Articoli usciti sul quotidiano “Europa”

Curiosi, coraggiosi, autonomi

Intervento pubblicato sul libro “Ricomincio da trenta” di Legambiente

 

Trent’anni di storia per guardare ai prossimi con l’orgoglio di chi sa di avere costruito una realtà  diffusa, forte e utile, e con la consapevolezza che ancora moltissimo c’è da fare se vogliamo davvero essere protagonisti del cambiamento necessario a questo Paese. Questa è la “mia” Legambiente, quella che ho conosciuto nell’autunno del 1987, quando la incontrai da obiettore di coscienza, e che non ho più lasciato. Per raccontarla e per offrire qualche suggestione di azione per il futuro penso che siano ancora utili tre parole chiave: curiosità , coraggio, autonomia.
La curiosità  che ci ha sempre fatto guardare agli altri con spirito aperto e la voglia di comprenderne le ragioni senza accontentarci di risposte scontate. Quando nel 1990 perdemmo (per il mancato raggiungimento del quorum) i referendum su caccia e pesticidi scontrandoci aspramente con cacciatori e agricoltori, era difficile prevedere che con quegli stessi soggetti avremmo intrecciato relazioni e alleanze. E invece scavalcando steccati e cercando sempre nuovi interlocutori, oggi con l’Arcicaccia di Veneziano e Ciarafoni insieme facciamo fronte contro iniziative pericolose che vogliono sconvolgere la normativa sulla caccia, con la Coldiretti di Marini, Pasquali e Masini condividiamo la lotta senza quartiere agli Ogm, con la Cia di Politi conduciamo insieme tante battaglie – e faccio i nomi perché le storie delle associazioni sono le storie e le relazioni delle persone che si dedicano a quelle associazioni. Ma soprattutto è la curiosità  di conoscere la realtà  per quella che è, che ci ha portato a girare l’Italia in lungo e in largo con i nostri circoli e che ci ha spinto ad andare sempre un po’ “oltre” i nostri stessi confini. Legambiente è, sin dall’origine, la rete dei suoi circoli e la sua forza è testimoniata dalla nascita di nuovi gruppi che ogni anno aderiscono all’associazione. Ma noi non saremmo noi stessi e non saremmo stati così originali e utili se non avessimo assorbito energie, idee, anche azioni da quella che, con una felice metafora, Fabio Renzi ha chiamato la “Legambiente fuori di noi”, i tanti magari ispirati dal nostro stesso “spirito civile” che però non necessariamente incrociavano l’associazione nelle sue articolazioni organizzative ancora troppo gracili.
Quella curiosità  ci ha consentito di crescere bene, ed è essenziale quando troppo spesso prevalgono letture della società  figlie di tradizioni culturali vecchie che deformano la realtà .
E senza il coraggio di prendere posizioni, anche scomode, ma sempre coerenti avremmo corso il rischio di essere solo un sintomo di una malattia, e invece abbiamo sempre coltivato l’ambizione di essere parte della terapia. Non ci siamo mai accontentati della denuncia delle distorsioni dello sviluppo, abbiamo voluto sempre proporre la costruzione di un’alternativa radicalmente diversa e allo stesso tempo realizzabile. Su due questioni “classiche” dell’impegno ambientalista, energia e rifiuti, con ostinazione – e il tempo ci ha dato e ci darà  ragione – abbiamo ripetuto che la strada da imboccare era quella delle rinnovabili e del risparmio energetico per marciare verso l’uscita dall’”era dei fossili” e che si doveva lavorare su riduzione e raccolta differenziata per evitare che le nostre città  fossero sepolte dai rifiuti, ma mai abbiamo temuto di difendere le rinnovabili e in particolare l’eolico da sedicenti ambientalisti in realtà  esponenti del conservatorismo più becero, e mai sui rifiuti abbiamo ceduto a demagogie – penso alle improbabili proposte di moratorie su discariche e inceneritori – che impedivano la risoluzione dei problemi. E’ proprio questo coraggio, che ci fa tenere la barra dritta nella direzione del cambiamento, che garantisce a Legambiente quell’autorevolezza e quella credibilità  – conquistata anche con le nostre campagne di analisi scientifiche – che ci viene quasi unanimemente riconosciuta e che abbiamo conquistato non solo tra i nostri amici, ma anche negli interlocutori e persino tra gli avversari.
Un credibilità  che sarebbe impossibile senza l’autonomia. Io sono cresciuto in Legambiente “mangiando pane e autonomia” e credo di essermi impegnato a farla mangiare a quelli più giovani che sono cresciuti con me in associazione, a Roma e sul territorio. Autonomia dagli schieramenti politici e dai poteri economici, e non appaia strano che proprio sulle relazioni con questi mondi sono state sempre mosse a Legambiente le accuse più forti. In politica siamo stati descritti prima come “comunisti travestiti”, poi come fiancheggiatori dei “verdi”, infine con le scelte, prima di Ermete Realacci e poi mia e di Roberto Della Seta, come un “pezzo” del nascente Partito Democratico. Tutte sciocchezze ovviamente che la pratica autonoma di Legambiente si è sempre incaricata di smentire in questi trent’anni, ma un prezzo forse inevitabile da pagare anche in futuro per chi come noi mai ha rinunciato a interloquire e a cercare di influire sulla politica, tanto che alcuni “amici”, quando Matteoli era Ministro dell’ambiente e noi mantenevamo un forte dialogo e confronto con lui, ci accusarono persino di intelligenza con il nemico. E anche sul fronte del rapporto con le imprese in tanti male digeriscono il fatto che scegliamo come sponsor delle nostre campagne persino colossi multinazionali, non sempre impegnati in attività  sostenibili. Ma senza quei rapporti, quelle relazioni, a volte anche aspre, quanto perderemmo in capacità  di influenzare i processi reali dell’economia!?
In questi trent’anni queste tre parole chiave hanno indirizzato, guidato le nostre scelte, grazie alle quali questa comunità  di uomini e donne che si chiama Legambiente è diventato un fenomeno importante e rispettato della società  italiana. Ispirino le nostre azioni anche in futuro e sono certo che potremo davvero contribuire a un futuro migliore.
P. S. Per scrivere questo pezzo ho dovuto vincere la tentazione dell’amarcord e di raccontare delle persone in carne ed ossa, molte meravigliose, che ho incontrato in Legambiente in questi vent’anni e più. Mi resta la voglia, me la toglierò fra dieci anni.

Legambiente: la sfida verde compie trent’anni

Trent’anni fa nasceva Legambiente. E’ passato veramente tanto tempo, basti dire che il suo primo presidente è stato Chicco Testa, a quel tempo comunista convinto e anti-nuclearista duro e puro, e che l’Italia di calcio doveva ancora vincere il suo primo mondiale del dopoguerra.
La sede iniziale dell’associazione fu in  due stanze di un ufficio dell’Arci, l’associazione culturale dei partiti di sinistra, in coabitazione con l’Arci Caccia. Contiguità  forse paradossale, o forse già  un segno dell’originalità , per qualcuno dell’anomalia, del nostro ambientalismo, una prima traccia di ciò che volevamo diventare: un’associazione ecologista molto radicale nelle idee e nelle proposte, ma decisa ad aprire la questione ambientale alla contaminazione con mondi, interessi, bisogni apparentemente lontani. Decisa ad utilizzare la ragione ecologica, come spesso ricorda Ermete Realacci, non solo per denunciare i mali  dell’ambiente maltrattato, ma soprattutto quale leva per un  cambiamento sociale complessivo. Questa ispirazione ci ha spinto, di volta in volta, a condividere analisi e proposte sulla tutela della fauna insieme con i cacciatori, sul no agli Ogm con gli agricoltori, sull’edilizia e l’urbanistica sostenibili con le associazioni dei costruttori, sulla lotta alle ecomafie con l’Arma dei Carabinieri, sul buon governo del territorio con centinaia di sindaci di piccoli comuni.  
Oggi Legambiente è un’organizzazione grande e solida. Non tocca a noi che ne abbiamo diviso gran parte del cammino, tracciare il bilancio di questi tre decenni. Qualcosa invece ci preme dire sul presente e sul futuro dell’ambientalismo. Di fronte a problemi planetari drammatici come il riscaldamento globale, di fronte a una crisi globale che vede saldate crisi finanziaria, economica, energetica, di fronte a problemi italiani che sembrano quasi perpetui come il dissesto di larga parte del nostro territorio o l’estrema difficoltà  del Paese, delle sue classi dirigenti, ad imboccare la via di una vera innovazione industriale e produttiva che nel segno della sostenibilità , chi si batte per le ragioni dell’ecologia non ha che una scelta: moltiplicare gli sforzi perché l’ambiente sia pienamente assunto, nella consapevolezza delle persone e nelle scelte di chi decide anche per gli altri, come pietra angolare del progresso.
Per vincere questa partita bisognerebbe che i “corpi intermedi” – l’associazionismo, il volontariato, il terzo settore, le innumerevoli forme della cittadinanza attiva  -, forse i presìdi principali dell’interesse generale in un Paese che nella politica come nella società  appare sempre più frammentato e ripiegato, prendessero un po’ più di spazio nel dibattito pubblico, che mostrassero un po’ più di civile “arroganza”. Altrimenti si corre il rischio che le mille Legambiente che ci sono facciano egregiamente il loro mestiere, e che intanto l’Italia se ne vada alla deriva. 
Roberto Della Seta
Francesco Ferrante
 

La green economy nella “tavola dei colori” dem

Berlusconi ha ragione: un problema dell’Italia è che nella sinistra pesa 

troppo l’eredità  comunista. Solo che per come la mette lui, questo è ciò che 

rende minacciosa l’alternativa rappresentata oggi dal Pd e ieri dai Ds e dai 

loro alleati, mentre in realtà  è stata la salvezza del berlusconismo, la 

ragione principale per cui il centrosinistra è sempre meno competitivo. 

Come ha detto Walter Veltroni intervenendo al convegno di Area democratica a 

Cortona, il Pd per lanciare alla destra una sfida credibile e potenzialmente 

vincente deve gettare la zavorra che ha impedito finora l’affermazione in 

Italia di un vero riformismo. Questa prospettiva non può nascere dalla fusione 

di due tradizioni – quella comunista, quella cattolico-democratica – che 

troppi di noi continuano a raccontare, e a raccontarsi, come riformiste ma che 

propriamente riformiste non sono mai state e anzi presentano un alto tasso di 

conservatorismo. Deve certo, il Pd, tenersi stretto il meglio di quelle storie 

– che ha la sua sintesi più degna e attuale nell’impronta solidarista della 

nostra Costituzione – ma soprattutto deve trovare nuovi linguaggi, nuovi 

contenuti culturali e programmatici. 

Per questo è nato il Pd, ma in meno di tre anni quel progetto è franato. La 

distanza enorme tra il Pd del 2007-2008 e quello di oggi è un fatto persino 

ovvio. 

Distanza nei numeri, distanza nelle ambizioni, a cominciare dalla cosiddetta 

“vocazione maggioritaria”. Abbiamo perso in due anni 5 milioni di voti, ormai 

chi ci vota lo fa per abitudine, per appartenenza, per nostalgia, talvolta per 

apprezzamento verso una buona tradizione amministrativa, ma non certo perché 

facciamo intravedere un’idea di futuro, una prospettiva di governo che siano 

realistiche e attraenti. 

Tutti i nostri competitori (Pdl, Lega, Idv) sono identificabili e identificati 

con quattro, cinque parole chiave. Noi no, e questo perché noi per primi non 

sapremmo indicare in modo condiviso cinque parole nelle quali ci riconosciamo 

come partito. 

Questa incertezza identitaria produce, tra i suoi effetti più deteriori, la 

tentazione ricorrente di metterci al traino di altri con l’idea che così ci 

possiamo appropriare di sensibilità , aspirazioni che ci sembrano popolari, “di 

moda”. Di volta in volta, quest’abitudine ci fa compiere improbabili 

incursioni a destra come a sinistra, con effetti velleitari e talvolta 

cacofonici che si tratti di qualche nostro dirigente che fa il verso ai 

leghisti sulla sicurezza o magari dell’intero partito che si accoda al 

cosiddetto popolo viola. Ma ciò non solo certifica la minorità , la 

subalternità  culturale del Pd, è anche un’idea illusoria sul piano tattico: 

fare il “vagone”, spesso l’ultimo vagone di coda, di un treno guidato da altri 

non porta infatti alcun consenso. 

Sempre a Cortona Paolo Gentiloni ha sottolineato che il Pd ha un senso e un 

futuro se recupera in fretta la sua ispirazione originaria. Questo significa, 

in concreto, batterci prima ancora che per trovare un’identità , per ritrovare 

credibilità . Spesso diciamo cose che in molti considerano giuste e importanti 

ma che dette da noi suonano poco credibili. 

Ciò accade per esempio sul terreno dell’etica pubblica. Se vogliamo che gli 

italiani ci affidino le loro speranze di una politica più pulita e 

trasparente, meno separata dalla società , il primo passo è fare pulizia e 

creare trasparenza in casa nostra, a cominciare dal Mezzogiorno dove i nostri 

gruppi dirigenti sono in più di un caso altrettanto opachi e impresentabili di 

quelli della destra. 

Se non partiamo da qui, è del tutto inutile lanciare allarmi contro 

l’astensionismo, contro l’anti-politica, contro chi ci vede come “casta”. 

Poi dobbiamo impegnarci per selezionare e presentare la nostra “tavola dei 

colori”, avendo piena coscienza che per scegliere colori sensati e 

convincenti, colori che ci scrollino di dosso l’immagine di partito 

“conservatore”, serve andare ben oltre il recinto programmatico e valoriale 

che era di Ds e Margherita. 

Della “tavola dei colori” di cui abbiamo bisogno l’ambiente, se si preferisce 

la green economy, è una parte essenziale: indispensabile, lo ricordava pochi 

giorni fa su queste pagine Ermete Realacci, per ragionare di sviluppo con gli 

occhi e la testa in questo secolo e per riannodare un rapporto con molti mondi 

sociali e produttivi che oggi ci ignorano o ci snobbano (nell’economia reale, 

noi richiede le maggiori discontinuità  e innovazione, essendo quasi del tutto estranea alle famiglie politiche fondatrici del Pd. E richiede prima di tutto che torniamo a coltivare la nostra vocazione maggioritaria: se infatti il Pd sceglie la strada di un’identità  troppo parziale e decisamente antica, qual è la somma tra post-comunisti e post-democristiani, l’ambiente cercherà  e troverà  altre vie per farsi spazio nell’offerta politica. Non è obbligatorio che tocchi a noi rappresentare questa sensibilità , basta dare un’occhiata in giro per il mondo: qualche volta, per esempio nell’America di Obama, sono i grandi partiti progressisti a intestarsi con forza la questione ambientale, in tanti altri casi sono forze squsitamente ecologiste, come i Verdi in Germania o Europe Ecologie in Francia, o magari come in Inghilterra sono i Liberali ed è addirittura la destra che ha vinto le elezioni con un programma molto più verde di quello di Brown. O in Italia questo tema lo innalza il Pd, oppure quanti non si rassegnano al fatto che a prendere voti in nome dell’ambiente siano solo i “grillini”, finiranno per rivolgersi altrove. 

Per quanto ci riguarda, il punto non è minacciare scissioni o abbandoni, è 

molto più banale. Se stessimo in Germania o in Francia, da ecologisti 

“riformisti” sceglieremmo i Verdi o Cohn-Bendit, se votassimo in Inghilterra 

sceglieremmo i liberali di Clegg. In Italia faticheremmo a scegliere il Pd se diventa un partito cripto- socialista oppure la replica fuori tempo di un 

compromesso storico che di storico, a questo punto, non avrebbe più nulla. 

 

Roberto Della Seta e Francesco Ferrante 

 

 

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