Il Lingotto, un’idea dell’Italia
Grazie all’intervento di Matteo Orfini pubblicato su Europa di qualche giorno fa, abbiamo finalmente capito il problema vero del Pd, la ragione per la quale in due anni abbiamo perso cinque milioni di voti: la colpa di tutto è del Lingotto, «summa teorica – così Orfini – di una visione dell’Italia mutuata da tutte le narrazioni dominanti nel ristretto circuito delle nostre classi dirigenti».
Lasciando da parte l’ironia, che vuol dire questo giudizio così sommario e liquidatorio? A prima vista esprime più che altro lo zelante riflesso pavloviano del più giovane dei pupilli dalemiani che inchioda il Pd di oggi a quella stessa cifra conflittuale – D’Alema contro Veltroni – che ha segnato ed estenuato la sinistra nell’ultimo quindicennio.
In realtà , qualcosa di più comprensibile Orfini la dice. Secondo lui il peccato originale del Pd sarebbe stato, da una parte, di non avere «una propria idea dell’Italia», dall’altra di cedere a un’idea leaderistica della politica costituendosi esso stesso come «un partito a evidente vocazione presidenziale».
A noi, che non veniamo da questa storia infinita di odii fratricidi tutta interna ai gruppi dirigenti del PciPds/Ds (ed ereditata, evidentemente, dai loro “discendenti”), a noi che come tanti non ne possiamo più di vederla replicata in sedicesimo anche nella nuova “casa” democratica, sembra al contrario che se il discorso del Lingotto aveva un pregio, era proprio di indicare con chiarezza una idea dell’Italia, fondata su valori e obiettivi che cercavano di oltrepassare il perimetro un po’ angusto e datato delle categorie post-comuniste e post-democristiane: l’ambiente come criterio decisivo per costruire una più credibile e convincente prospettiva di benessere sociale e di sviluppo economico, una lotta senza quartiere contro ogni forma di illegalità e contro le troppe cadute di etica pubblica che lambivano (e lambiscono) la nostra parte politica, una nozione totalmente rinnovata di giustizia sociale con al centro temi ed esigenze – priorità assoluta al merito, un welfare che dia molto più spazio ai bisogni e alle attese dei giovani – non proprio connaturati alla sinistra novecentesca.
E poi la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, che in fin dei conti è un concetto persino banale: un partito che come il nostro ambisce a rappresentare almeno un terzo degli italiani e a governare l’Italia per contribuire a cambiarla in meglio, prima decide la sua proposta al paese e poi su quella base verifica le possibili alleanze.
Quanto a un presunto vizio d’origine presidenzialista del Pd, basta un’unica domanda retorica: esistono oggi nei paesi democratici casi di partiti o schieramenti maggioritari che giungano al governo senza poter contare su una forte, riconosciuta leadership personale? A noi risulta di no, e ci sembra che questo dato d’evidenza faccia giustizia tanto dell’addebito mosso da Orfini come della balzana idea di Prodi, Chiamparino e soci per cui il leader nazionale del Pd dovrebbe essere una sorta di amministratore di condominio che agisce su delega di venti segretari regionali.
La verità è che il Pd, per ora, è un partito mai nato, appunto perché l’ambizione di allargarsi oltre il recinto ideale e programmatico delle tradizioni di provenienza non è diventata patrimonio condiviso dei gruppi dirigenti. Insomma siamo ancora in pieno travaglio, solo che non c’è più molto tempo per evitare che il bambino nasca già morto.
Per attecchire nell’Italia di oggi, il Pd deve guardare meno al proprio ombelico e molto di più ai bisogni e alle aspirazioni degli italiani. Mettendo per esempio al centro del suo discorso – è la nostra fissazione, ma nel mondo siamo in buona compagnia – quella “green economy” che significa politiche “contemporanee” per il lavoro, per lo sviluppo, per l’innovazione, per la coesione e la qualità sociali.
Il Pd è capace di farsi l’alfiere di questa sfida, come Obama in America o le forze emergenti dell’ecologismo riformista in Europa? Per quanto ci riguarda, soprattutto a domande come questa i prossimi mesi di navigazione del Pd dovranno dare risposta.
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante