l’obiettivo più o meno consapevole di offrire di sé al Paese un’immagine altrettanto accattivante. Come dire: visto che il centrodestra vince perché fà  la faccia feroce sull’immigrazione, perché accelera sul federalismo, a noi non resta che rincorrerlo su questi suoi terreni. Un piccolo ma illuminante esempio di questo modo di procedere viene proprio dalla campagna elettorale per le provinciali di Milano. Berlusconi afferma che a Milano ci sono troppi neri, che sembra una città  africana; Penati replica duramente, ma anziché dargli del razzista dice che “sì, è vero, a Milano ci sono troppi immigrati, ma la colpa è dei sindaci di centrodestra che governano da quasi vent’anni”.
Questa ambivalenza – anti-berlusconismo da una parte, subalternità  culturale al berlusconismo dall’altra – è del resto spiegabile. Poiché sul piano dell’identità  culturale, programmatica, valoriale, il centrosinistra fatica a darsi un profilo chiaramente alternativo a quello della destra, tant’è che ripetutamente si ritrova a inseguirne proposte e sensibilità , allora personalizzare la differenza, l’alterità  nell’anti-berlusconismo è una via surrogata che risponde all’esigenza di mostrarsi diverso e alternativo. Se non si riesce a essere alternativi nei contenuti, non resta che apparirlo contrapponendosi all’uomo che da 15 anni incarna il centrodestra italiano.
Come si esce da questo “cul de sac”? Non c’è che un modo: togliersi dalla testa che per vincere, il riformismo debba assomigliare alla destra. Dal centrodestra italiano, certo, abbiamo moltissimo da imparare: sono più bravi a capire cosa vogliono gli italiani e cosa li preoccupa, dalle tasse alla sicurezza; non si sentono migliori degli elettori cui chiedono il voto; sono molto più agili e veloci nell’adattarsi ai cambiamenti sociali. Insomma sono più “popolari”, perché per esempio (soprattutto con la Lega, ma non solo) hanno capito meglio e prima che in questo tempo di frammentazione sociale, di globalizzazione anonimizzante, l’identità  territoriale è un elemento centrale, decisivo su cui fondare il discorso pubblico. Dobbiamo usare gli stessi attrezzi affinati dalla destra, dobbiamo guardare in faccia senza sufficienza le paure e le inquietudini dei cittadini e ad esse saper rispondere: ma questo dobbiamo fare offrendo visioni e proposte che siano chiaramente nostre e che siano, per così dire, inequivocabilmente progressiste. Anche su quel terreno delicatissimo e decisivo sul piano del consenso che è la “sicurezza”: tema che troppo a lungo abbiamo trascurato o per il quale ci siamo accontentati di richiami un po’ stanchi ai nostri valori tradizionali – solidarietà  ed accoglienza – per poi, al contrario, scivolare in una rincorsa inutile e incomprensibile della destra. Le “ronde” sono un vulnus per la democrazia: punto e basta, non ci sono mediazioni possibili con chi le vuole introdurre, ma una risposta a quelle paure va data con serietà  e severità .
In generale, un riformismo popolare deve innalzare oggi due grandi bandiere, quella dei diritti, dei nuovi diritti personali e dei diritti di cittadinanza, e ancora più irrinunciabile quella dell’ambiente, questione sempre più popolare come testimoniano anche i risultati delle recenti elezioni europee. L’ambiente come benessere, l’ambiente come risorsa per il lavoro e lo sviluppo, l’ambiente come interesse locale. La destra italiana è la più anti-ambientale d’occidente, considera la lotta ai mutamenti climatici e la green economy poco più che stranezze mentre tutti nel mondo ci vedono un efficace antidoto alla crisi e la base principale dell’economia del futuro. Ma il Pd fino ad oggi ha esitato a brandire questa evidente arretratezza del nostro centrodestra come un’arma politica e polemica. Noi siamo timidi sull’ambiente, davvero troppo timidi, e rischiamo – per ulteriore paradosso – di dare il tempo ai nostri competitori di appropriarsi anche di questo tema come già  stanno facendo le destre in Europa da Merkel, a Sarkozy, a Cameron.
Sarà  bene che anziché parlarci addosso, anziché dividerci in vista del congresso tra alleanze e tra candidature che si basano prevalentemente su logiche e dinamiche antiche e autoreferenziali, c’impegniamo d’ora in avanti per definirla una buona volta, questa nostra identità  positiva. Così magari potremo contendere il consenso alla destra senza dover contare soltanto sulle miserie morali del nostro premier.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

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