Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Renzi andrà  fortissimo tra chi al primo turno ha votato Vendola

Molti amici nostri, politici e personali, alle primarie di domenica scorsa hanno votato Vendola. E’ naturale, le ragioni che cerchiamo di rappresentare da un bel po’ di anni sono vicine alla sensibilità , anche alle proposte della cosiddetta sinistra radicale: dall’ambiente, ai diritti civili, all’impegno pacifista, ci è capitato spesso di trovarci d’accordo con Vendola, col suo partito, con i suoi elettori. 

Noi però alle primarie abbiamo votato Renzi. Non certo perché vorremmo, per il centrosinistra, un leader “moderato”. Se le parole hanno un senso compiuto, possiamo dire di sentirci pure noi, da ecologisti, una “sinistra radicale”: molto più radicali e molto più di sinistra, nelle idee di cambiamento, di tutti quelli che oggi si scoprono socialisti duri e puri. Nemmeno abbiamo scelto Renzi, come qualche nostro compagno del Pd, perché lo consideriamo più compatibile con l’agenda Monti: per esempio, se l’agenda Monti comprende le scelte del ministro Passera contro lo sviluppo delle energie rinnovabili, deboli sugli incentivi all’efficienza energetica, e che si spende persino per rinviare un no chiaro e definitivo al progetto insensato del Ponte sullo Stretto di Messina, un’agenda così ci pare solo dannosa rispetto  ai bisogni e agli interessi dell’Italia.
No. Abbiamo scelto Renzi perché crediamo che impersoni meglio la possibilità  di avvicinare il centrosinistra all’immagine di un polo progressista contemporaneo, efficace, convincente. Oggi la sinistra italiana sembra dividersi tra due derive opposte ed entrambe fuori dal tempo: chi propone come ricetta politica e di governo  una sorta di liberismo temperato, come se la crisi terribile nella quale siamo invischiati da anni non dimostri che il mercato lasciato onnipotente è per sua natura anti-sociale; e chi dall’altra parte invoca la conversione a un laburismo vecchia maniera, come se le sfide che impegnano il mondo attuale – la globalizzazione, la crisi ecologica, l’affermarsi di una nozione di benessere assai più larga che nel passato – non impongano di ricollocare la stessa questione del lavoro.
Ma per conquistare al centrosinistra un futuro che non si fermi alle prossime elezioni  serve ben altro: servono atti radicali, persino temerari, di discontinuità  sul piano della visione politico-culturale. Per noi il merito principale di Matteo Renzi è proprio questo: proporre una risposta originale e contemporanea al bisogno di “sinistra” che, esso sì, non è affatto venuto meno. Il programma di Renzi, il suo “discorso pubblico”, offrono su questo piano risposte importanti, in alcuni casi sorprendenti. Il sindaco di Firenze propone 100 euro mensili di bonus fiscale a tutti coloro che ne guadagnano meno di 2000, da finanziare tagliando i sussidi a pioggia alle imprese; dice che la nuova linea Torino-Lione è un’opera  inutile e che sarebbe stato meglio puntare invece sulle piccole opere diffuse che servono alla manutenzione territoriale e che sono unico vero volano di sviluppo; sostiene la possibilità  per gay e lesbiche di adottare i figli dei loro compagni se “monogenitoriali’; parla della “green economy” non come di un settore di nicchia, ma come del terreno principale su cui l’Italia può ritrovare futuro. E sull’Ilva di Taranto, è stato l’unico tra i cinque candidati a dire con coraggio e chiarezza che la colpa per essersi ficcati in quel tragico vicolo cieco che mette la salute contro il lavoro è senz’altro e prioritariamente della proprietà  dell’azienda, ma anche che quella vicenda “è il simbolo più forte del fallimeto delle politiche industriali di un’intera generazione di politici”.
 Il risultato del primo turno delle primarie del centrosinistra è figlio, crediamo, anche di questo respiro nuovo. Domenica scorsa è successa una cosa importante: in controtendenza con tutti i segnali più recenti (l’astensionismo, la cosiddetta anti-politica di grillo, il disgusto generalizzato verso la. “casta”), milioni di persone sono andate a votare per decidere chi dovrà  guidare i progressisti. Qualcuno ha detto che il centrosinistra si è riconciliato con il suo popolo, a noi pare piuttosto che il popolo di centrosinistra abbia rivendicato, con questo atto di partecipazione, la sua sovranità . Nasce da qui un fenomeno a suo modo straordinario: mentre oltre il 90% dei dirigenti e dei parlamentari del principale partito della coalizione di centrosinista, il Pd, sostenevano la candidatura di Pierluigi Bersani, più di metà  dei votanti hanno “disubbidito”: più d un milione votando per Matteo Renzi, quasi 500 mila scegliendo Nichi Vendola.
Oggi, alla vigilia del ballottaggio, è chiaro che i voti andati a Vendola decideranno l’esito delle primarie. Qualche osservatore ha già  detto di considerare automatico il travaso di questi consensi su Bersani, noi la pensiamo diversamente per tre buone ragioni. Primo: una parte degli elettori di Nichi non voterà  al ballottaggio; sono coloro che negli ultimi vent’anni hanno accumulato un rancore ormai insuperabile nei confronti della sinistra “riformista”. Secondo: nel voto per Vendola vi è una quota importante di insofferenti ad ogni  “ordine di scuderia”, e tra questi Renzi andrà  fortissimo. Terza ragione, quella che ci preme di più: molti degli elettori di centrosinistra che al primo turno hanno optato per Vendola e anche per Laura Puppato, assegnano grande importanza ai temi ambientali, dal sì alle energie rinnovabili al no alle grandi opere inutili e alla cementificazione del territorio. Temi su cui troppo spesso fino ad ora il Pd e il centrosinistra hanno arrancato, temi rispetto ai quali i sindaco di Firenze ha le carte in regola per convincere che programmi e comportamenti alla mano, lui rappresenta una sinistra dinamica e coraggiosa.
Infine, un’ultima osservazione che consideriamo più importante di tutte le altre. Il Pd e il centrosinistra hanno bisogno di un profondo rinnovamento etico, di mettersi alle spalle quell’abitudine diffusa a coltivare rapporti opachi con gli interessi economici che dalla sanità  all’urbanistica ha condizionato in tante occasioni anche le nostre scelte di governo nazionali e locali. E hanno bisogno di darsi comportamenti molto più coerenti su tema della legalità . Un esempio? Qualche mese chiedemmo pubblicamente che il Pd prendesse definitivamente le distanze da un suo senatore siciliano, Vladimiro Crisafulli, noto alle cronache per essere stato intercettato mentre dialogava di appalti con un noto boss mafioso. Come risposta ottenemmo una “ammonizione” dal collegio dei garanti (presieduto da quello stesso Luigi Berlinguer che ha deciso le regole delle primarie…) con l’argomento che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Bene, Matteo Renzi su tutto questo dà  altre risposte: sul finanziamento pubblico dei partiti, sui privilegi  della “casta”, sull’obbligo di trasparenza assoluta per ogni centesimo incassato e speso dai partiti e dai politici. Noi l’abbiamo votato e lo voteremo anche per questo.
 

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

Renzi e il “bisogno di sinistra”

“Renzi parla del nulla”, ha detto Massimo D’Alema qualche giorno fa. L’ha detto quasi nell’esatto momento in cui a Milano il sindaco di Firenze insieme a Ermete Realacci raccontava la propria idea di “green economy”: non un astratto atto di fede su quanto è bello, buono e giusto preoccuparsi di ambiente, ma una “exit strategy” dalla crisi fondata su scelte molto concrete e molto innovative come privilegiare le piccole opere publiche e la manutenzione del territorio rispetto alle grandi infrastrutture o lavorare perché da qui a pochi decenni l’Italia ricavi dalle fonti rinnovabili il 100% dell’energia di cui ha bisogno.
Le battuta di D’Alema torna utilissima per misurare la distanza siderale tra il discorso publico di Renzi e quello di buona parte del gruppo dirigente del Pd. Non è una questione di anagrafe, ma di impronta culturale: per chi si è formato su un’idea “vetero-novecentesca” della politica e dell’economia, e di quella idea fatica a liberarsi, temi come l’ambiente sono nella migliore delle ipotesi mera “sovrastruttura”, nella peggiore amenità  del tutto effimere. Di queste e di altre “amenità ” si parlerà  questo fine settimana alla Leopolda a Firenze, nell’appuntamento clou della campagna di Renzi per le primarie. E proprio l’imminenza del voto del 25 novembre per scegliere il candidato premier del centrosinistra, offre l’occasione per uno sguardo retrospettivo sul cammino compiuto dai progressisti italiani nell’arco della seconda Repubblica.
Poco meno di vent’anni fa, con la nascita dell’Ulivo, la sinistra italiana stabiliva un primato: tra i grandi Paesi europei, eravamo il primo nel quale i “progressisti” mettevano in discussione se stessi provando a vestire panni più adatti ai problemi e alle esigenze nuove posti dai cambiamenti epocali già  allora in atto (fine della “guerra fredda”, globalizzazione, emergere della questione ambientale…).
La sinistra italiana arrivò prima a questo traguardo per ragioni storiche – l’assenza da noi di un grande partito socialdemocratico – ma anche e molto per circostanze contingenti: cogliendo l’attimo del caos magmatico e creativo seguìto al crollo repentino dei partiti che avevano governato il Paese per cinquant’anni e al cambio di nome, e in parte di ragione sociale, del Pci, l’iniziativa a forte impronta volontaristica messa in campo sotto la guida di Romano Prodi riuscì ad abbattere in breve tempo uno steccato che fino a poco prima pareva a tutti invalicabile; in soli due anni, tra il 1994 e il 1996, le due più grandi famiglie del progressismo italiano, gli ex-comunisti che avevano dato vita al Pds e gli ex-democristiani di sinistra che avevano ricostituito il Partito popolare, si ritrovarono uniti in uno stesso schieramento politico.
Questo esperimento, ripetiamo, poneva la sinistra italiana all’avanguardia di una ricerca che negli ultimi anni ha coinvolto quasi tutti i Paesi europei: spingendo i partiti socialisti a rivedere radicalmente il proprio “alfabeto” riformista, così in particolare nel Regno Unito con il “new labour” di Blair, e vedendo l’affermazione di nuovi soggetti politici – ecologisti, liberaldemocratici – estranei alla tradizione socialdemocratica ma collocati stabilmente nel campo del centrosinistra.
Ognuna di queste esperienze ha avuto caratteri originali. Quasi tutte hanno insistito su alcuni temi comuni: riformare i sistemi di welfare per renderli più equi, economicamente più sostenibili e più utili a sostenere il dinamismo sociale e generazionale; dare maggiore spazio alle problematiche legate ai diritti civili nell’offerta politica progressista; includere l’ambiente nel “pantheon” delle idee-forza su cui fondare programmi, discorso pubblico, politiche.
Negli anni, la transizione verso un riformismo del XXI secolo ha incontrato più di un ostacolo: prima l’attrazione fatale di tanti leader progressisti verso il pensiero unico neoliberista, simboleggiata da quella foto di un G8 di fine anni Novanta nella quale tutti i potenti del mondo erano espressione di partiti di sinistra (per l’Italia c’era D’Alema). Oggi il passaggio arduo di una crisi economica lunghissima e dammatica che da una parte costringe i riformisti a complicate revisioni – per esempio a mediare tra verbo keynesiano e vincoli sempre più rigidi di bilancio – e dall’altra alimenta quasi ovunque populismi di sinistra temibilissimi alla sfida del voto ma inservibili alla sfida del governo.
In Italia, nel frattempo, la ricerca di una via riformista compiutamente contemporanea ha segnato il passo: imprigionata dall’estrema lentezza del ricambio nei gruppi dirigenti del centrosinistra, sfiancata dai lunghi anni nei quali la necessità  di rinnovare analisi e linguaggi del discorso progressista ha ceduto il passo alle ragioni tanto più immediate, e spesso – sul piano dell’evoluzione culturale – regressive, della polemica e della propaganda anti-berlusconiane. L’Ulivo, è vero, da schieramento politico-elettorale si è fatto partito, ma alla vigilia di elezioni che potrebbero riconsegnare al centrosinistra la guida del Paese, il Pd somiglia molto di più alla replica tardiva di quel grande partito socialista che l’Italia non ha mai avuto, che non a ciò che era nato per essere: cioè una forza progressista “post-novecentesca”, nel cui progetto trovino spazio e sintesi tanto i valori classici della sinistra – primo fra tutti l’equità  sociale – quanto i paradigmi di un’idea più larga e moderna di progresso, come il merito individuale, i diritti personali, la sostenibilità  ambientale, l’etica pubblica, l’autonomo protagonismo dei corpi sociali, un welfare fondato sul principio delle pari opportunità  più che su quello delle prestazioni universali.
E’ anche per questa regressione se oggi il Partito democratico sembra incapace non solo di fronteggiare, ma di riconoscere, l’abisso sempre più largo di sfiducia, di disprezzo, di rifiuto degli italiani verso i partiti, verso tutti i partiti. Ci gingilliamo tra apologeti dell’agenda-Monti e laburisti vecchia maniera, tra inseguitori di Casini o di Vendola, ma per conquistare al Pd un futuro che non si fermi alle prossime elezioni serve ben altro: servono atti radicali, persino temerari, di discontinuità  sul piano della visione politico-culturale come su quello della lotta al dilagare di reati, abusi, piccole e grandi arroganze che nella percezione generale e in larga misura nella realtà  ha fatto dei politici una “casta”.
Per noi il merito principale di Matteo Renzi è proprio questo: spostare il campo di gioco rispetto alla vecchia alternativa radicali-riformisti, disegnare – certo: nel modo molto “impressionistico” e talvolta brutale che è il suo marchio inconfondibile – una risposta originale e contemporanea al bisogno di “sinistra” che, esso sì, non è affatto venuto meno. Qui, crediamo, pars destruens e pars construens di Renzi diventano tutt’uno: come ha detto pochi giorni fa Biagio De Giovanni, non esattamene un passante nel mondo della sinistra italiana, “questo gruppo dirigente ha interpretato qualunque svolta come chiave per la propria continuità  ed è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia”. Renzi al momento è la possibilità  più concreta di cominciare a pensare un’altra storia.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

La Green economy ci salverà 

Da alcuni anni Symbola, la Fondazione per le qualità  italiane creata e presieduta da Ermete Realacci, persegue con tenacia un obiettivo: dimostrare dati alla mano che lItalia per continuare a produrre benessere per i suoi cittadini e a competere nel mondo deve fare lItalia, cioè puntare con più forza su quella soft economy – fatta di creatività  imprenditoriale, forti legami territoriali, cura della qualità  sociale che è sempre stata il suo marchio di fabbrica. Insomma l’esatto contrario della via indicata da Marchionne. Scegliere invece la “soft economy” è oggi la via maestra che può consentirci di uscire prima e meglio dalla drammatica crisi economica di questi anni. Ed è una via che nel secolo appena iniziato intreccia strettamente unaltra scelta strategica: investire sullinnovazione ecologica, sulle tecnologie e sui prodotti verdi, terreni dincontro virtuoso tra la necessità  di rispondere ai problemi ambientali del nostro tempo  – linquinamento, leccessivo consumo di risorse naturali, i cambiamenti climatici e la possibilità  di fare impresa in modo sempre più conveniente, efficiente, competitivo.
Nasce da qui lidea della green Italy, al centro dellultimo Rapporto di Symbola e Unioncamere presentato in questi giorni. E unItalia, questa verde, già  in campo. Abitata, innanzitutto, da migliaia di imprese – delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica, della chimica verde, delle materie prime riciclate, del turismo dei parchi e della natura – che non solo stanno resistendo meglio alla recessione, ma in tanti casi stanno crescendo. Così, siamo diventati il secondo Paese in Europa e il quarto nel mondo per energia solare fotovoltaica installata; siamo tra i primi – davanti a giganti come Stati Uniti e Giappone – per investimenti in efficienza energetica; abbiamo visto affermarsi “campioni” mondiali della chimica verde come Novamont, leader assoluta nella produzione di plastiche biodegradabili.
Ma l’Italia verde è decisamente più larga dei confini della “green economy”. Riguarda da vicino anche molti comparti delleconomia tradizionale – dalla meccanica allelettronica, dalla farmaceutica  alla gomma e alla carta impegnati a riconvertire processi e prodotti; e soprattutto comprende lanima, il cuore della manifattura made in Italy: campioni piccoli e grandi che che miscelando qualità  ambientale, innovazione, un solido legame con la propria constituency territoriale, stanno trovando malgrado la crisi la loro via verso il futuro.

Questo scenario trova una conferma vistosa nei numeri del Rapporto Symbola-Unioncamere: quasi un quarto di tutte le imprese industriali e terziarie italiane tra il 2009 e il 2012 ha investito in tecnologie e prodotti “green”, e le imprese della green Italy mostrano una propensione all’export quasi doppia rispetto a tutte le altre (il 37% è presente sui mercati esteri, contro il 22% delle altre). Anche sul fronte delloccupazione la green Italy sembra possedere una marcia in più:  quasi il 40% delle assunzioni complessive (lovoro stagionale incluso) programmate dalle imprese italiane dellindustria e dei servizi per lanno in corso, si deve ad aziende impegnate in ecoinvestimenti. Da sottolineare, ancora, un ulteriore dato che emerge dal Rapporto: la percentuale delle imprese green è sostanzialmente analoga da nord da sud, a riprova che lItalia verde è un orizzonte che può dare gambe più forti e testa più lucida al nostro Mezzogiorno.

Tutto bene, allora? Basta aspettare e la “green Italy” ci tirerà  fuori dai guai e dalle secche che oggi sembrano paralizzarci? Non è così. Perché l’Italia verde non sia più nicchia, per quanto grande e accogliente, ma diventi sistema, serve un impegno forte da parte della politica e in generale delle classi dirigenti. Finora questo impegno non c’è stato, non c’è stato nel decennio berlusconiano ma nemmeno, va detto, nell’anno e più di governo Monti. La vitalità  e lintelligenza dellItalia green hanno bisogno, per segnare la via di una possibile rinascita italiana, di una politica che onori molto di più e molto meglio la sua missione: sostenendo leconomia della qualità  e dellinnovazione invece di quella dei sussidi e dei monopoli; ritrovando la via delletica pubblica; colpendo al cuore le piaghe dellillegalità  e di una crescente, insopportabile e antieconomica distanza tra ricchi e poveri; rivoluzionando nel segno della manutenzione e dell’ambiente la politica delle infrastrutture;  contrastando con molta più forza fenomeni crescenti di degrado ambientale – dal dissesto idrogeologico, all’inquinamento delle città , alle conseguenze dei cambiamenti climatici in atto – che determinano altissimi costi umani, sociali, economici.

Questa è una sfida in particolare per il Pd e per il centrosinistra, chiamati dalla loro ambizione progressista a dare voce e risposte alla voglia di cambiamento, alla sofferta e ogni tanto disperata domanda di futuro che sale nel Paese, sale da grandi e indifferenziati movimenti dopinione (cosaltro è lantipolitica se non una domanda selvaggia e disperata di una politica diversa?) e sale da settori importanti e promettenti delleconomia, del mondo degli interessi. Per vincerla, questa sfida, dell’Italia verde è impossibile fare  a meno. In essa vive infatti uninedita alleanza sociale per un vero, profondo rinnovamento  che aiuti lItalia a fare come sa e meglio che può il suo mestiere. Quel mestiere che è sempre lo stesso magistralmente sintetizzato un po di tempo fa da Carlo Maria Cipolla: fabbricare allombra dei campanili cose che piacciono al mondo. 
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

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