Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Global warming:quanto conta un grado in più

Nel totale caos logistico della Conferenza sul clima piu’ partecipata e peggio organizzata di sempre (anche oggi migliaia di persone regolarmente pre-accreditate hanno aspettato per ore all’aperto senza riuscire ad accedere nella sala dove vengono distribuiti i passi), il negoziato continua in un’alternanza di speranza e pessimismo e nell’attesa dell’arrivo dei leader, a cominciare da Obama la cui presenza e’ annunciata per venerdi’.
Questi i principali paletti entro cui si muove la trattativa.
Il primo punto di discussione è quale sia il limite massimo di aumento della temperatura media mondiale (rispetto ai livelli pre-industriali) da inserire nel documento finale. Oggi siamo a +0,8 C°, è probabile che si troverà  l’accordo sui 2 gradi ma i Paesi più esposti alle conseguenze del global warming, come le Maldive e gli arcipelaghi del Pacifico che per l’innalzamento dei mari vedono minacciata la loro stessa sopravvivenza, spingono per abbassare il limite a 1,5 gradi.
Naturalmente, il problema vero è stabilire le azioni e i controlli utili a raggiungere questo obiettivo. Il Protocollo di Kyoto è tutt’altro che fallito, visto che i 37 Paesi aderenti hanno ridotto le loro emissioni climalteranti del 16% rispetto al 1990. Ora si tratta di proseguire in questo cammino di riduzione e di coinvolgervi in particolare i grandi Paesi emergenti (Cina, India, Brasile). L’Europa si è già  impegnata a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020, e sarebbe disponibile ad arrivare al 30% se a Copenaghen si chiude un accordo globale. Tutto questo è molto ma non basta: se gli Stati Uniti e la Cina, i due veri king-maker del negoziato, non adotteranno obiettivi ugualmente ambiziosi, e se i Paesi industrializzati non trasferiranno ingenti risorse e tecnologie energetiche innovative ai Paesi in via di sviluppo, la possibilita’ di invertire la tendenza al cambiamento climatico prima che siano raggiunti i 2 gradi di riscaldamento, sopra i quali le conseguenze sociali, economiche ambientali dei cambiamenti climatici sarebbero devastanti, resterà  una bella intenzione. Intanto i Paesi piu’ poveri riuniti nel G77 chiedono con sempre maggiore insistenza che le economie sviluppate e quelle emergenti prendano impegni vincolanti e quantitativi di riduzione delle emissioni.
Infine una nota di colore. Mentre Obama, Sarkozy, Brown e Merkel s’incontrano in video conferenza per concordare i prossimi passi per giungere a un accordo, il capo della delegazione italiana Stefania Prestigiacomo lascia il vertice e dedica la sua giornata a presentare la nuova bicicletta elettrica prodotta dalla Ducati. 
 

ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Il movimento no global post ideologico

COPENHAGEN, 14 DICENBRE 2009

Da Copenhagen e dal Bella Center subito due notizie, una buona ed una cattiva: il fatto positivo è che in fila per ritirare il pass della Conferenza ci sono tutti, una fila “democratica”, con giornalisti, scienziati, membri di organizzazioni non governative, personale tecnico, parlamentari, una folla variegata proveniente da tutto il mondo, convinta e felice di esserci. La notizia cattiva è che la fila dura almeno 5 ore, con la temperatura stabile sullo 0 e con un pungente vento da nord, e che alla fine non riescono nemmeno ad entrare tutti. Il sistema di registrazione degli accrediti dei danesi è semplicemente andato in tilt, perché l’affluenza è stata ben oltre le aspettative e decisamente maggiore rispetto ai vertici internazionali degli ultimi anni. Insomma, in vista di un accordo che sia nell’ottica del ‘people first’, a Copenhagen da oggi è rappresentato tutto, ma proprio tutto il mondo, accomunato nella consapevolezza della portata storica di questa conferenza: dal ministro dell’Ambiente algerino Djemouai Kamel, che ha spiegato come non ci sia motivo perché i leader degli stati africani rimangano al vertice se il protocollo di Kyoto viene accantonato, al presidente delle Maldive Mohammed Nasheed,  che grazie al  primo Consiglio dei ministri subacqueo della storia ha acceso i riflettori sul destino del suo Paese se non si vincerà  la sfida contro il climate change. Copenhagen segna inoltre un passaggio storico importante per un movimento, quello che per grandi linee è  stato battezzato a suo tempo no-global, che entra forse in una fase post-ideologica. Ne è passato di tempo da Seattle, in cui  l’imperativo no-global era bloccare a tutti i costi quella riunione. A Copenhagen pare invece che il confronto su un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere, possa segnare in un certo senso il passaggio all’età  adulta del movimento anti-globalizzazione. Le migliaia di giovani che già  sabato hanno partecipato alla manifestazione, ignorando i black block come un corpo estraneo, e che partecipano con passione e attenzione ai dibattiti organizzati dalle Ong al Klimaforum, rappresentano la novità  forse più forte di questa prima settimana a Copenaghen. Quel che è certo è che l’Italia e il suo Governo da qui appaiono ancor più marginali e provinciali, e le parole improntate al più cieco negazionismo climatico che in questi ultimi tempi sono state pronunciate a più riprese dagli esponenti del centrodestra italiano sembrano provenire da un tempo veramente lontano. Insomma, mentre a Copenhagen si discute e si tratta per un accordo storico, in Italia purtroppo il tempo si è fermato.
ROBERTO DELLA SETA
FRANCESCO FERRANTE

Occasione Termini Imerese

Nella crisi, le cui conseguenze sociali non sono affatto terminate, la vicenda di Termini Imeese è davvero emblematica. Lo è per molti motivi: perché riguarda la più importante industria italiana, quella indissolubilmente legata, nella realtà  e nel nostro immaginario collettivo, ai destini dell’intero Paese; perché coinvolge migliaia di lavoratori; perché interessa l’area più fragile, il Mezzogiorno. Ma rischia di essere emblematica anche dell’incapacità  di avere lo “sguardo lungo” necessario per uscire dalla crisi in modo stabile.

La domanda da farsi è se è davvero intestardirsi nel trovare il modo di continuare a costruire automobili in quello stabilimento, il modo migliore per rispondere alle preoccupazioni dei lavoratori e delle loro famiglie o se piuttosto bisognerebbe sfruttare questa crisi drammatica per costruire un’ipotesi diversa e più solida. E’ sicuro che si deve difendere con forza la vocazione industriale di Termini e che si devono chiedere garanzie molto più forti alla Fiat di quante l’azienda sino adesso sembra disposta a concedere. Molto meno credibile è chiedere che si aumenti la produzione di automobili nel nostro Paese. Dobbiamo al contrario considerare l’idea che in futuro se ne produrranno sempre meno. E, almeno in questa parte del mondo, si tratta di un futuro immediato. Infatti se prendiamo sul serio il trend di uscita dall’”era del fossile”, e bisogna farlo a meno di non considerare tutte le più significative leadership mondiali – da Obama alla Merkel, da Sarkozy all’intero panorama politico britannico – dei cantastorie, dobbiamo anche considerare il fatto che inevitabilmente si dovrà  marciare oltre quella “civiltà  dell’automobile” che ha segnato la storia del secolo scorso. Sta già  succedendo, e succederà  anche in Italia che vanta l’indegno primato europeo del trasporto delle merci su gomma (il 78%). Certo modificare il modo in cui muoviamo persone e merci costituisce una rivoluzione persino più importante di quella energetica, ma non è solo indispensabile per affrontare i cambiamenti climatici è anche la strada obbligata per liberarci dalla dipendenza dalle importazioni di petrolio.

Ma allora se questo è il futuro che ci attende, non utopia, ma realtà  concreta che certo avrebbe bisogno di “visione” nelle leadership, che senso ha destinare i fondi, i contributi che alla fine verranno fuori nella trattativa tra Fiat e istituzioni (Governo e Regione), a tenere in vita artificialmente una produzione “non conveniente”, rimandandone la morte inevitabile di qualche mese o al più di qualche anno? Non sarebbe meglio prendere sul serio l’idea di utilizzare Termini per un polo delle energie rinnovabili dove si fa ricerca e si costruiscono materialmente gli impianti puntando con forza sull’innovazione tecnologica? Spendere quei soldi non “a fondo perduto” ma per riconvertire quell’industria  e dare un futuro davvero duraturo a quei lavoratori? Non sarebbe questo l’inizio finalmente di un vero Piano Sud che punti a mettere in grado il nostro Mezzogiorno di sfruttare le proprie risorse? Per farlo però abbiamo bisogno di liberarci dal riflesso condizionato per cui di fronte alla crisi l’unica risposta che sappiamo trovare è la difesa dell’esistente, sempre e comunque. Un vizio non solo della destra conservatrice che nulla vuole cambiare, un vizio troppo spesso anche nostro, del centrosinistra che così manca alla sua vocazione riformista. Proviamo a liberarcene, forze politiche e sindacali, proviamo a trovare risposte originali e dense di speranza proprio a partire da Termini Imprese.  Forse così non si sprecherebbe la crisi e si coglierebbe l’occasione per costruire un futuro migliore.

 

FRANCESCO FERRANTE

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