Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Orwell in tv

La vicenda che riguarda il giudice Mesiano e il suo “pedinamento” mostrato in tv da Canale 5 è vergognosa se la si guarda dal punto di vista della deontologia professionale che dovrebbe indicare i comportamenti a un qualsiasi giornalista, scandalosa se si pensa a tutte le chiacchiere spesso inutili che si fanno sul “diritto alla privacy”, spaventosa – letteralmente, perchè mette paura – per l’uso orwelliano che il potere fa della televisione. Ma il punto che vorrei sollevare è che persino questa vicenda assurda rischia di non scatenare l’indignazione generale e generalizzata che meriterebbe e che susciterebbe ovunque, se non in questo cloroformizzato Paese.
Il rischio insomma, che dintinguo, minimizzazioni, ironie persino, annacquino questo scandalo e lo riducano a uno dei tanti episodi da ascrivere alla “guerra per bande” che si starebbe consumando tra un gruppo editoriale e il presidente del consiglio.
 Come se, ammesso che si possa ridurre il tutto a questa semplificazione, fosse legittimo per quest’ultimo usare qualsiasi strumento e le sue tv in qualsiasi maniera gli convenga.
Abbiamo assistito in questi ultimi giorni a un lungo botta e risposta tra de Bortoli e Scalfari che verteva in ultima analisi sul mestiere della libera stampa. Un dibattito che troverà  forse alcune risposte da come il Corriere della Sera giudicherà  questo sconvolgente episodio e se lo riterrà  meritevole di attenzione e di opinioni nette e, per una volta almeno, non “terze”.

Noi, il partito democratico, dobbiamo invece comprenderne bene la carica distruttiva delle regole di base della democrazia e reagire con la forza necessaria.

Francesco Ferrante

Clima, ultima chiamata

Articolo pubblicato sul numero di ottobre de “La nuova Ecologia”
 

Nella conferenza di Copenhagen, il prossimo dicembre, è in gioco il futuro del Pianeta. Serve un nuovo accordo sulle emissioni. Ma anche l’impegno di tutti gli attori per costruire un mondo più giusto. Malgrado l’Italia

 

di Francesco Ferrante *

 

Era il 1990 quando Legambiente lanciò la petizione: “Fermiamo la febbre del Pianeta”. Raccogliemmo centinaia di migliaia di firme, mobilitando l’associazione in uno sforzo straordinario. Era un impegno condiviso con l’ambientalismo di tutto il mondo ma condotto “contro” le opinioni dominanti dell’economia, della politica, dei media. Già  due anni dopo però, nella prima conferenza Onu sullo Sviluppo Sostenibile di Rio de Janeiro, e con la sottoscrizione in quell’occasione delle convenzioni su clima e biodiversità , iniziarono a farsi strada nel discorso pubblico internazionale nuove priorità , e la necessità  di trovare sedi multilaterali dove governare fenomeni globali come quello legato ai cambiamenti climatici. Da lì nasce il protocollo di Kyoto (1997) e in quegli anni le questioni ambientali avrebbero potuto fare da apripista a un modo più saggio, equo e giusto di governare il mondo. Una modalità  che non si è mai affermata e a cui l’11 settembre e la politica unilaterale di Bush hanno fatto subire in questo primo scorcio di millennio tragici passi indietro.

Yes, we can

Oggi, quasi vent’anni dopo, ci troviamo in un momento che può essere decisivo per il futuro del Pianeta e di come gli umani decideranno di viverci e governarlo. Non sembri eccessivo: è questo che è in gioco a Copenhagen a dicembre. Non solo la ricerca di un accordo sulle limitazioni delle emissioni ma la scommessa, “obamiana”, di trovare e rilanciare su scala globale un modo pacifico di risolvere i conflitti, di distribuire le ricchezze per assicurare benessere a fasce sempre più ampie della popolazione mondiale. Insomma, un  nuovo inizio per una globalizzazione “buona”, in opposizione a quella ultraliberista che ha dominato lo scenario politico-economico in questi anni. Sono nuovamente le questioni ambientali, la lotta alla febbre del pianeta che possono giocare un ruolo decisivo in questa sfida epocale. E allora sono questi gli occhiali che dovremmo usare per giudicare i risultati di Copenhagen. Non solo i due tradizionali metri degli ambientalisti: il numero finale di riduzione percentuale di gas serra su cui si troverà  l’accordo e la cogenza degli impegni che in quella sede i vari attori (Usa, Ue, paesi emergenti e in via di sviluppo) si assumeranno. Ma sarà  ancora più importante l’approccio globale: se l’Unione Europea manterrà  il ruolo di spinta che ha avuto in questi anni, se Cina, India e Brasile otterranno i trasferimenti di tecnologia necessari per ottenere l’aumento di benessere delle proprie popolazioni senza seguire le strade, non più sostenibili, che abbiamo seguito noi, se gli Usa manterranno la promessa di essere in prima linea nel dare l’esempio di un nuovo stile di vita. Dovremo capire se a Copenhagen, oltre a disegnare un futuro in cui l’umanità  uscirà  dall’era del fossile per cavalcare le nuove frontiere delle rinnovabili, si sarà  messa una prima pietra nella costruzione di un mondo più “giusto”.

Governo senza limiti

Viene un po’ di malinconia se confrontiamo questa grande sfida cui è chiamato il mondo con chi rappresenterà  noi italiani in quella sede. Questo nostro governo, e la maggioranza che lo sostiene, rimasto solo, come quei giapponesi che continuavano a combattere anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, a negare i cambiamenti climatici (vedi la demente mozione approvata dal nostro Senato proprio alla vigilia del G8 Ambiente di Siracusa), a combattere le energie rinnovabili (vedi l’altrettanto demente mozione approvata sempre al Senato prima dell’estate) e a provare a rilanciare il vecchio, insicuro e costoso nucleare. Il Berlusconi del 2001 aveva puntato tutto sul fatto che Kyoto non sarebbe entrato in vigore, e ha perso. Il Berlusconi del 2008 ha giocato le sue carte contro la Ue e il suo pacchetto clima, e ha perso di nuovo. Ma non si rassegnano: durante quest’estate hanno “scoperto” che non centrare gli obiettivi di Kyoto ci costerà  dai 550 agli 800 milioni annui e hanno scaricato ogni responsabilità  sul governo precedente: hanno detto, i nostri ineffabili governanti e il Sole 24 Ore, che la “colpa” era nell’aver accettato dall’Ue limiti troppo restrittivi. La verità  è un’altra: quei limiti erano sin troppo generosi se paragonati agli sforzi richiesti ad altri paesi, ma inaccettabili per il nostro sistema di produzione termoelettrica che voleva in maniera miope continuare a puntare sul carbone. Il problema è tutto qui: non c’entra niente il sistema manifatturiero da proteggere (che sta dentro gli obiettivi), il nostro deficit è tutto nel termoelettrico e non poteva essere altrimenti vista la folle politica “carbonifera”.

Cambiare rotta

Le dodici centrali a carbone attive in Italia producono il 14% del totale dell’energia elettrica ma emettono il 30% dell’anidride carbonica dovuta alla produzione complessiva di elettricità . Sono queste le prime responsabili dello sforamento dei limiti europei: nel 2008 le centrali a carbone avevano già  sforato di 7,5 milioni di tonnellate di CO2 i limiti. Allora che si fa? Si converte a carbone la centrale di Civitavecchia, incrementando di 10 milioni di tonnellate annue le emissioni e non contenti di ciò, nel corso del 2008, sono state autorizzate conversioni a carbone a Fiumesanto (Sassari), Vado Ligure (Savona) e quella della megacentrale di Porto Tolle, che se realizzate emetterebbero in atmosfera ulteriori 38,8 milioni di tonnellate di CO2. E il vero capolavoro, se è consentita l’ironia, è che vorrebbero scaricare i costi dello sforamento sulle tasche dei cittadini, non facendo pagare alcun prezzo a chi – le aziende elettriche – sul carbone macina profitti. Contraddicendo così in maniera clamorosa il senso stesso delle norme internazionali che cercano appunto di correggere il mercato tenendo conto dei “costi ambientali”. Bisogna che questo paese cambi rotta immediatamente, noi non ci stancheremo di reclamarlo e di batterci perché anche l’Italia e gli italiani partecipino alla “rivoluzione” che ci attende nei prossimi anni e che speriamo a  Copenhagen muova passi concreti.

 

* segreteria nazionale Legambiente

La green economy nel programma del Pd

Pubblicato sul Corriere dell’Umbria

L’Umbria ha bisogno di innovazione. Sarà  il Partito Democratico lo strumento politico che potrà  assicurare a questa Regione e ai suoi cittadini un quadro di regole, nella buona amministrazione, che le permetta un nuovo sviluppo e di uscire dalla crisi, sapendone cogliere le opportunità , con un rinnovato slancio comune? Noi ne siamo fermamente convinti. A patto che il Partito Democratico sappia mantenere le premesse da cui era nato: andare oltre le storie politiche – quella democristiana e quella comunista – da cui provenivano i due partiti fondatori, che comunemente giudicavamo non più sufficienti a leggere e saper affrontare le sfide del nuovo secolo; aprirsi a persone e temi che di quelle storie non erano “parte”, come ad esempio la questione ambientale; trovare nuove risposte ai nuovi problemi che hanno portato con sé questi anni della globalizzazione, prime tra tutte quelle necessarie per costruire un nuovo welfare per i nostri giovani alle prese con una precarietà  che spesso è dramma. Noi però crediamo sia onesto e doveroso ammettere di fronte ai cittadini che in questi due anni che ci separano dalla primarie dell’ottobre 2007, troppo spesso alle parole non sono seguiti i fatti: ci siamo fermati in mezzo al guado, non abbiamo saputo rinnovare il gruppo dirigente – a livello nazionale, ma anche qui in Umbria – premiando quei tanti giovani che invece erano emersi nei nostri circoli durante l’ entusiasmante campagna elettorale del 2008 (ricordiamo che l’Umbria regalò al Partito un bel successo, uno dei migliori risultati in Italia); troppo spesso ci siamo attardati in polemiche interne, incomprensibili all’esterno e troppo centrate sui destini personali di qualcuno – anche qui in Umbria; e ci siamo attardati in risposte antiche non sapendo cogliere a sufficienza le novità  che intanto emergevano nella società . Non c’è più tempo da perdere, e il congresso che si è appena avviato deve essere l’occasione per fare il passo decisivo che permetterà  al Partito di liberarsi di vecchie incrostazioni e di offrire finalmente a tutti i i cittadini una proposta politica seria e nella quale si potranno trovare gli elementi per il rilancio di cui abbiamo bisogno. Noi, insieme a molti altri ambientalisti, abbiamo individuato nella mozione del Segretario in carica quella che meglio rispondeva a queste esigenze e che con più chiarezza indicava nella green economy la ricetta utile per uscire dalla crisi. Una ricetta che è quella scelta da Obama e in Europa, una ricetta che sarebbe perfetta per l’Umbria perché terrebbe insieme la tutela e la valorizzazione di quelle straordinarie risorse di cui l’Umbria è ricca – il paesaggio, le bellezze artistiche, le tradizioni enogastronomiche – con l’innovazione di cui gli umbri hanno dato già  dato belle prove – basti pensare alla “chimica verde” della Novamont a Terni, o alla tecnologia, che ora si applica anche al solare  della Angelantoni a Massa Martana. Franceschini ha saputo indicare quella strada con una serie di netti “si” e altrettanto netti “no”, primo tra tutti il no al nucleare,  (vedi alla voce “qualità ” che è una delle parole chiavi su www.dariofranceschini.it), ed anche questo ci ha convinti: la capacità  di uscire dalle ambiguità  ed essere chiari con la gente.

Il Congresso sarà  quindi una straordinaria occasione di discussione democratica. Il nostro partito d’altronde deve essere questo: una comunità  di cittadini che si ritrova  e che cerca insieme le risposte giuste ai problemi, e che attraverso lo strumento delle primarie sceglie i suoi dirigenti e i candidati alle elezioni. Non dobbiamo però sprecare questa occasione, dando all’esterno un’immaggine di scontro, che sarebbe di nuovo incomprensibile, e per questo in Umbria abbiamo apprezzato la proposta di Alberto Stramaccioni, che ci è sembrata rappresentare adeguatamente questa volontà  “unitaria, e quindi, nonostante la stima che ci lega da tempo a Lamberto Bottini, uno dei migliori amministratori e dirigenti politici di questa Regione, ma che in  questa vicenda congressuale ha ritenuto di spendersi per una causa troppo di parte, sosterremo la candidatura dell’attuale segretario provinciale di Perugia proprio al fine di assicurare al Partito un periodo di concordia interna in cui potremmo dedicarci con più forza al dialogo vivo con la società .

 

Francesco Ferrante
Direttore generale Gruppo Pd Senato
Sergio Santini
Membro Ufficio Politico Pd Umbria

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