Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Il nucleare non si farà 

di Francesco Ferrante e Ermete Realacci

Pubblicato sui I Quaderni Speciali di Limes 

Mentre in tutta Europa e nel mondo si discute di mutamenti climatici, di rispondere alla crisi con la green economy, di come affrontare positivamente il vertice Onu di Copenaghen, in Italia si parla troppo di nucleare. Il dibattito sull’utilizzo di questa fonte per la produzione di energia elettrica ha assunto nel nostro paese un peso decisamente abnorme. Spingono in questa direzione i legittimi interessi delle aziende interessate e la voglia del Governo di individuare un’icona propagandistica che possa nascondere l’inazione in settori più rilevanti del punto di vista delle politiche energetiche e della competitività  strategica del nostro sistema produttivo. Ma è anche presente, in larga parte della classe dirigente del paese, nella politica, nell’economia, nell’informazione un pregiudizio favorevole, venato di  entusiasmi ideologici. E’ così accaduto che il rilancio del nucleare abbia dominato la comunicazione e occupato a più riprese ampi spazi sui media a tutti i livelli, finendo per occultare un confronto necessario sulle scelte energetiche di fondo e sulle strategie da mettere in campo per dare forza al nostro sistema produttivo. Strategie che hanno molto a che vedere in tutti i campi con le politiche energetiche e ambientali.

 

Non è così nel resto del mondo. Se è infatti vero che molti paesi hanno importanti quote di energia elettrica prodotta per via nucleare, non è vero che siano di fronte ad un rilancio significativo di questa fonte. Questo non perché sia stata fermata come in Italia, Austria, Svezia da referendum, né solo per motivazioni legate alla sicurezza degli impianti e del ciclo nucleare, che tralascio, ma per i costi. La struttura dei costi del KWh nucleare è infatti particolare rispetto a quello di altre fonti. Incide molto la costruzioni degli impianti, relativamente poco la gestione e il costo del combustibile, tantissimo lo smantellamento e la chiusura del ciclo, con la messa in sicurezza delle scorie (il solo impianto non definitivo per le scorie ad alta attività  in costruzione in Francia  a Bure costa circa 15 miliardi di euro).

 

Se, in un’economia di mercato, si tiene conto di tutti questi costi il nucleare non è competitivo. Diviene semmai conveniente ottenere il massimo dalle centrali già  in funzione, magari allungandone la vita oltre gli impegni presi: pensiamo ad esempio a quanto è probabile accada in Germania, Spagna, Svezia. Diversa è la valutazione se una parte dei costi del ciclo nucleare sono a carico, in maniera palese od occulta, della fiscalità  generale e quindi  dei cittadini e delle imprese.

E’ questo  il motivo per cui attualmente in tutto l’Occidente sono in costruzione  due soli impianti nucleari uno in Francia a Flamanville e uno in Finlandia a Oikiluoto, entrambi con tecnologia francese di AREVA, la stessa  privilegiata dall’Enel e dal Governo italiano. L’impianto di Oikiluoto doveva essere consegnato entro il 2009, si parla ora del 2012 e i costi di costruzione sono già  aumentati del 70%, un vero e proprio disastro industriale. E questo prima dell’ultima pesante ed irrituale  messa in mora sui sistemi di sicurezza avanzata con un comunicato congiunto da tre agenzie per la sicurezza nucleare il 22 ottobre: la francese ASN, la britannica HSE’s NSD e la finlandese STUK. Cosa che produrrà  perlomeno un ulteriore allungamento dei tempi e un ulteriore innalzamento dei costi. Per tutti questi motivi negli Stati Uniti, dove la produzione di energia elettrica è da sempre totalmente privatizzata, è dagli anni ’70 che non si avvia la costruzioni di nuovi impianti nucleari. E non sono bastati i fondi stanziati da Bush per muovere la situazione.

Diversa è la situazione in altre aree del mondo, ma in molti casi siamo di fronte a scelte supportate dai governi talvolta legate ad esigenze di tipo militare. Come dimostra in via estrema la vicenda iraniana .

 Non ha dunque fondamento la proposta del Governo Berlusconi di rilanciare il nucleare in Italia , con la tecnologia attualmente a disposizione, quella di terza generazione avanzata, basata sull’assunto che il costo dell’energia in Italia possa essere abbassato con il ritorno al nucleare modificando il “mix energetico” oggi troppo sbilanciato sui combustibili fossili, metano innanzitutto. Da cui la proposta di Scajola di modificare tale mix, sino a raggiungere il 50% di energia elettrica prodotta da fonti fossili, 25% da rinnovabili e 25% da nucleare. E siccome è indubbio che oggi le nostre industrie e le famiglie italiane paghino l’elettricità  ben di più di quanto si faccia nei Paesi con cui dobbiamo confrontarci nel mercato globale, è bene verificare innanzitutto dal punto di vista economico se la proposta del Governo sia quella giusta per affrontare il problema. Né appare credibile tagliare corto nelle decisioni con scelte, peraltro di dubbia costituzionalità , che, cosa unica in Occidente, avocano la decisione finale sulle localizzazioni al Governo anche contro la volontà  di regioni ed enti territoriali.
Primo punto da verificare è se è vero che sia la modifica del “mix energetico” la priorità  per abbassare il prezzo dell’energia elettrica. Già  su questo è lecito nutrire parecchi dubbi: il differenziale con gli altri Paesi è infatti pesante sul prezzo finale dell’energia elettrica, non tanto sul costo di produzione. Secondo gli ultimi dati disponibili, in media alla borsa elettrica il megawattora prodotto in Italia si paga 62 euro, un costo non distante dai costi “europei” (58 euro), come è facilmente comprensibile se si tiene conto che il nostro parco centrali è basato soprattutto su nuove centrali a ciclo combinato molto efficienti e quindi con costi di produzione inferiori. Lo scarto avviene dopo, perché sulla bolletta elettrica gravano oneri dovuti a una rete troppo vecchia e non adeguata alle nuove sfide, oneri impropri come quelli dovuti proprio allo smaltimento del vecchio nucleare italiano che da solo pesa per oltre 400 milioni che paghiamo in bolletta (la tariffa A2). Sarebbe quindi molto più utile agire su questi fronti, modernizzare la rete elettrica, superando gli “imbottigliamenti” e adeguandola anche alle nuove forme di produzione di energia, investire sulla “smart grid”, la rete elettrica intelligente, come non a caso stanno facendo gli Usa di Obama, depurare la bolletta elettrica dagli oneri impropri che gravano su di essa.

 Secondo punto da approfondire è se siano credibili le percentuali che secondo Scajola dovrebbero essere assicurate dalle fonti fossili e dalle rinnovabili a regime. Se prendiamo sul serio gli impegni che abbiamo preso in Europa, quelli connessi al pacchetto clima, la percentuale da fonti rinnovabili deve necessariamente essere più alta del 25% disegnato dal Governo. Infatti l’obbligo di raggiungere entro il 2020 il 17% del consumo finale lordo di energia prodotto da energie rinnovabili significa che, per quanto riguarda l’elettricità , tale percentuale dovrà  avvicinarsi al 33% (oltre 100 Twh annui quando oggi ne produciamo 58). E anche ridurre al 50% la produzione di energia elettrica da fonte fossile risulta un obiettivo molto difficilmente raggiungibile e contraddittorio con le recenti autorizzazioni di riconversione a carbone che il Governo ha concesso per le centrali di Civitavecchia (già  realizzata), Porto Tolle, Vado Ligure e Fiumesanto da una parte, e con la sacrosanta pressione per realizzare nuove infrastrutture (gasdotti e rigassificatori) al fine di aumentare le possibilità  di importazione di metano nel nostro Paese dall’altra. Il tutto in una fase di calo dei consumi, dovuto alla crisi, che auspicabilmente finirà  presto ma che intanto ha prodotto riduzioni importanti. Senza pensare agli obblighi europei che ci impongono di risparmiare il 20% di energia da qui al 2020. Insomma non sembra proprio che in un’economia libera e di mercato ci sia spazio sufficiente per il nucleare.

Tale conclusione è confermata quando si affronta il terzo e ultimo capitolo: i costi intrinseci del nucleare. Qua le cifre ballano parecchio, ma sia se prendiamo in considerazione studi davvero “terzi”, sia se andiamo a vedere i costi reali delle poche centrali in costruzione, la risposta sembra univoca: non conviene.

Il rapporto del Massachusetts Institute of Technology di Boston (Mit) del giugno 2009 che aggiorna il dossier sul nucleare che l’istituto aveva realizzato nel 2003, ad esempio, sottolinea che, nonostante l’attenzione sul tema sia cresciuta e nuove politiche di rilancio siano state annunciate in molti paesi, lo sviluppo del nucleare è in calo a livello globale. Ad eccezione dell’Asia, e in particolare di Cina, India e Corea, esistono infatti pochi progetti concreti. Negli Stati Uniti non vi è attualmente alcun cantiere aperto ed il lento sviluppo del nucleare, rispetto agli annunci e alle previsioni, rende meno probabile lo scenario di espansione ipotizzato nel 2003 dallo stesso Mit. Ma l’aspetto forse più significato del rapporto del Mit è la netta affermazione per cui in un’economia di mercato il nucleare non è competitivo rispetto al gas o al carbone. I costi del capitale e i costi finanziari delle centrali nucleari continuano ad essere infatti significativamente incerti. Dal 2003 i costi di costruzione delle centrali nucleari sono aumentati drasticamente, con una media del 15 per cento all’anno in più come dimostrano le esperienze in Giappone e Corea.  Nel 2007, secondo i nuovi dati del Mit, realizzare una centrale nucleare costava 4000 dollari per kW contro i 2000 di quattro anni prima. Un aumento molto più consistente di quanto accaduto nel carbone e nel gas attualmente stimate a 2300 dollari e 850 dollari a kW contro i 1300 e 500 del 2003. Una crescita che si ripercuote inevitabilmente anche sui costi finali dell’energia: dai 6,7 centesimi a kilowattora stimati nel 2003 il nucleare era passato ad un costo di 8,4 cent a kilowattora contro i 6,2 del carbone ed i 6,5 del gas. E’ quindi il prestigioso Mit che si incarica di seppellire l’idea che ricorrere al nucleare sarebbe “conveniente”. Ma non sono solo le stime a negare la convenienza: a luglio Areva, l’azienda francese costruttrice di centrali nucleari cui il nostro Governo vorrebbe affidare il compito anche in Italia, ha chiesto al Canada 4500 euro per kW – ben di più quindi anche delle stime del Mit – per realizzare un impianto in quel Paese, causando ovviamente l’immediato stop del progetto.

Diversa è la valutazione per la ricerca sui reattori di IV generazione, che dovrebbero affrontare alla radice il problema della sicurezza, della produzione di scorie, del legame col ciclo militare, abbattendo quindi notevolmente i costi. Un  campo interessante in cui molti paesi stanno investendo e nel quale l’Italia può giocare un ruolo, sfruttando il fatto che già  l’Enea è impegnata in importanti progetti internazionali su questo tema e che abbiamo eccellenti centri di ricerca in alcune università  italiane, come ad esempio Pisa. Mentre è ovviamente necessario ricostruire un sistema di sicurezza nucleare, oggi obiettivamente disastrato, in grado di  far fronte anche all’eredità  del passato e che le nostre imprese partecipino alla realizzazione di impianti con le tecnologie più avanzate.
D’altra parte si potrebbe rispondere a queste nostre obiezioni dicendo di lasciar fare ai privati e che, se aziende elettriche vogliono investire sul nucleare nel nostro Paese, evidentemente la convenienza economica loro la sanno vedere meglio di altri e quindi di lasciare fare al mercato. Il punto è che però troppo spesso abbiamo assistito a progetti che partivano con tali dichiarazioni d’intenti e che poi finivano per pesare sulle tasche dei cittadini. Sembra proprio andare in questa direzione la richiesta – venuta da Enel – per cui a causa di questi costi imprevedibili e comunque esorbitanti del nucleare sarebbe necessario stabilire una tariffa “minima” per la vendita dell’elettricità  in modo rassicurare le banche coinvolte nello straordinario project financing che si dovrebbe mettere in piedi (visto che per la realizzazione delle 8 centrali necessarie a soddisfare il 25 % servirebbero non meno di 30 miliardi, o 40 se si prendono per buoni i costi della centrale finlandese), una richiesta contro il mercato e contraria agli interessi di consumatori e aziende.
Resta da affrontare l’ultimo tema che apparentemente potrebbe giocare a favore della scelta nucleare: la lotta ai cambiamenti climatici e la riduzione delle emissioni di gas serra che si otterrebbe ricorrendo al nucleare. Intanto va detto che il nucleare potrebbe portare un contributo esclusivamente nella produzione di energia elettrica, produzione che pesa solo per circa un terzo dei consumi di energia primaria e delle relative emissioni. Non a caso a livello internazionale (da Kyoto in poi), mai la tecnologia nucleare viene considerata fra quelle cui è necessario rivolgersi per ridurre le emissioni dei gas di serra. Su quel fronte è di gran lunga preferibile, anche per l’Italia, seguire la ricetta degli altri Paesi ed impegnarsi sulle energie rinnovabili e sul risparmio energetico. Ad esempio andrebbe perseguita con più decisione la strada tracciata dall’introduzione del credito di imposta del 55% per la riqualificazione energetica nell’edilizia e che ora andrebbe esteso, come chiedono anche le Regioni, agli adeguamenti antisismici, una strada che ha già  permesso il risparmio nei primi due anni di applicazione di 2500 kWh di energia elettrica ed è stato un sostegno concreto a un settore in difficoltà , spingendo nella strada dell’innovazione e della qualità . Oppure basti pensare agli obiettivi di risparmio già  raggiunti dalle nostre filiere di riciclaggio e recupero materiali: circa 15 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno, che possono ragionevolmente arrivare a 20 in pochi anni. L’equivalente di 10 centrali nucleari da 1000 Megawatt, sicuramente non attive prima di un decennio.

Finalmente, anche nel campo delle energie rinnovabili il sistema italiano si è finalmente rimesso in moto. Rimane il rimpianto per il tempo e le risorse sprecate. Basti pensare all’enorme quantità  di denaro sottratto, attraverso le bollette, ai cittadini italiani per i vecchi provvedimenti del cosiddetto CIP6, per sovvenzionare fonti ridicolmente “assimilate” alle rinnovabili, che erano in buona parte residui  della raffinazione del petrolio o, in misura minore, termovalorizzazioni: decine di miliardi di euro. Ancora il gap nei confronti degli altri paesi europei  è ampio ed è dovuto a questi  ritardi, ma grazie anche alla riforma del sistema di incentivazione realizzata con la finanziaria  del 2008 – la seconda del Governo Prodi – lo scorso anno abbiamo aumentato del 21% la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, abbiamo raggiunto un record nella produzione da eolico e finalmente abbiamo iniziato a istallare quantità  significative di solare fotovoltaico (ormai abbiamo superato i 600 Mw). Insomma iniziamo finalmente ad essere in linea con ciò che avviene in Europa e nel mondo in questo campo: nel 2008 in Europa sono stati istallati impianti eolici per 8000 Mw, contro i 7000 Mw di centrali a gas, e anche il fotovoltaico ha raggiunto uno spettacolare risultato di 4000 Mw; nel mondo nel 2008, secondo una ricerca dell’Unep, per la prima volta gli investimenti in fonti rinnovabili (140 miliardi di dollari) hanno superato quelli nel tradizionale fossile (110 miliardi di dollari).

Questo dinamismo sulle istallazioni, anche in Italia si sta trasferendo finalmente sulla ricerca e sull’innovazione nelle quali alcune nostre imprese stanno già  svolgendo ruoli importanti. Sono sempre più numerosi gli esempi di esperienze innovative e di successo in questo campo: la Angelantoni sul solare termodinamico, il cui dinamismo ha attratto gli investimenti anche di una multinazionale quale la Siemens (la tecnologia ideata da Rubbia, messa punto dall’Enea è stata successivamente trasferita sul mercato proprio grazie ad Archimede Solar Energy (Ase), azienda del Gruppo Angelantoni, unico produttore al mondo di tubi ricevitori solari a sali fusi per le centrali del solare termodinamico); la siciliana Moncada, uno dei leader sull’eolico che ha realizzato una turbina tutta italiana; le aziende – spesso spin off universitari, Ferrara e Parma tra gli altri – impegnate nella ricerca di alternative all’utilizzo del silicio come componente delle celle fotovoltaiche; le imprese come la Giacomini, che nata come produttrice di singoli componenti per il riscaldamento e la distribuzione sanitaria, ha successivamente specializzato la propria produzione, puntando sul risparmio energetico e sullo sviluppo di nuovi sistemi ad alto contenuto tecnologico destinati alle energie rinnovabili; le aziende specializzate in tecnologie innovative per il risparmio nella pubblicazione illuminazione (l’Umpi Elettronica, la Sorgenia Menowatt che ha la sua base operativa nelle Marche, ma anche i produttori di led, la cui sperimentazione a Torraca ha raggiunto interessanti obiettivi); la Faam di Monterubbiano (ancora nelle Marche), leader europeo per la produzione di batterie e veicoli elettrici, le sue macchine elettriche da oltre un decennio puliscono le ramblas di Barcellona, mentre l’estate scorsa hanno debuttato alle Olimpiadi di Pechino per contribuire allo spostamento degli atleti e al monitoraggio ambientale

Insomma sulla strada della Green Economy l’Italia ha molto da dire se non viene paralizzata da ingombranti feticci. E’ anche su questo che possiamo puntare per presentarci da protagonisti e non giocare in retrovia al prossimo vertice sul clima di Copenaghen. Se anche il suo sistema di piccole e medie imprese si mette in movimento nel settore del risparmio energetico, dell’efficienza, dell’innovazione, i suoi risultati possono essere sorprendenti e, talvolta suggestivi. Pensiamo, ad esempio, all’ UMPI di Cattolica. Una piccola azienda, che ha affinato brevetti e tecnologie in grado di risparmiare energia nell’illuminazione stradale e che recentemente ha acquisito commesse in vari paesi. Tra queste una serie di realizzazioni per oltre 100.000 punti luce in Arabia Saudita, compresa La Mecca e Riad.

E’ solo una suggestione della toponomastica, per carità , ma oggi Cattolica illumina La Mecca.

Più in generale la Green Economy in Italia incrocia la missione del nostro sistema produttivo: la scommessa della qualità  ancora più importante oggi per uscire bene dalla crisi in corso. Produrre, come diceva Carlo Maria Cipolla, all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo.

E’ una missione antica che oggi accompagna la nostra sfida sull’innovazione, la ricerca, la conoscenza. Ricorre quest’anno il Centenario del Costituto di Siena. La costituzione senese che 1309 fu affissa in tutte le chiese. Poche parole, in quel documento, che sembrano la sceneggiatura dell’affresco del buongoverno di Lorenzetti che fu dipinto dopo, descrivono bene l’Italia che vorremo e che in parte c’è.

Chi governa, dicevano i senesi, deve avere “massimamente a cuore la bellezza della città , per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità  e accrescimento della città  e dei cittadini”.

Non si parla strettamente di energia ma si evoca la fonte più importante, rinnovabile e meno inquinante che esiste: l’intelligenza umana e con essa la bellezza e il senso del futuro. Se la metteremo in campo, senza inseguire vecchi feticci, compiendo scelte coraggiose e innovative, nessun obiettivo ci sarà  precluso.
Ermete Realacci
Francesco Ferrante

 

Copenaghen non è fallita

La conferenza di Copenaghen sui cambiamenti climatici è già  fallita, come si sono affrettati a dichiarare i media italiani all’indomani del vertice Cina/Usa della settimana scorsa? O addirittura è finita prima di cominciare come afferma Farinone su questo giornale in un editoriale pubblicato sabato? A me pare piuttosto solo una lettura affrettata dello stato delle trattative internazionali, dovuta a una discreta ignoranza dei problemi connessi ai cambiamenti climatici comune a molti giornalisti e politici italiani e spinta da una consistente lobby di alcuni settori economici contraria – ancora! – a qualsiasi accordo internazionale sul tema. Copenaghen non è affatto già  fallita, anzi resta intatto il valore fondamentale dei dieci giorni di dicembre che forse non “cambieranno il mondo”, ma che possono costituire un importante passo per un nuovo approccio al governo mondiale dei conflitti. Dal 1992, quando alla Conferenza Onu di Rio de Janeiro, si firmò la prima Convenzione sui cambiamenti climatici, su questo tema si è giocata una partita fondamentale che andava oltre la stessa, vitale per il Pianeta e per il nostro futuro, della riduzione delle emissioni di gas di serra: la questione ambientale per la sua stessa natura planetaria era la prova fondamentale per costruire una “governance” globale dei conflitti basata sugli accordi multilaterali e non sulle prove muscolari. L’inizio del millennio, con la vittoria di Bush – e delle lobby petrolifere che lo sostenevano – e con l’11 settembre e la risposta di guerra decisa da quell’amministrazione è stato un drammatico passo indietro. Oggi, grazie soprattutto ad Obama, siamo di fronte a una nuova chance. La si può vincere solo ovviamente coinvolgendo anche quei Paesi emergenti che sono fra i massimi responsabili delle emissioni di gas di serra. E allora, se è sacrosanto che gli ambientalisti di tutto il mondo continuino a battersi per il risultato più alto possibile, è proprio miope che la nostra classe dirigente consideri più importante il fatto che Obama e Hu abbiano detto quello che tutti sanno ormai da quest’estate, e cioè che a Copenaghen non si arriverà  a definire target precisi e che questo obiettivo è rinviato alla Conferenza di Città  del Messico dell’anno prossimo, e non sul fatto che per la prima volta i cinesi, trascinati da Obama appunto, si sono impegnati a raggiungere un accordo “politicamente vincolante”. Una novità  straordinaria – che infatti è il punto su cui si soffermano i più autorevoli media internazionali – , ancora più significativa se la si mette insieme all’eccezionale balzo in avanti che le energie rinnovabili stanno facendo in Cina. Certo restano ostacoli enormi al raggiungimento dell’accordo, a partire dall’impegno economico che i Paesi ricchi dovranno sostenere per il trasferimento delle tecnologie più innovative. Ed è qui che l’Europa dovrebbe fare uno sforzo maggiore per conservare quella leadership che si è conquistata, soprattutto grazie all’azione della Germania, nella lotta ai cambiamenti climatici e che in questi anni è stato anche uno straordinario driver di nuovo sviluppo, e la risposta più efficace individuata nell’affrontare la crisi economica. Purtroppo in tutto questo l’Italia non c’è: il suo Governo è fuori dal cuore delle trattative; il Ministro dell’ambiente e la Presidente di Confindustra si preoccupano solo di “frenare”. Dovrebbe essere quindi il Partito Democratico a prendere in mano la bandiera dell’ambientalismo politico e incaricarsi di dare rappresentanza a tutti quei cittadini e a quelle imprese che su un futuro migliore stanno scommettendo. Avrebbe davanti a sé uno straordinario campo dove mietere consenso e costruire il proprio profilo di partito che vuole offrire un’alternativa a questa destra e al berlusconismo, per tornare a l Governo e cambiare questo Paese. Purtroppo anche il Pd di oggi sembra troppo indeciso, e non è certo un bel segnale che fra le parole d’ordine scelte per lanciare la mobilitazione dell’11 e 12 dicembre non c’è nemmeno una che riguardi questi temi. Proprio nei giorni di Copenaghen!

 

FRANCESCO FERRANTE 

 

Ambiente, fianco scoperto di Bersani

L’uscita di Rutelli e il disagio evidente degli ex-popolari sono visti dai più come il problema principale per il Pd del dopo-primarie. Secondo questa lettura prevalente, pressoché unanime tra i media e condivisa anche da buona parte del gruppo dirigente democratico, il Pd dell’era-Bersani è ben avviato a recuperare almeno un po’ dei consensi evaporati tra le politiche e le europee, ma deve fare attenzione al suo “fianco destro” oggi più scoperto che mai.
Naturalmente il malessere più o meno esplicito di tanti dirigenti nazionali e locali del Pd con una storia cattolico-democratica che temono di sentirsi – e di essere considerati – sempre di più ospiti o comunque ufficiali di complemento in un partito democratico in via di “diessizzazione”, è un fatto incontestabile ed è un problema vero e grande per la leadership di Bersani. Ma non è l’unico problema e forse non è il principale.
Un rischio non meno temibile è che il Pd rinunci ad aprirsi alla rappresentanza di sensibilità , di interessi che sono difficilmente etichettabili secondo le categorie tradizionali del centrosinistra italiano: sensibilità  ed interessi che sfuggono, cioè, alle definizioni di fianco destro o sinistro, cattolico o laico, che oggi faticano terribilmente a trovare nella politica interlocutori attenti, che per questo hanno guardato con simpatia e speranza alla nascita del Pd ma che al Pd non sono affatto acquisiti e non è detto che non possano rivolgersi altrove.
Segmenti significativi di questi “mondi” recano una forte connotazione ambientale: sono le imprese dell’economia verde che investono nel risparmio energetico, nelle fonti rinnovabili, nella gestione sostenibile dei rifiuti, nei nuovi prodotti ecologici; sono migliaia di piccole e medie imprese del “made in Italy” consapevoli che il loro futuro competitivo è saldamente ancorato alla capacità  di investire in qualità , anche e molto in qualità  ambientale; sono tutte le imprese sociali del no-profit che lavorano in ambiti legati alla tutela e alla valorizzazione dell’ambiente; sono quella parte già  ampia e crescente di cittadini per i quali l’attenzione ecologica è tra i criteri che determinano gli stili di vita e le scelte di consumo ed è persino di più: un valore identitario, uno degli elementi costitutivi dell’appartenenza sociale e territoriale.
Questa Italia – che proprio oggi sarà  protagonista di un incontro promosso dalle fondazioni Symbola di Ermete Realacci e Fare Futuro di Gianfranco Fini (che interverrà  all’iniziativa) – finora è stata poco e male rappresenta dalla politica, anche da quella dei partiti progressisti che non ha mai veramente integrato i temi dell’innovazione energetica, di un governo equilibrato del territorio, della modernizzazione ecologica dell’economia tra le sue priorità  di azione e di proposta. Eppure è una Italia irrinunciabile per ogni concreta prospettiva riformista, tanto più in un’epoca come l’attuale nella quale il mondo è alle prese con una sfida inedita e difficilissima – fronteggiare il problema climatico – che trasformerà  i presupposti stessi dell’agire e della convenienza economici.
Di solito nel mondo l’ambiente trova più spazio nel discorso pubblico del centrosinistra. E’ auspicabile che accada così anche in Italia, che sia il Pd ad intestarsi con più convinzione la questione ambientale integrandola in un’idea complessiva del futuro e dello sviluppo che coniughi tra loro sostenibilità  ambientale e qualità  sociale. E’ auspicabile che sia così, ma non è scontato. Ci sono in Europa forze politiche di centrodestra, dai conservatori inglesi ai democristiani tedeschi, che hanno fatto dell’ambiente una loro bandiera, ricavandone generalmente un vantaggio in termini di consenso, e lo stesso rilevante successo di partiti ecologisti come i Grà¼nen in Germania o Europe Ecologie in Francia nasce anche dalla scelta di sottrarsi a una stretta logica “rosso-verde”.
Se vuol essere il Pd a intercettare per primo e con maggiore credibilità  questo movimento di energie e di esperienze imprenditoriali, sociali, culturali, allora bisogna, per dirla semplice, che si dia una mossa. Oppure i fianchi scoperti diventeranno più d’uno.

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

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