Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

La cattiva energia dell’Agenda Monti

Chi si candida alla guida del paese deve puntare davvero sulla green economy

Dalla composizione delle liste elettorali arriva una buona notizia: l’assenza di Corrado Passera. Giunto al Governo con la fama di grande conoscitore del sistema economico del Paese, Passera da ministro dello sviluppo si è fatto notare per l’incapacità  di risolvere anche una sola delle numerose crisi industriali di questi mesi e per un’inadeguatezza generale che gli ha tolto l’appoggio persino di quel mondo dell’imprenditoria che avrebbe dovuto essere il suo principale referente sociale.
In più, Passera ha lasciato una pessima eredità  all’Agenda Monti: la “Strategia Energetica Nazionale”, da cui sarebbe importante che già  in campagna elettorale si prenda rapidamente le distanze. In realtà  di strategico il documento energetico di Passera ha solo il nome, visto che si ferma al 2020. E’ una specie di programma di legislatura fondato su tre assi: fare dell’Italia l’hub europeo del gas, promuovere le trivellazioni alla ricerca del petrolio di casa nostra, e per quanto riguarda l’innovazione energetica ribadire l’importanza di ridurre i costi degli incentivi alle rinnovabili senza prevedere alcuno strumento per accompagnare lo sviluppo delle energie pulite fino al raggiungimento della “grid parity” (dopo averlo fortemente penalizzato con i famigerati decreti dello scorso anno) e nel vuoto più totale di idee quanto al miglioramento dell’efficienza energetica (pure a parole magnificata).
Per dare speranza a un settore economicamente e ambientalmente fondamentale come quello energetico e per perseguire davvero gli obiettivi della riduzione del costo dell’energia e della riduzione della nostra dipendenza dall’estero, quella Strategia andrebbe riscritta ex-novo.
Primo: si deve guardare almeno al 2050 e si deve assumere l’obiettivo “europeo” di una società  “low carbon”. Non a caso il Governo tedesco ha commissionato alla propria Agenzia Federale uno studio sulla possibilità  di raggiungere il 100% da rinnovabili nell’elettrico per quella data, e la risposta è stata positiva.
Secondo: nulla da obiettare in teoria sull’hub europeo del gas (magari con una programmazione più intelligente dei siti dove realizzare i rigassificatori) ma oggi le condizioni di mercato non permettono a soggetti privati investimenti in quel settore. Sarebbe piuttosto assai più serio impegnarsi per consentire al nostro Paese di esportare l’elettricità  in eccesso, che già  oggi siamo in grado di produrre grazie a un parco centrali termoelettriche tra i più moderni ed efficienti e al boom delle rinnovabili.
Terzo: appunto le rinnovabili, sgomberando il campo dalla grande confusione che si fa sul tema dei costi. Noi oggi spendiamo circa 9 miliardi per gli incentivi. Una cifra certo ingente ma analoga – visto che lì il mercato elettrico è il doppio del nostro – ai 20 miliardi annui che spendono i tedeschi senza lamentarsene. Passera non ha capito (o voluto capire) l’enorme valore di quegli 80 TWh di energia che nel 2012 ci ha fatto raggiungere il bel risultato del 25% di elettricità  da rinnovabili, un quarto della quale dal nuovo fotovoltaico. Ha cavalcato la tesi per cui le rinnovabili avvantaggerebbero quasi solo gli stranieri (i “terribili” produttori di pannelli cinesi in particolare), dimenticando di dire che il costo del pannello in un impianto fotovoltaico pesa per meno di un terzo, e di fatto ha operato contro uno dei pochi settori produttivi cresciuti in questi anni di crisi, costringendo tante imprese innovative a ricorrere alla cassa integrazione. Chi vuole candidarsi alla guida del Paese deve invertire la rotta: puntare davvero e non solo a parole sulla green economy, abolire meccanismi farraginosi e penalizzanti per le imprese come le aste e i registri per l’assegnazione degli incentivi, investire sulla modernizzazione della rete favorendo un sempre più ampio ricorso alla autoproduzione.
Infine bisognerà  farla finita con la più assurda tra tutte le idee passeriane: il “via libera” alle trivelle. Del resto, gli stessi ricercatori dell’Aspo avvertono che nella migliore dell’ipotesi sfruttare le risorse domestiche di idrocarburi potrà  ridurre del 10% la dipendenza dall’estero per 3 o 4 anni. Un obiettivo molto più facilmente raggiungibile in maniera stabile con serie politiche per l’efficienza che non bucherellando territorio e mare. Per ridurre il costo dell’energia si intervenga piuttosto liberalizzando il mercato. Qui il gioco vale sì la candela: basti dire che grazie alla riduzione del prezzo del gas a livello mondiale e ai primi, tardivi, passi per liberarci dal monopolio domestico, da ottobre a oggi il prezzo medio dell’energia elettrica è sceso rapidamente e stiamo già  rsiparmiando circa 4 miliardi di euro all’anno.
Questi devono essere gli obiettivi di un Governo serio, “europeo” e compiutamente riformista in materia di politiche energetiche. Questa è la richiesta dei cittadini, questo che si attende la parte più innovativa dell’impresa italiana.

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Renzi andrà  fortissimo tra chi al primo turno ha votato Vendola

Molti amici nostri, politici e personali, alle primarie di domenica scorsa hanno votato Vendola. E’ naturale, le ragioni che cerchiamo di rappresentare da un bel po’ di anni sono vicine alla sensibilità , anche alle proposte della cosiddetta sinistra radicale: dall’ambiente, ai diritti civili, all’impegno pacifista, ci è capitato spesso di trovarci d’accordo con Vendola, col suo partito, con i suoi elettori. 

Noi però alle primarie abbiamo votato Renzi. Non certo perché vorremmo, per il centrosinistra, un leader “moderato”. Se le parole hanno un senso compiuto, possiamo dire di sentirci pure noi, da ecologisti, una “sinistra radicale”: molto più radicali e molto più di sinistra, nelle idee di cambiamento, di tutti quelli che oggi si scoprono socialisti duri e puri. Nemmeno abbiamo scelto Renzi, come qualche nostro compagno del Pd, perché lo consideriamo più compatibile con l’agenda Monti: per esempio, se l’agenda Monti comprende le scelte del ministro Passera contro lo sviluppo delle energie rinnovabili, deboli sugli incentivi all’efficienza energetica, e che si spende persino per rinviare un no chiaro e definitivo al progetto insensato del Ponte sullo Stretto di Messina, un’agenda così ci pare solo dannosa rispetto  ai bisogni e agli interessi dell’Italia.
No. Abbiamo scelto Renzi perché crediamo che impersoni meglio la possibilità  di avvicinare il centrosinistra all’immagine di un polo progressista contemporaneo, efficace, convincente. Oggi la sinistra italiana sembra dividersi tra due derive opposte ed entrambe fuori dal tempo: chi propone come ricetta politica e di governo  una sorta di liberismo temperato, come se la crisi terribile nella quale siamo invischiati da anni non dimostri che il mercato lasciato onnipotente è per sua natura anti-sociale; e chi dall’altra parte invoca la conversione a un laburismo vecchia maniera, come se le sfide che impegnano il mondo attuale – la globalizzazione, la crisi ecologica, l’affermarsi di una nozione di benessere assai più larga che nel passato – non impongano di ricollocare la stessa questione del lavoro.
Ma per conquistare al centrosinistra un futuro che non si fermi alle prossime elezioni  serve ben altro: servono atti radicali, persino temerari, di discontinuità  sul piano della visione politico-culturale. Per noi il merito principale di Matteo Renzi è proprio questo: proporre una risposta originale e contemporanea al bisogno di “sinistra” che, esso sì, non è affatto venuto meno. Il programma di Renzi, il suo “discorso pubblico”, offrono su questo piano risposte importanti, in alcuni casi sorprendenti. Il sindaco di Firenze propone 100 euro mensili di bonus fiscale a tutti coloro che ne guadagnano meno di 2000, da finanziare tagliando i sussidi a pioggia alle imprese; dice che la nuova linea Torino-Lione è un’opera  inutile e che sarebbe stato meglio puntare invece sulle piccole opere diffuse che servono alla manutenzione territoriale e che sono unico vero volano di sviluppo; sostiene la possibilità  per gay e lesbiche di adottare i figli dei loro compagni se “monogenitoriali’; parla della “green economy” non come di un settore di nicchia, ma come del terreno principale su cui l’Italia può ritrovare futuro. E sull’Ilva di Taranto, è stato l’unico tra i cinque candidati a dire con coraggio e chiarezza che la colpa per essersi ficcati in quel tragico vicolo cieco che mette la salute contro il lavoro è senz’altro e prioritariamente della proprietà  dell’azienda, ma anche che quella vicenda “è il simbolo più forte del fallimeto delle politiche industriali di un’intera generazione di politici”.
 Il risultato del primo turno delle primarie del centrosinistra è figlio, crediamo, anche di questo respiro nuovo. Domenica scorsa è successa una cosa importante: in controtendenza con tutti i segnali più recenti (l’astensionismo, la cosiddetta anti-politica di grillo, il disgusto generalizzato verso la. “casta”), milioni di persone sono andate a votare per decidere chi dovrà  guidare i progressisti. Qualcuno ha detto che il centrosinistra si è riconciliato con il suo popolo, a noi pare piuttosto che il popolo di centrosinistra abbia rivendicato, con questo atto di partecipazione, la sua sovranità . Nasce da qui un fenomeno a suo modo straordinario: mentre oltre il 90% dei dirigenti e dei parlamentari del principale partito della coalizione di centrosinista, il Pd, sostenevano la candidatura di Pierluigi Bersani, più di metà  dei votanti hanno “disubbidito”: più d un milione votando per Matteo Renzi, quasi 500 mila scegliendo Nichi Vendola.
Oggi, alla vigilia del ballottaggio, è chiaro che i voti andati a Vendola decideranno l’esito delle primarie. Qualche osservatore ha già  detto di considerare automatico il travaso di questi consensi su Bersani, noi la pensiamo diversamente per tre buone ragioni. Primo: una parte degli elettori di Nichi non voterà  al ballottaggio; sono coloro che negli ultimi vent’anni hanno accumulato un rancore ormai insuperabile nei confronti della sinistra “riformista”. Secondo: nel voto per Vendola vi è una quota importante di insofferenti ad ogni  “ordine di scuderia”, e tra questi Renzi andrà  fortissimo. Terza ragione, quella che ci preme di più: molti degli elettori di centrosinistra che al primo turno hanno optato per Vendola e anche per Laura Puppato, assegnano grande importanza ai temi ambientali, dal sì alle energie rinnovabili al no alle grandi opere inutili e alla cementificazione del territorio. Temi su cui troppo spesso fino ad ora il Pd e il centrosinistra hanno arrancato, temi rispetto ai quali i sindaco di Firenze ha le carte in regola per convincere che programmi e comportamenti alla mano, lui rappresenta una sinistra dinamica e coraggiosa.
Infine, un’ultima osservazione che consideriamo più importante di tutte le altre. Il Pd e il centrosinistra hanno bisogno di un profondo rinnovamento etico, di mettersi alle spalle quell’abitudine diffusa a coltivare rapporti opachi con gli interessi economici che dalla sanità  all’urbanistica ha condizionato in tante occasioni anche le nostre scelte di governo nazionali e locali. E hanno bisogno di darsi comportamenti molto più coerenti su tema della legalità . Un esempio? Qualche mese chiedemmo pubblicamente che il Pd prendesse definitivamente le distanze da un suo senatore siciliano, Vladimiro Crisafulli, noto alle cronache per essere stato intercettato mentre dialogava di appalti con un noto boss mafioso. Come risposta ottenemmo una “ammonizione” dal collegio dei garanti (presieduto da quello stesso Luigi Berlinguer che ha deciso le regole delle primarie…) con l’argomento che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Bene, Matteo Renzi su tutto questo dà  altre risposte: sul finanziamento pubblico dei partiti, sui privilegi  della “casta”, sull’obbligo di trasparenza assoluta per ogni centesimo incassato e speso dai partiti e dai politici. Noi l’abbiamo votato e lo voteremo anche per questo.
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Renzi e il “bisogno di sinistra”

“Renzi parla del nulla”, ha detto Massimo D’Alema qualche giorno fa. L’ha detto quasi nell’esatto momento in cui a Milano il sindaco di Firenze insieme a Ermete Realacci raccontava la propria idea di “green economy”: non un astratto atto di fede su quanto è bello, buono e giusto preoccuparsi di ambiente, ma una “exit strategy” dalla crisi fondata su scelte molto concrete e molto innovative come privilegiare le piccole opere publiche e la manutenzione del territorio rispetto alle grandi infrastrutture o lavorare perché da qui a pochi decenni l’Italia ricavi dalle fonti rinnovabili il 100% dell’energia di cui ha bisogno.
Le battuta di D’Alema torna utilissima per misurare la distanza siderale tra il discorso publico di Renzi e quello di buona parte del gruppo dirigente del Pd. Non è una questione di anagrafe, ma di impronta culturale: per chi si è formato su un’idea “vetero-novecentesca” della politica e dell’economia, e di quella idea fatica a liberarsi, temi come l’ambiente sono nella migliore delle ipotesi mera “sovrastruttura”, nella peggiore amenità  del tutto effimere. Di queste e di altre “amenità ” si parlerà  questo fine settimana alla Leopolda a Firenze, nell’appuntamento clou della campagna di Renzi per le primarie. E proprio l’imminenza del voto del 25 novembre per scegliere il candidato premier del centrosinistra, offre l’occasione per uno sguardo retrospettivo sul cammino compiuto dai progressisti italiani nell’arco della seconda Repubblica.
Poco meno di vent’anni fa, con la nascita dell’Ulivo, la sinistra italiana stabiliva un primato: tra i grandi Paesi europei, eravamo il primo nel quale i “progressisti” mettevano in discussione se stessi provando a vestire panni più adatti ai problemi e alle esigenze nuove posti dai cambiamenti epocali già  allora in atto (fine della “guerra fredda”, globalizzazione, emergere della questione ambientale…).
La sinistra italiana arrivò prima a questo traguardo per ragioni storiche – l’assenza da noi di un grande partito socialdemocratico – ma anche e molto per circostanze contingenti: cogliendo l’attimo del caos magmatico e creativo seguìto al crollo repentino dei partiti che avevano governato il Paese per cinquant’anni e al cambio di nome, e in parte di ragione sociale, del Pci, l’iniziativa a forte impronta volontaristica messa in campo sotto la guida di Romano Prodi riuscì ad abbattere in breve tempo uno steccato che fino a poco prima pareva a tutti invalicabile; in soli due anni, tra il 1994 e il 1996, le due più grandi famiglie del progressismo italiano, gli ex-comunisti che avevano dato vita al Pds e gli ex-democristiani di sinistra che avevano ricostituito il Partito popolare, si ritrovarono uniti in uno stesso schieramento politico.
Questo esperimento, ripetiamo, poneva la sinistra italiana all’avanguardia di una ricerca che negli ultimi anni ha coinvolto quasi tutti i Paesi europei: spingendo i partiti socialisti a rivedere radicalmente il proprio “alfabeto” riformista, così in particolare nel Regno Unito con il “new labour” di Blair, e vedendo l’affermazione di nuovi soggetti politici – ecologisti, liberaldemocratici – estranei alla tradizione socialdemocratica ma collocati stabilmente nel campo del centrosinistra.
Ognuna di queste esperienze ha avuto caratteri originali. Quasi tutte hanno insistito su alcuni temi comuni: riformare i sistemi di welfare per renderli più equi, economicamente più sostenibili e più utili a sostenere il dinamismo sociale e generazionale; dare maggiore spazio alle problematiche legate ai diritti civili nell’offerta politica progressista; includere l’ambiente nel “pantheon” delle idee-forza su cui fondare programmi, discorso pubblico, politiche.
Negli anni, la transizione verso un riformismo del XXI secolo ha incontrato più di un ostacolo: prima l’attrazione fatale di tanti leader progressisti verso il pensiero unico neoliberista, simboleggiata da quella foto di un G8 di fine anni Novanta nella quale tutti i potenti del mondo erano espressione di partiti di sinistra (per l’Italia c’era D’Alema). Oggi il passaggio arduo di una crisi economica lunghissima e dammatica che da una parte costringe i riformisti a complicate revisioni – per esempio a mediare tra verbo keynesiano e vincoli sempre più rigidi di bilancio – e dall’altra alimenta quasi ovunque populismi di sinistra temibilissimi alla sfida del voto ma inservibili alla sfida del governo.
In Italia, nel frattempo, la ricerca di una via riformista compiutamente contemporanea ha segnato il passo: imprigionata dall’estrema lentezza del ricambio nei gruppi dirigenti del centrosinistra, sfiancata dai lunghi anni nei quali la necessità  di rinnovare analisi e linguaggi del discorso progressista ha ceduto il passo alle ragioni tanto più immediate, e spesso – sul piano dell’evoluzione culturale – regressive, della polemica e della propaganda anti-berlusconiane. L’Ulivo, è vero, da schieramento politico-elettorale si è fatto partito, ma alla vigilia di elezioni che potrebbero riconsegnare al centrosinistra la guida del Paese, il Pd somiglia molto di più alla replica tardiva di quel grande partito socialista che l’Italia non ha mai avuto, che non a ciò che era nato per essere: cioè una forza progressista “post-novecentesca”, nel cui progetto trovino spazio e sintesi tanto i valori classici della sinistra – primo fra tutti l’equità  sociale – quanto i paradigmi di un’idea più larga e moderna di progresso, come il merito individuale, i diritti personali, la sostenibilità  ambientale, l’etica pubblica, l’autonomo protagonismo dei corpi sociali, un welfare fondato sul principio delle pari opportunità  più che su quello delle prestazioni universali.
E’ anche per questa regressione se oggi il Partito democratico sembra incapace non solo di fronteggiare, ma di riconoscere, l’abisso sempre più largo di sfiducia, di disprezzo, di rifiuto degli italiani verso i partiti, verso tutti i partiti. Ci gingilliamo tra apologeti dell’agenda-Monti e laburisti vecchia maniera, tra inseguitori di Casini o di Vendola, ma per conquistare al Pd un futuro che non si fermi alle prossime elezioni serve ben altro: servono atti radicali, persino temerari, di discontinuità  sul piano della visione politico-culturale come su quello della lotta al dilagare di reati, abusi, piccole e grandi arroganze che nella percezione generale e in larga misura nella realtà  ha fatto dei politici una “casta”.
Per noi il merito principale di Matteo Renzi è proprio questo: spostare il campo di gioco rispetto alla vecchia alternativa radicali-riformisti, disegnare – certo: nel modo molto “impressionistico” e talvolta brutale che è il suo marchio inconfondibile – una risposta originale e contemporanea al bisogno di “sinistra” che, esso sì, non è affatto venuto meno. Qui, crediamo, pars destruens e pars construens di Renzi diventano tutt’uno: come ha detto pochi giorni fa Biagio De Giovanni, non esattamene un passante nel mondo della sinistra italiana, “questo gruppo dirigente ha interpretato qualunque svolta come chiave per la propria continuità  ed è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia”. Renzi al momento è la possibilità  più concreta di cominciare a pensare un’altra storia.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

1 2 3 4 5 49  Scroll to top